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Marriage Story - Storia di un Matrimonio

Summary:

"Me lo avevi promesso Stolas" la voce di Stella, rotta dal pianto, gonfia di rancore "Mi avevi promesso che non avremmo mai più dovuto fare niente!"
Stolas la fissò confuso, spalancando gli occhi cremisi in un'espressione di sorpresa e preoccupazione.
"Te ne stai tutto il giorno rinchiuso con le tue fottute piante, e le tue fottute magie mentre mio fratello discute con tuo padre di come io si inutile a questa famiglia se non ti do un maledetto erede."
****
Stella nello show è quasi una macchietta, un personaggio fatto per risultare fastidioso e cattivo (e la odiamo/amiamo per questo!) ma a conti fatti è vittima anche lei di un matrimonio combinato, e quello che vediamo sulla superficie è forse frutto degli anni che l'hanno incattivita ed inaridita. Non vuole essere una storia di assoluzione, vuole essere una storia di ragazzi dal destino già scritto, di persone chiuse nelle loro solitudini e dei loro sogni infranti.

(PS: Non c'entra niente col film del 2019 con Scarlett Johansson e Adam Driver, scusate per l'omonimia!)

Notes:

Non sono brava in queste cose! Se vi piace lasciate un like e un commento!
I capitoli problematici avranno un disclaimer iniziale!
Grazie per l'attenzione, buona lettura!

Chapter 1: Promesse Infrante

Chapter Text

Promesse infrante

 

"Sono passati otto mesi Andrealphus" Paimon se ne stava erto e immobile, gli occhi semichiusi a scrutare qualsiasi omissione nell'animo del suo interlocutore "Otto mesi e nemmeno la più blanda traccia di un erede."

"Vostra altezza, come ben saprà per queste cose non è...ehm... automatico. Talvolta ci vuole più tempo, lo stress, le complicazioni, le condizioni fisiche..." L'inflessione della voce vibrò di timore sul finire della frase.

"Già" Paimon mosse il capo in segno di assenso "Le condizioni fisiche..." tacque, meditabondo, "forse la principessa non è in grado di, come dire, adempiere al proprio compito."

"Signore... ehm... vostra altezza io non credo che..." Andrealphus non avrebbe osato accennare a delle colpe condivise tra sua sorella e il figlio del suo signore, ormai sposini da ben otto mesi e senza neppure l'accenno di una gravidanza.

"L'accordo era che fosse di sangue reale, di ottima educazione, bella e fertile." lo interruppe il re dei Goetia.

Andrealphus si passò una mano sul volto, ingoiò un grumo di saliva che gli si era accumulato in bocca "Io non credo che ci siano... io so che non ci sono dei problemi di... ehm... fertilità."

"Sai bene che tua sorella non era l'unica scelta... né la prima. Ho lasciato che questo matrimonio si facesse per la stima che mi lega a tuo padre, Andrealphus, e perché me l'avete educata bene, come desideravo, e perché la pubertà è stata clemente con lei."

Andrealphus era pieno di rabbia e di una sensazione nuova e terribile che non sembrava aver conosciuto prima, un brivido gli percorse la spina dorsale, sentì la bocca farsi secca e pastosa e le parole morirgli in gola.

"Un anno" sentenziò Paimon "Tra un anno o avrò un nipote, o avrò un figlio nuovamente scapolo."

Andrealphus  non riuscì a controbattere, accennò un "sì" con il capo e si congedò.

Uscendo ebbe l'impressione di aver sentito il fruscio di una veste, il ticchettare di tacchi sul pavimento di marmo, ma nell'ampio corridoio non c'era nessuno; ma in fondo, dietro una delle porte chiuse, la principessa se ne stava accovacciata, in silenzio, nel buio, a soffocare con entrambe le mani i singhiozzi, mentre grosse lacrime le rigavano il viso.

***

Il principe era, come sempre, nella sua biblioteca, nel torrione est del palazzo. Un velo di malinconia sul cuore, mentre si esercitava nell'evocazione di portali dimensionali. Altri mondi, una fuga, dalle responsabilità, da suo padre che lo considerava una delusione, dalla sua vita già scritta.

"Me lo avevi promesso Stolas" la voce di Stella, rotta dal pianto, gonfia di rancore "Mi avevi promesso che non avremmo mai più dovuto fare niente!"

Stolas la fissò confuso, spalancando gli occhi cremisi in un'espressione di sorpresa e preoccupazione.

"Te ne stai tutto il giorno rinchiuso con le tue fottute piante, e le tue fottute magie mentre mio fratello discute con tuo padre di come io si inutile a questa famiglia se non ti do un maledetto erede." Stella lo colpì goffamente al petto, più volte, non gli faceva alcun male, non fisicamente almeno.
Lui le prese delicatamente i polsi, e ne percorse la linea fino a stringerle le mani.

"Io... loro sapranno che ci vuole tempo e se non arriverà sarà stata sfortuna, noi non dobbiamo per forza... insomma...lo sai" balbettò "Possiamo essere buoni amici, farlo funzionare, io non ti toccherò più se non lo vuoi. La notte del nostro matrimonio..." sospirò "...quella notte noi abbiamo dovuto, ma non dobbiamo, mai più, ne abbiamo parlato..." Sospirò, avvicinando le sue mani alla bocca le posò un bacio leggero sulle dita. "L'amore, lo sapevamo fin da bambini, non è qualcosa che ci avrebbe dato questa vita; ma noi possiamo... andare d'accordo, passare dei momenti sereni... So che non ti piaccio Stella, non voglio piacerti, voglio solo che questo matrimonio non sia una prigione."

"Ma non lo capisci?" Stella gli lanciò uno sguardo duro, di disappunto e delusione "Non lo capisci che queste sono inutili fantasie? Se io non ti darò un erede e allora ti daranno una nuova scintillante moglie migliore, e io sarò la povera ragazza ripudiata perché inutile all'unico compito che conta davvero. Non mi prenderà neppure l'ultimo dei fottuti imp dell'Inferno Stolas, e mio padre, mio padre... lui..." Iniziò a piangere istericamente, ricadde sulle ginocchia mentre ancora Stolas le teneva le mani. L'ampia veste la faceva apparire come un angelo caduto in gesto di preghiera.

La bocca del principe si arcuò in un'espressione di tristezza e impotenza "Alzati" la supplicò a mezza voce.

Ma lei non era più lì, la sua mente era altrove, nelle stanze di un palazzo diverso, in un corpetto troppo stretto per quella che era ancora una bambina. Vedeva il volto severo di suo padre scrutarne il portamento, la disapprovazione nei suoi occhi se non era perfetta nel canto. Sentiva il bruciore di uno schiaffo sulle sue guance quando osava contraddirlo, i lividi sulle cosce per le botte troppo forti quelle volte che aveva trovato la forza di disobbedire.
E adesso gli avrebbe dato un'altra delusione, l'ennesima delusione, avrebbe solo voluto essere una buona moglie, riuscire a farsi piacere suo marito, ma non c'era nessuna connessione, nessuna chimica, non funzionavano. Era un bravo ragazzo, nulla di più: dolce, anche troppo, non aveva più osato toccarla da otto mesi, solo perché lei glielo aveva chiesto. Forse avrebbe dovuto ritenersi fortunata, che lui non la forzasse, che non si aspettasse nulla. Ma il rispetto del principe sarebbe stata la sua rovina. Le sue compagne del collegio, violate ogni notte dalle mani egoiste di un marito che non ricorda nemmeno il loro nome, le sembravano le più fortunate della terra, avevano avuto figli, reso fieri i loro genitori, e soprattutto non avrebbero mai più dovuto rimettere piede nella casa paterna. Dopotutto sarebbe stato solo sesso, e forse non era niente di insopportabile rispetto alle botte e le umiliazioni che l'avrebbero aspettata a casa di suo padre.

Chapter 2: L'amore non è qualcosa che diventa, l'amore è qualcosa che è

Summary:

"Avrete... Avrai delle aspirazioni, dei sogni, no? Qualcosa di più di quello che dobbiamo fare... Hai dei desideri? Un'idea di come vorresti che andasse la tua vita?" Gli aveva chiesto Stella, a pochi mesi dal matrimonio.

Stolas si era irrigidito... Sogni? Ne aveva molti, avrebbe voluto vedere il mondo di sopra, per esempio. Oh, e magari scoprire una nuova specie di una qualche pianta infernale. E oh...tornare al circo un'altra volta almeno... e avere almeno un amico. Innamorarsi davvero. Gli sembrarono tutti desideri sciocchi e irrealizzabili.

"Immagino non ci sia concesso sognare."

***

Due giovani ragazzi alle prese con una situazione più grande di loro

Notes:

Non c'è molto da dire, i nostri due giovani promessi sposi hanno due visioni diametralmente opposte della vita e del matrimonio!

Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate con un like o un commento, mi farebbe tanto piacere!

Chapter Text

L'amore non è qualcosa che diventa, l'amore è qualcosa che è.

 

Stolas aspettò che lei si addormentasse, la accompagnò tra i singhiozzi e i sospiri. Lei non gli raccontò i dettagli di quello che aveva sentito nascosta sulla soglia della sala del trono, ma lui poteva intuirlo, il loro matrimonio si era fatto soltanto per quello, un erede. E non un erede qualsiasi, bensì la più sciocca delle pretese, un erede per precauzione.

Ora il principe camminava nella serra buia, illuminata solo da un firmamento fitto e dalla luna crescente.
Ripensava al giorno in cui si erano incontrati per la prima volta. Avevano 14 anni ed erano promessi da due, lui era un ragazzini sereno, pacato, forse un po' troppo tendente alla malinconia, ma curioso della vita e sognatore.
Lei una ragazzina energica dal carattere forte e ribelle, sembrava più grande della sua età, di certo meno ingenua delle sue amiche della scuola privata che sognavano l'amore e il matrimonio da fiaba. A 13 anni sapeva già bene che il matrimonio poteva essere solo due cose: una fuga dall'attuale prigione o una prigione diversa. Per sua madre, per esempio, era stata una prigione a cui non era sopravvissuta.

"Ho letto le vostre lettere, principe" aveva detto ad un tratto, mentre passeggiavano dandosi il braccio "È curioso come riusciate a parlarmi dei grandi misteri dell' universo e non mi abbiate mai svelato nulla di voi."

Il giovane Stolas l'aveva guardata confuso, cosa avrebbe dovuto sapere di lui? Di un'infanzia solitaria passata a leggere libri di botanica, di un'adolescenza tra fiabe confortanti in cui erano descritti amori che non avrebbe mai vissuto? Dell'unico amico che avesse mai avuto, dell'avventura infantile di un giorno solo in cui aveva conosciuto l'amicizia? L'intera vita del principe era nei libri e nel cielo, e tanto bastava per conoscerlo.

"Non ho tante cose da svelare, sono così come mi vedi... Anzi, possiamo darci del tu? È stupido parlare in questo modo." aveva risposto.

L'espressione di Stella si era indurita, gli occhi socchiusi e le sopracciglia aggrottate scrutavano negli occhi grigi del suo promesso sposo. Quindi al principe non importava dell'etichetta? Di quello che aveva imparato negli anni quanto era stato uno spreco di tempo? Non ci si dava del voi e poi cos'altro? Non avrebbe voluto danzare ai banchetti?

"Ma i vostri genitori e mio padre... Voi siete di rango più...."

"Sarai mia moglie un giorno, non voglio... Non voglio questa freddezza." Disse Stolas timidamente.

La principessa rimase meditabonda, qualcosa in quella pacatezza le faceva rabbia, a Stolas il matrimonio andava bene, gli andava bene sposare una sconosciuta che aveva visto qualche giorno per le vacanze estive? Nella loro passeggiata erano arrivati nell'aranceto, e lei gli aveva stretto leggermente il braccio, nervosamente.

***
Stavano per compiere 18 anni e nulla era cambiato, non erano riusciti ad abbattere quel muro tra loro.

"Avrete... Avrai delle aspirazioni, dei sogni, no? Qualcosa di più di quello che dobbiamo fare... Hai dei desideri? Un'idea di come vorresti che andasse la tua vita?" Le aveva chiesto Stella, a pochi mesi dal matrimonio.

Stolas si era irrigidito... Sogni? Ne aveva molti, avrebbe voluto vedere il mondo di sopra, per esempio. Oh, e magari scoprire una nuova specie di una qualche pianta infernale. E oh...tornare al circo un'altra volta almeno... e avere almeno un amico. Innamorarsi davvero. Gli sembrarono tutti desideri sciocchi e irrealizzabili.

"Immagino non ci sia concesso sognare."

Quella risposta fu per Stella una pugnalata al cuore. Era dunque così, il ragazzo che la teneva sotto braccio si era già arreso, aveva abbandonato la scintilla per la vita che ardeva forte in lei, quella scintilla che, lo sentiva, l'avrebbe consumata dall'interno.

"Non voglio sposarti Stolas." disse infine "ogni anno prego che qualcosa cambi in questo accordo e non succede mai"

"Io... Lo capisco... Anch'io vorrei un matrimonio d'amore."

Stella rise forte, una risata amara, troppo matura per un' adolescente.

"No Stolas, io non voglio sposarmi affatto. Il matrimonio per noi sarà una lenta agonia, tutti i matrimoni lo sono."

Stolas sembrò non capire.

"Noi non possiamo... Ehm... Opporci... Ma possiamo essere amici, magari col tempo potremmo anche..."

"Ci conosciamo da quattro anni e non abbiamo mai provato niente, non cambierà, l'amore non è una cosa che diventa, l'amore è una cosa che è. Una cosa che accade al primo sguardo, un groviglio caldo nel cuore. Tu non l'hai provata per me, mai. E mai io per te, non c'è la fiamma se non c'è ossigeno, anche io ho studiato scienze, stupido secchione."
Era arrabbiata, non c'erano filtri ormai. Gli diceva quello che pensava senza preoccuparsi dell'approvazione di suo padre, tanto non l'avrebbe saputo mai. Stolas non cercava una donna che lo adorasse, viveva i mesi che lo separavano dal matrimonio con la calma rassegnazione di un condannato a morte.
Per lei ogni giorno era invece una tortura e una preghiera, una lotta tra la dolce resa a una vita piatta ma lontana dal suo inferno familiare e la voglia della fuga, a costo della punizione. La rabbia era l'unico sentimento veramente intenso che avesse mai provato, e certi giorni meditava di abbandonare tutto e tutti nella notte e sparire. Ma era cresciuta sotto il giogo più pesante che potesse trattenerla, quello della propria educazione.

Il principe era ancora nella serra, seduto tra le piante carnivore, illuminato dalla luce della luna. I ricordi del passato lo tormentavano. Avrebbe dovuto opporsi lui a quel matrimonio? Stella sarebbe stata libera? O avrebbe peggiorato le cose? Ma ormai erano sposati da mesi, era tardi, pensò che Stella avesse ragione.
L'amore non è qualcosa che diventa, è qualcosa che è. Si crogiolò nel ricordo di un'avventura di bambino, nel ricordo di un ragazzino clown che gli aveva fatto mettere a soqquadro il palazzo, nell' unico momento di spensieratezza che avesse mai vissuto. Estrasse dal taschino del gilet un bottoncino color oro, apparteneva alla veste del suo primo amico, lo portava con sé come un amuleto nella tasca vicino al cuore.

Chapter 3: Ancora qualche ora di spensieratezza

Summary:

I matrimoni rivelano le ipocrisie delle famiglie, quelli tra reali non fanno eccezioni.
Paimon da' a Stolas un monito che non può essere disatteso, lo stesso da Andrealphus nel confronti di Stella.

Chapter Text

Era l'alba, potevano essere le cinque o le sei, non riusciva a distinguere, con gli occhi annebbiati dal sonno, la sagoma delle lancette sul grande orologio a pendolo dall'altra parte della sala. Una luce color lavanda filtrava dallo spiraglio delle tende che erano state accostate alla buona, segno che non lo aveva fatto la servitù.
Stella si era svegliata sola, come avveniva spesso, ecco un'altra cosa in cui non erano compatibili: Stolas era figlio della notte, il suo astro luminoso era la luna; lei amava il giorno e la luce, e il sole fiammeggiante, il momento in cui tutti erano svegli e c'era sempre qualcosa da fare, qualcosa con cui distrarsi, la notte non le aveva portato che sofferenza e solitudine.
Giocherellò con la fede facendola ruotare avanti e indietro sull'anulare.

Il giorno pensò un tempo era portatore di gioia. Il loro matrimonio era stato di giorno, un giorno estivo e pieno di luce. Nel giardino del palazzo, anche se non era qualcosa che aveva chiesto, nel turbinio dei fiori e tra il suono dei violini, l'idea gli era sembrata per la prima volta tollerabile. Solo un pensiero l'aveva tormentata, presente come un tarlo nel retro del cervello: la prima notte, la pretesa di un erede.
Anche Stolas gli era sembrato per la prima volta tollerabile, quasi bello, tutto vestito di nero coi bottoni d'argento, il portamento fiero e austero da reale, così fuori personaggio per il ragazzo che aveva imparato a conoscere.

Tutto era iniziato e finito con un "lo voglio" e poi lei lo aveva spinto al centro del chiostro e gli aveva sussurrato all’orecchio "Lo sai, dobbiamo danzare.", e avevano danzato, con lui rigido e rosso in volto, e con lei con il sorriso più sereno che potesse simulare.

A metà del matrimonio Paimon aveva fatto chiamare suo figlio, e Stella aveva sentito una preoccupazione bruciante attanagliarle il petto e la gola.
Non poteva sapere cosa si fossero detti, ma Stolas ne conservava il ricordo come un concorso di colpa.
"Principe Stolas..." aveva iniziato Paimon.
"Padre..."
"Ti ho fatto chiamare per metterti in guardia, e per ricordarti i tuoi compiti."
Stolas si sforzava di star fermo il più possibile, ma oscillava leggermente spostando il peso da una gamba all'altra.
"Vi ascolto..." aveva detto infine, un rivolo di sudore freddo gli attraversava la fronte.
"Sono stato informato che la principessa può essere un po' ribelle, che ha una forte tendenza alla disubbidienza. Le donne di questo temperamento non prendono sempre di buon grado la richiesta di... dare un erede. E so che tu per tua natura sei fin troppo gentile, potresti essere tentato di essere accondiscendente. Non puoi permettertelo Stolas, il tuo dovere è quello di produrre un erede, potrete non parlarvi, dormire in due ale del palazzo diverse, non condividere niente se non la vita all'esterno del castello, ma non potete evitare di giacere insieme."
Stolas aveva pensato per un momento che non sarebbe stato difficile, sarebbe bastato passare la notte chiusi in una stanza e al mattino dichiarare che avevano atteso al loro compito.
Ma Paimon aveva infranto questo pensiero con una semplice frase:
"Il medico di corte è già al castello, stanotte, dopo che... avrete fatto, controlleremo che tutto sia stato svolto correttamente."

Mentre Stella sedeva sola al tavolo degli sposi, Andrealphus si era avvicinato a lei.
"Tanti auguri sorellina, è incredibile come una testolina vuota come la tua sia arrivata a sposare un Goetia"
"Vuoi tormentarmi Andrealphus?"
La principessa rabbrividì quando sentì la mano del fratello afferrarle la nuca e stringere leggermente, da fuori sembrava una carezza innocente, ma la mano di lui, come un artiglio, le faceva male.
"Spero tanto che tu ne sappia abbastanza delle api e dei fiori da non fare inutili casini" disse Andrealphus a mezza voce "l'esito del vostro randez-vous notturno sarà di dominio pubblico prima dell'alba, ho visto il medico di corte."
"Và a farti fottere" sputò lei, a denti stretti.
La morsa sulla sua nuca si fece più stretta.
"Spero che questo tuo comportamento da puttana sia utile alla nostra famiglia per una volta." sussurrò Andrealphus prima di tornare, come se niente fosse, a conversare con gli ospiti.

Quando Stolas era tornato al tavolo aveva il volto velato di preoccupazione, Stella gli sembrava serena, sedeva sorridente mentre gustava il semifreddo che chiudeva il pranzo di nozze.
La mano sinistra di lei era appoggiata placidamente sui pizzi dell'abito bianco.
Lui aveva avuto l'impulso di stringerla, forse per trovare conforto in un’angoscia condivisa. L'avrebbe trovata calda e familiare, la mano che gli si appoggiava all'avambraccio durante le passeggiate estive, dell'unica persona che avesse mai avuto un posto costante nella sua vita. E un profondo terrore si era impossessato di lui quando aveva toccato quella che sembrava la mano ghiacciata di un morto.
Stella sorrideva ancora, aveva gli occhi lucidi e perduti in quel pensiero intrusivo che tornava a tormentarla. Nemmeno lo guardava, nemmeno si era accorta che le stava stringendo la mano.
Ad ognuno che si avvicinava al tavolo a dire "Auguri!" oppure "Congratulazioni!" o ancora "Che bella coppia, siate felici!" Rispondeva con il più sincero dei grazie, con un volto luminoso che sembrava preso da vera commozione.
"Che dolce, è commossa" aveva detto una giovane ragazza di dodici o tredici anni "spero anch'io di essere così felice al mio matrimonio!"

"Stella..." Stolas aveva provato ad attirare la sua attenzione, le aveva stretto più forte la mano, lei era sobbalzata "...stai, stai bene?" Le aveva accarezzato il braccio delicatamente, sul volto un'espressione colpevole e indecifrabile. E lei aveva immaginato che Paimon dovesse avergli fatto un discorso molto simile a quello che le aveva fatto suo fratello.
"Risparmia questa finta intimità per questa notte Stolas." aveva risposto infine "Abbiamo ancora qualche ora di spensieratezza."

Chapter 4: Costellazioni e fiori d'arancio

Notes:

Questa volta mi ritaglio un angolino all'inizio, ma è necessario. Questo capitolo parla di tematiche delicate. Siamo alla fatidica prima notte di nozze, e il tema del consenso è inevitabilmente presente. Ci troviamo di fronte a due persone costrette a consumare un matrimonio contro la loro volontà. Mi sembra corretto avvisare che il capitolo è pesante se pur non eccessivamente grafico. Scriverlo mi è costato molto. Andate avanti con cautela.

Chapter Text

L'arrivo della notte non è qualcosa a cui si può opporre alcuna resistenza. E quella specifica notte non aveva fatto eccezione. Avevano trascinato le danze molto oltre la cena, spinto il quartetto d'archi a fare un doppio bis, avevano assecondato i discorsi di qualche Duca ubriaco o di qualche Conte troppo preso dall'euforia di poter parlare al cospetto di un re.

E infine, inevitabilmente, erano rimasti da soli.

Avevano camminato fianco a fianco senza toccarsi: lei teneva gli occhi fissi in un punto davanti a sé, continuava ad avanzare con la schiena dritta e il portamento impeccabile di una ballerina, lui si guardava i piedi e ogni tanto volgeva lo sguardo verso di lei, non riuscendo a trovare una cosa qualunque da dire. Indugiava sul suo profilo indurito dall'espressione seria, sperando di indovinare, dietro il velo di freddezza, una qualche emozione.

Il palazzo silenzioso sembrava lo scenario di una storia di fantasmi, e qualcuno che avesse visto avanzare la coppia avrebbe forse pensato di trovarsi davvero di fronte degli spettri. Fantasmi di noi stessi. Aveva pensato Stolas, scorgendo le loro sagome riflettersi nelle vetrate delle finestre.
Ma intanto smaniava, non sapendo cosa fare, avrebbe dovuto evitarlo? Avrebbe potuto?

Stella sentiva un nodo alla gola così stretto che le sembrava di non riuscire a respirare, sentiva il cuore martellarle sotto lo sterno come se potesse squarciarle il petto.
Calma, devi stare calma, calmati cazzo, è una cosa facile, è una cosa senza significato. Non ci devi pensare, non devi pensare.
Continuava a ripeterselo nella mente come un mantra. 

La stanza era grande e vuota, non c'era niente di suo, niente di loro. Ci sarebbe mai stato? Qualcuno aveva fatto mettere dei fiori d'arancio in un vaso sul comodino. Era stato Stolas? Le lenzuola erano di seta, bianchissime, ovviamente. Che stupida ovvietà.

Stolas tremava leggermente, sentiva i palmi sudati, lacrime trattenute gli pizzicavano gli occhi. Un doppio senso di colpa gli si accumulava nello stomaco. Lei era bella. Perché non la desiderava? Doveva succedere, e sapeva che lei non lo voleva. Non lo voleva nemmeno lui, ma Stella lo sapeva? Poteva indovinarlo. Lei avrebbe capito.
Ma allora perché si sentiva come se tutta la colpa fosse sua? Come se stesse per succedere qualcosa in cui era lui l'unico carnefice?

"Immagino che dovresti spogliarmi."

La voce di Stella lo aveva risvegliato dal torpore. Era stata la prima a parlare, dopo quanto? Minuti? Ore?
Se ne stava in piedi, dandogli la schiena.
Le dita sottili di Stolas avevano sfilato ad uno ad uno l'infinita linea di bottoni dalle loro asole. L'abito di lei era scivolato lungo i suoi fianchi, lungo le lunghe gambe e un' enorme massa di pizzi le si era accumulata alle caviglie.
Ora anche Stella tremava, si era liberata dell'abito e si sentiva ridicola in quella stupida guepière colore avorio, con la stupida giarrettiera blu che avrebbe dovuto portare fortuna.

"Cazzo. Stolas. Non dirai niente per tutto il fottuto tempo?"

Stolas aveva preso un profondo respiro: "Scusami" aveva detto infine.

"Scusami? È tutto quello che..."

Sentiva la rabbia montarle nel petto, ma Stolas la guardava con occhi pieni di paura, con gli occhi di un bambino perduto.

"Ti chiedo perdono. Per tutto. Perché non ho detto niente fino ad ora. Per tutte le cose sbagliate che potrò dire o fare questa notte. Per favore, io non... Non voglio ferirti... E non voglio..." Era arrossito violentemente, non riusciva nemmeno a dirlo, nemmeno a pensarlo "Io non voglio...approfittarmi di te."

Un sospiro. Una sensazione calda nel cuore.

Dunque era così. Avrebbe dovuto farlo lei. Stella gli aveva preso la mano e lo aveva guidato sul letto. Si era sdraiata sulle lenzuola, le aveva sentite soffici e fresche sulla pelle.
Il peso di un altro corpo sul suo. Il calore delle gambe di lui tra quelle di lei. Occhi grandi e spaventati nella penombra.

"Fallo." si era forzata di dire "io non... non mi arrabbierò."

Erano goffi e impacciati, le faceva male. Si sentiva esposta e vulnerabile. Debole. Come sua madre.
Grosse lacrime le bagnavano le guance. Il viso di Stolas ora era piantato tra il suo collo e la spalla, non poteva vederla, non se ne sarebbe accorto, bastava solo restare in silenzio. Sentiva il suo respiro caldo e lieve.

Stolas aveva sentito qualcosa di umido sul collo di lei. Aveva sentito una stretta al cuore, un'intuizione spaventosa.
"Stai...stai piangendo."
Si era fermato. Non poteva. Non poteva continuare. Era un mostro.
"Ti ho detto di farlo. Ti ho detto di continuare." gli aveva risposto singhiozzando.
"Non voglio, non riesco, io... è... sbagliato."
Si era seduto accanto a lei sul letto, tremante, spaventato, inorridito da sé stesso.

Lei aveva tirato su col naso, e si era asciugata le lacrime col dorso di una mano.
È una cosa facile. Non significa niente.
"Dobbiamo finire questa cosa Stolas. Non siamo più due bambini."

Gli era salita a cavalcioni e si era chinata su di lui.  Si muoveva ritmicamente e Stolas non riusciva a capire come tanto dolore nel cuore non riuscisse a sovrastare il nuovo e sorprendente piacere che provava. Un piacere sordo e confuso, non abbastanza, un piacere sbagliato, il suo corpo che non obbediva alla mente.
Si sentiva esposto e vulnerabile. Debole. Una delusione per suo padre. E si sentiva colpevole.
Si era concentrato sulle costellazioni dipinte sul soffitto. Sul bianco dei fiori d'arancio sul comodino. Sul piacere ovattato che gli arrivava dal basso ventre. Stella continuava a muoversi, gli teneva i polsi in una morsa stretta di disperazione. Piangeva ancora, in silenzio, ad occhi serrati. Il piacere si faceva più intenso e urgente. La vergogna. La paura. Le costellazioni. I fiori d'arancio. E ancora quel piacere forzato e fisico, quel piacere sbagliato e inevitabile.

"Stella io... sto..."
"Lo so."

E così era stato fatto. Lei si era accasciata su di lui e lui l'aveva tenuta stretta, più per confortare sé stesso che per confortare lei. Non avrebbe mai voluto che lasciasse quel letto e quell'abbraccio, voleva che lo perdonasse.
"Io..." cominciò Stolas, ma non sapeva cosa dire.
"Sta' zitto. Non devi dire niente. Va' a informarli che hai fatto il bravo marito. Chiudiamo questa agonia."

Così si era sdraiata sulla schiena e si era concentrata sulle costellazioni dipinte sul soffitto, sul bianco dei fiori d'arancio, mentre il medico di corte la visitava con la freddezza e il distacco di un meccanico con un automa. Se quella notte si era sentita violata, non era stato tra le braccia inesperte e spaventate di Stolas. Era stata la sensazione fredda dello speculum, le dita dello sconosciuto, di quell' uomo che senza nessun diritto, si era preso un posto in prima fila - insieme a tutta la corte reale - sulla perdita della sua verginità.

Chapter 5: Se sarai buona e perfetta...

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Andrealphus era uno a cui piaceva avere il controllo. Uno che aveva fatto tutto per bene. Aveva studiato la magia degli elementi e sviluppato una particolare predilezione per il ghiaccio, dopotutto era un uomo freddo, e la sua attitudine era coerente con i propri poteri.
Il Marchese, suo padre, non si era mai curato troppo di lui. D'altronde era stato occupato ad educare l'unica figlia femmina che potesse garantire alla famiglia un passaggio di status.
In ogni caso suo padre non aveva avuto tempo, né interesse, di trovargli una moglie, e a lui andava più che bene così. Le donne non gli erano mai interessate, e aveva potuto continuare la sua vita da scapolo senza che nessuno si domandasse dove, e soprattutto con chi, passasse le notti.
Suo padre non avrebbe di certo approvato quella sua inclinazione ma era un uomo vecchio ormai, e finché nulla usciva da palazzo...
Un giorno, molto presto, avrebbe ereditato il Marchesato, e non smaniava di certo di condividerlo con una moglie comprata in cambio di qualche titolo; una moglie che, nel migliore dei casi, si sarebbe rivelata petulante e ribelle come sua sorella e, nel peggiore, assertiva e spenta come metà delle duchesse che frequentavano le feste del Marchese.

Prima di quel giorno nella sala del trono di Paimon, Andrealphus non aveva mai conosciuto la paura. Proprio perché aveva sempre fatto tutto a dovere nessuno si era mai lamentato del suo operato; nessuno mai aveva mai osato attribuirgli delle responsabilità e soprattutto nessuno si era mai permesso di porgli un ultimatum.
Ma quello che gli faceva ardere il petto di rabbia e timore, non erano le insinuazioni o le minacce, era la totale assenza di controllo sugli eventi.
Ora girovagava perduto nelle sue stanze, si era fatto portare del tè che non aveva bevuto, e la tazzina giaceva abbandonata sul tavolino tondo accanto alla finestra. Quanto avrebbe voluto tornarsene al suo palazzo e dimenticarsi di quella faccenda. Invece era intrappolato lì, in quel posto arredato con i più disparati strumenti astronomici e che a tratti puzzava di erba bagnata e concime come se fossero in una bieca magione di campagna.
Il suo fallimento era nelle mani – a dire il vero tra le gambe – della sua stupida, stupida sorella. E ovviamente della genetica, delle condizioni fisiche, dello stress... e di tutte quelle stronzate che aveva propinato a Paimon nel tentativo di placarlo.

Ma come era possibile?

Si era passato una mano tra i capelli, sopraffatto da una morsa al petto che gli toglieva il fiato.
Stella e il principe avevano trascorso insieme quasi tutte le notti dal matrimonio, tutte le notti per otto mesi.

Che sua sorella fosse davvero sterile? O peggio, che il principe Stolas lo fosse...
Rabbrividì.

"Se quello stupido giardiniere regale fosse la causa io sarei rovinato!" disse a denti stretti, in tono quasi agonizzante. Il prestigio, il potere, le armate. Sarebbe stato tutto perduto. Certo, non gli appartenevano direttamente, ma sua sorella, per quanto potesse essere disubbidiente, era sempre stata come cera nelle sue mani.

Non aveva mai capito se lo odiasse o provasse per lui uno strano e indecifrabile affetto, certo era che non poteva fare a meno di lui. Era da lui che tornava dopo i peggiori momenti con il Marchese, ed era lui che sapeva consigliarle sempre come fare meglio. Come tenere buono loro padre.
Dal suo canto, quando erano bambini, l'aveva invidiava molto: suo padre le aveva dato tutte le attenzioni che ad Andrealphus erano state negate. Lui aveva imparato tutto quello che sapeva da solo, nelle sue stanze, con i tutori e i maestri privati. Ma quando si trattava di insegnare a Stella a danzare, a conversare elegantemente, a riconoscere le costellazioni, a suonare quello stupido violoncello, il Marchese era sempre sulla soglia ad osservare i progressi della bimba destinata a sposare il Principe Stolas, ad essere la perfetta moglie del guardiano delle stelle, ad essere la madre del destinato erede dei Goetia.
Certo, c'erano stati gli schiaffi, la disapprovazione, i rimproveri, le infinite aspettative, le punizioni più disparate... Ma almeno loro padre la vedeva. E lui, lui che era certo più intelligente, più talentuoso, più ubbidiente era stato relegato al ruolo di balia di corte e artificiere di quella bomba ad orologeria che si era rivelata essere sua sorella.
Era l'unico che riusciva a tenerla buona con le buone o quasi. L'unico in grado si placare gli scatti di ira e di volubile irrazionalità che Stella tendeva a manifestare ogni qual volta si sentiva in trappola, in preda alla frustrazione o all'insoddisfazione.
Ma ora quel ruolo gli si stava rivoltando contro, era diventato corresponsabile di qualcosa su cui non aveva nessun controllo: sua sorella, la bimba cresciuta e istruita su misura per il principe Stolas, non era in grado di adempiere al più semplice dei compiti. 

E se Stolas fosse stato sterile avrebbero dovuto prendere dei provvedimenti... Trovare delle alternative per velocizzare i tempi... D'altronde succedeva di continuo...

No, no! Che gli saltava in mente? Era la fottuta disperazione a parlare.  
Fu preso da un moto di inusuale pietà, di sgomento, quasi spaventato da quel folle pensiero che gli si era insinuato per un istante nel cervello
Sarebbe stato troppo persino per lui.

L'aveva invidiata, odiata, ma l'aveva anche amata e l'amava, come si amano quelle persone con cui condividi il momento più fragile della vita, quello dell'infanzia. Lei era stata la luce che rischiarava le ombre della sua solitudine, la fiamma viva che scalfiva un cuore di ghiaccio, mai l'avrebbe messa in pericolo, mai le avrebbe fatto del male.
C’era stato un tempo in cui lui era stato solo suo fratello, in un tempo lontano in cui si erano confidati sogni e segreti, in cui avevano passato notti insonni a parlare e confortarsi, pieni di paure e di domande. Ma poi qualcosa era cambiato, Andrealphus non ne riusciva a individuare il momento preciso, forse poco dopo che sua sorella era stata promessa a Stolas, di certo dopo che erano stati presentati. Ecco, in un momento qualsiasi tra questi eventi, lui aveva smesso di essere suo fratello ed era diventato il suo secondino.

"Devo parlarti."

Una voce a interrompere il flusso dei suoi pensieri, un tono che non riconosceva, spento, svuotato. Sua sorella era in camicia da notte, sulla porta, gli occhi cerchiati di nero.

"Vi ho sentiti ieri, tu e il Re."

Andrealphus stava in piedi, confuso, le scrutava il viso scavato dal cattivo riposo. Stella aveva riuchiuso la porta alle sue spalle.

"Io, ho solo te. Avrei voluto che la mamma... ma lei… oh, lo sai."
Lui sentì una fitta, leggera, impercettibile, nel petto. La fiamma viva che scalfiva un cuore di ghiaccio.
"Sì, lo so." Le rispose, scacciando dal cuore quel cattivo pensiero. "Che hai sentito?"
"Della mia inutilità." Rieccolo, il solito tono sprezzante "Di come il mio Signore non veda l'ora di trovare una vacca più fertile."

Andrealphus non aveva battuto ciglio, aveva glissato sul modo in cui Stella gli aveva posto la situazione. A lui importava una sola cosa in quel momento, il perché non stesse funzionando. Ma lei lo precedette.

"Non è più successo. Non dopo la prima notte."
"Cosa?"
"Le api e i fiori grandissimo stronzo, che cosa?"

Lui non fece una piega.

"Lui è impotente?"
"No."
"Ha desideri... strani?"
"No, cioè ehm, non credo..."
"Ha forse qualche difetto di tipo anatomico?
"Oh Satana, no!"
"E allora perché non è più...?"
"Perché gliel'ho chiesto io." tagliò corto lei.

All'improvviso Andrealphus si sentì colto da una forte sensazione di nausea. Era panico quello? O era rabbia che non riusciva a manifestarsi diversamente? O solo cieca incredulità?

"Fammi capire bene... tu hai chiesto al tuo fottuto principe di non scoparti mai più e lui ha accettato? E per tutti questi mesi avete che cosa? Dormito e basta? Parlato magari?"
"Esattamente." aveva confermato Stella, poi aveva serrato la bocca in un sorriso forzato.
"Non capisco Stella. Non lo capisco proprio." Andrealphus si massaggiava le tempie e scuoteva la testa in gesto di disapprovazione.
"Io non lo voglio, lui non mi vuole. Cosa c'è da capire?"
"C'è da capire..." si era avvicinato a lei e le aveva afferrato il polso destro in una delicata morsa "...che se non sforni un dannato infante che somigli almeno un po' a quell'allampanato del tuo sposo saremo rovinati. E lo sai..." la stretta al suo polso si era fatta più forte "...lo sai, che non vuoi tornare a casa."
"Lo so. Sono qui per questo. Per chiederti aiuto a.… sistemare le cose."

Stella ci aveva pensato, non molto, come faceva sempre. Forse era una decisione azzardata, forse avrebbe dovuto pensarci di più, ma non le era venuta nessuna idea migliore.
Dato che non poteva avere il meglio – si era detta - avrebbe scelto il meno peggio.*
Ed essere madri non poteva essere così male, la gente lo faceva di continuo.

Era rimasta in silenzio per un po' e poi aveva detto tutto d'un fiato:
"Io ho imparato a fare tante cose per essere una buona moglie ma non ho idea di come sedurre un uomo."
Andrealphus aveva sorriso, oh, lui sapeva benissimo come si seduce un uomo. Lo aveva fatto centinaia di volte.
"Chiedere consigli sulla seduzione a mio fratello è umiliante, Andrealphus."
"Ma me lo stai chiedendo"
"Sappiamo entrambi come hai passato gli ultimi anni... Ero una ragazzina, ma non ero un'ingenua."
Ora Andrealphus rideva di gusto per lo scarico di tensione.
"Giuro su Satana che se mi prendi per il culo io..." Stella stava già iniziando a strillare, rossa in viso per l'imbarazzo e il senso di vulnerabilità che provava.
"No, no sorellina..." Il demone si era ricomposto, non poteva rischiare che lei cambiasse idea. Ora le sue parole aveva assunto la consistenza dolce e vischiosa del miele, le aveva lasciato il polso e invece la sua mano si era spostata sul suo viso per farle una casta carezza "...te lo spiegherò io. E se mi ascolterai, se sarai buona e perfetta avrai in grembo il tuo erede regale prima della prossima luna piena."


Notes:

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Rieccoci. Mi sembra un pò un capitolo filler ma va bene così, sapevo che non tutte le tappe di questo viaggio mi avrebbero soddisfatta allo stesso modo.
Per la mia sanità mentale, se già non fosse stato semi-chiaro dallo scorso capitolo, i rapporti intimi tra questi individui sono di tipo e sopratutto forma umana,  vi prego non fatemi studiare l'accoppiamento tra demoni-gufo, manteniamoci su api e fiori di questa terra con relativi genitali annessi! Penso varrà la stessa cosa sulla futura gravidanza. Dopotutto nasce come un mezzo AU, mi concedo almeno l'anatomia umana.
Credo si faccia anche meno fatica nell'empatizzare e nell'immedesimarsi con qualcosa che ci risulta meno "alieno".
(Poi l'ultimo short di HB mi ha traumatizzata ahahaha, no spoiler per chi non l'avesse visto, ma per un pò niente anatomie che non appartengono a questa terra su questi canali xD.)

Chapter 6: Schegge e Frammenti

Summary:

Eh sì! Siamo alle scelte, alle ribellioni adolescenziali tardive, al voler fare la cosa giusta anche se forse non è la più giusta per sè stessi..

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Schegge e Frammenti

 
Non c'erano specchi nella camera da letto del principe. Non c'erano specchi nel grande bagno con la lussuosa vasca. Non c'erano specchi nella serra, non c'erano specchi nel torrione della biblioteca. Ma c'era il grande specchio nel salottino da tè che precedeva la camera da letto, e i tre specchi tondi sulle pareti del corridoio, e ancora lo specchio della toletta nell'antibagno.
Stolas indossava il morbido accappatoio azzurro, stava seduto sullo sgabellino della toletta dando le spalle allo specchio. Si stava asciugando lentamente il capo con l'aiuto di un asciugamano, godendosi la sensazione rilassante della frizione della spugna morbida sul suo corpo.

Poi, all'improvviso, una voce: profonda, distaccata e lontana.

"Ma guardati, così rilassato, come se non fossi un uomo con dei doveri ormai..."

Stolas si era voltato verso lo specchio, riconoscendo al suo interno la proiezione deformata di suo padre. Aveva emesso un sospiro di disappunto e fastidio.

"Davvero illustrissimo padre? Davvero non riuscite ad attraversare due ali del palazzo per parlarmi? È davvero necessario comparire nei miei specchi come uno spettro?"

L'espressione di Paimon era dura.

"Da bambino non ti sei mai lamentato delle mie incursioni negli specchi, figlio mio."
"Quando ero bambino non eravate a qualche stanza di distanza, ma a qualche continente, da qualcun'altro dei miei altrettanto illustrissimi fratelli, ad occuparvi di qualcosa di più importante di me."
"Non essere così ingiusto, ho fatto così tanto per te, ti ho insegnato ad usare il Grimorio, ti ho reso potente."
"Per la precisione, mi avete consegnato il Grimorio al mio dodicesimo compleanno, come se fosse un regalo adatto a un ragazzino, e avete lasciato che lo studiassi in solitudine." 

Inoltre, lo stesso giorno, mi avete incastrato in questa vita.

"Ti ho regalato un amico quel giorno, è più di quanto..."
"Più di quanto abbiate mai fatto per i miei fratelli? Che fortunato che sono!"

In realtà, per quanto il suo tono potesse suonare sarcastico per irritare suo padre, si sentiva davvero fortunato. Aveva avuto, per un breve e prezioso istante, la possibilità di conoscere l'amicizia. Ma non certo per merito di Paimon.
A quelle parole, il volto deformato nello specchio aveva assunto un'espressione corrucciata di disapprovazione.

"Quella ragazza ti sta cambiando, non ti saresti mai permesso di parlarmi così prima."
"Oh... La moglie che mi avete scelto con tanta cura mi sta trasformando in un uomo che non approvate? Che tragica ironia." Aveva trattenuto una risata amara.

Che fosse davvero così? Che le discussioni e i battibecchi con Stella gli avessero donato il dono del sarcasmo? Che il suo cinismo lo stesse contagiando e stesse avvelenando lentamente il suo animo da sognatore? O era solo cresciuto tutto d'un tratto, non più disposto a sopportare, aveva preso atto di essere un uomo, e di poter essere, se non libero, almeno sincero?

"Una moglie su cui devo aver commesso qualche errore, evidentemente." disse Paimon sprezzante "Magari te ne troveremo presto un'altra, che non alimenti questo tuo lato arrogante e che ti dia quello per cui si sposa una donna. Un erede."

Trovargliene un'altra. Come una cosa, come un oggetto rotto o difettoso, sostituibile. Anche se non l'amava, non si meritava questo. Da qualche parte, dentro di sé, si raccontava che in qualche modo avrebbe funzionato. E forse solo al suono di quelle parole Stolas realizzò che quello che gli aveva detto Stella non era soltanto un infondato timore, che se non avessero affettato i tempi, se non avessero portato a compimento i loro compiti, suo padre lo avrebbe costretto a ripudiarla, a gettarla via, come un prototipo venuto male. La vita della – ormai ex – principessa, sarebbe stata compromessa per sempre e sarebbe stata colpa sua.
Inoltre, per quanto riguardava lui, avrebbe dovuto ricominciare da capo, avrebbe avuto accanto un'altra sconosciuta. Una che non aveva nemmeno visto crescere col passare delle estati, una di cui non sapeva niente, meno di quanto sapesse di Stella. Gli venne in mente un vecchio proverbio: meglio un male conosciuto, che un bene sconosciuto. La vita ci dà dei bivi, e quello era il suo, ma scegliere il noto per l'ignoto gli era sembrato così naturale, così rassicurante.
Se avesse sposato un'altra sarebbero stati più compatibili? Forse. O forse avrebbe sposato una ragazza peggiore, una che non gli avrebbe mai detto in faccia che era solo uno stupido secchione, una di quelle tutte "vostra altezza", "mio signore", che lo avrebbero fatto sentire un impostore, più di quanto già non si sentisse. O ancora una che avrebbe preteso di essere trattata da Principessa in ogni istante, una a cui bisognava dare del voi. Una con cui avrebbe sempre dovuto mantenere un'aura di formalità.

E sarebbe stato di nuovo, completamente, inesorabilmente, solo.

Anni dopo, ripensando a quel dialogo con Paimon, avrebbe pensato che un’altra scelta gli avrebbe reso la vita più semplice. Che quel momento, a pochi mesi dal matrimonio, era stata la sua carta “esci gratis di prigione” e non aveva saputo coglierla, troppo intento a voler contraddire suo padre, e troppo intrappolato ancora nel suo ruolo di bravo ragazzo corretto. Ma, anni dopo, ripensando a quel dialogo con Paimon, avrebbe anche guardato sua figlia ormai adolescente, raggomitolata nel suo maglione rosa, assorta nella sua musica su una poltrona della sala, l’avrebbe vista sorridere per qualcosa di sciocco che stava leggendo, e si sarebbe detto che in fondo, a quel bivio, non avrebbe potuto imboccare nessuna strada diversa.

"Trovarne un'altra? Spero stiate scherzando. Sono cresciuto con quella ragazza, non la rovinerò per i vostri capricci." un brivido gli aveva attraversato la schiena. Si stava ribellando a suo padre? Ma soprattutto, stava davvero chiedendo che Stella restasse sua moglie?

Paimon parve sorpreso. Che il principe e la principessa a mala pena si tollerassero era cosa nota. Si aspettava che Stolas gli dicesse, come sempre, il suo tipico e accondiscendente:"Sì,padre"; che lo lasciasse fare, dopotutto chiunque sarebbe stato meglio di quella ragazzina emotiva. Paimon si era sbagliato, non era giusta, troppo complicata, troppo sfacciata e disubbidiente nonostante l'educazione ad hoc.

"Stella è sbagliata per te, per chiunque. Non è in grado di comportarsi, né di adempiere a..."
"E se fossi io quello sbagliato?" lo interruppe Stolas.
"Non è possibile, sei mio figlio"
"Già. E voi non siete certo il migliore degli uomini. Non sapevate cos'è meglio per me quand'ero bambino e di certo non lo sapete adesso."

Stolas si era alzato, dava di nuovo le spalle allo specchio, noncurante della presenza di suo padre; aveva sostituito l'accappatoio con una lunga vestaglia e aveva lasciato la stanza senza parlare.

"Osi insultarmi e poi fuggire?"

La figura di Paimon, a mezzo busto, era comparsa nel primo dei tre specchi del corridoio. Stolas guardava fisso di fronte a sé, si stringeva nella vestaglia ignorando il rimbombo della voce di suo padre.

"Stolas!" ora il volto di Paimon stava nel secondo specchio, al centro del corridoio "Non ti riconosco! Osi mettere in discussione tuo padre?"

Stolas non rispondeva. Dentro era scosso da forti tremori, ma all'esterno manteneva un portamento fiero, imitando quello che tante volte aveva visto attuare a Paimon per incutere timore e rispetto. Gli occhi strizzati per l'emozione trattenuta, la linea della bocca appena incurvata all'ingiù.

"Figlio!" Paimon era nel terzo specchio, circondato da un leggero fumo rossastro. "Non tollero il tuo silenzio e la tua insolenza!"

Stolas aveva attraversato il corridoio ed era entrato nel salottino da tè. E fu lí, che nel grande specchio, Paimon ricomparve, a figura intera, enorme e terribile, riempiendone quasi interamente la superficie. Quella nube rossa e nera alle sue spalle sembrava traboccare dalla cornice.

"Non osare mancarmi di rispetto Stolas!"

Stolas si voltò d'impeto verso l'enorme specchio, la vestaglia semi chiusa ne accompagnò il movimento teatralmente, come una toga.

"Voi non dovete permettervi di mancare di rispetto a me e alla mia sposa! Non dovete osare minimamente credere che io possa usare e gettare via una donna. Che io sia un uomo così vile da gettare via la mia stessa moglie per i capricci di un padre assente. Io l'ho resa donna..." lei mi ha reso uomo, si corresse mentalmente "...e lei e il suo..." si sentiva ridicolo e retorico, non poteva credere a quello che stava dicendo, a come lo stesse dicendo, ma era l'unico linguaggio che capiva suo padre "...lei e il suo onore sono una mia responsabilità. Voi, illustrissimo padre, non dovete osare metterci bocca. Né ora, né mai."

La figura nello specchio stava assumendo contorni sfocati, mutando forma in qualcosa di mostruoso e terribile.

"STOLAS! COME OSI PARLARE A TUO PADRE IN QUESTO MODO..."

La voce rimbombava come dentro una caverna.

Stolas si passò una mano sul capo nervosamente. Avrebbe voluto piangere. Forse era troppo. Forse aveva esagerato. Forse non era ancora abbastanza forte a gestire questo genere di cose. No, no! Non era debole. Non poteva essere debole.

"Sei un debole Stolas."
"Io so cosa è meglio per te."
"Non comprendi i tuoi compiti."
"Non capisci la tua posizione."
"Ci rovinerai."
"Questo tuo comportamento sarà la nostra vergogna."
"Se lei non ti darà un erede..."
"Se lei continuerà a fare i capricci..."
"Se lei continuerà a sembrare più forte di te..."
"Se non riuscirai a domarla..."
"Avrei dovuto stare più attento a come crescevi in compagnia di quell' imp che ti ha fatto da balia..."
"Sei diventato un uomo piccolo e insignificante come quelle creature..."
"Avrei dovuto insegnarti ad essere migliore..."
"A non mancarmi di rispetto"
"Ad onorare tuo padre..."
"..."

Il respiro di Stolas si stava facendo affannato. Non gli dava il tempo di rispondere. Di controbattere. Di difendersi. Non gli dava il tempo di pensare. La stanza era invasa da quella foschia rossastra e nera. La voce sembrava appartenere a un altro mondo, sembrava venire da dentro la sua testa, come in incubo febbricitante.

"Basta!" Aveva gridato d'un tratto, sopraffatto, e afferrato dal tavolo da tè la prima cosa che gli era capitata tra le mani, la aveva scagliata contro lo specchio, frantumandolo in miliardi di schegge.

Il volto di Paimon scintillò moltiplicandosi per un istante nelle schegge sparse sul pavimento e poi scomparve.
E fu il silenzio.

Si era accasciato di fronte allo specchio ansimando, scosso da un moto insieme di terrore e di liberazione.
.
.
.
"Stolas..."
"..."

Stella era immobile, con le mani giunte strette al petto, il viso pallido e gli occhi sbarrati. Vedeva Stolas in lacrime, mezzo svestito, tra le schegge di vetro dello specchio e i cocci di ceramica della loro teiera a fiori.

"Che cosa... Che cosa è successo?"

Notes:

Poco ho da aggiungere alla fine di questo capitoletto se non lasciarvi le sagge perole di Robert Frost, dalle quali forse tutto è partito:

"Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra molti anni:
due strade divergevano in un bosco ed io -
io presi la meno battuta,
e questo ha fatto tutta la differenza."

Chi di noi, dopotutto, non ha mai preso la strada meno battuta, convinto prima o poi, di poter tornare a percorrere tutte le altre?

Chapter 7: Confini e sconfinamenti

Summary:

...Il suo cuore sussultò per un istante quando assunse la consapevolezza di trovarlo attraente. Forse era l'aspetto da cattivo ragazzo, con tutte le bende e i cerotti, e il taglio sotto l'occhio. Il corpo magro e rilassato sul letto. Forse era la nudità, forse la fiamma a lungo soffocata della giovinezza. Forse era solo una sensazione stupida e passeggera, dettata da quel momento di inusuale vulnerabilità....

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Confini e sconfinamenti

 

Stella l'aveva raccolto: si era chinata e gli aveva porto entrambe le mani per aiutarlo a tirarsi su. A Stolas aveva ricordato tutti quei momenti in cui, da ragazzini, durante un litigio lei lo spingeva per terra nell'aranceto o nella serra e si allontanava arrabbiata, minacciando di non tornare più.

Non passava molto tempo prima che tornasse sui suoi passi e, noncurante della propria incoerenza, si chinava a riprenderlo e gli diceva in tono canzonatorio:

"Se non sai rialzarti da solo, come farai a guidare un regno?"

Ma lui non si rialzava perché sapeva che sarebbe tornata, stava seduto a guardare le foglie scintillare al sole, le farfalle blu sparpagliarsi nello spazio sopra la sua testa, i petali dei fiori cadere lenti come neve, stupendosi della bellezza semplice delle cose note.

Poi lei tornava e lo afferrava goffamente per la giacca, con la sua figura esile e lo sguardo imbronciato, e lo tirava su di peso.

"Togliti il fango dai pantaloni o se la prenderanno di nuovo con me!"

"Ma è stata colpa tua."

"Non importa, sono cose nostre, non loro, arrabbiati con me piuttosto!"

Ma lui non si arrabbiava, non si arrabbiava mai, era un gioco di fiducia, lo spingeva per terra e fuggiva, ma lui sapeva che sarebbe tornata a riprenderlo, e temeva in cuor suo il giorno in cui non lo avrebbe più fatto.

Ora sentiva la stessa figura esile, con le stesse braccia magre, afferrarlo per la vestaglia e tirarlo nuovamente su, con un movimento meno goffo e più risoluto, senza fare nessun'altra domanda se non quella a cui non aveva ricevuto risposta.

"Sei pieno di tagli, imbranato incosciente." gli diceva mentre lo accompagnava nella camera da letto, ma il suo tono non era il solito tono canzonatorio. Era più morbido e lieve.

Un piccolo gruppo di maggiordomi e cameriere si era avvicinato alle stanze del principe. Sbriciavano incuriositi dalla porta del salottino, si accalcavano uno dietro l'altro, incuranti di una qualsiasi forma di discrezione; una cameriera forse più coraggiosa, forse solo più curiosa degli alti, era entrata con la scusa di pulire il disastro dello specchio in frantumi.

Stella aveva lanciato loro uno sguardo feroce.

"Ma che fate? Andate via!" Aveva gridato "Vi ho forse chiamato? Andatevene!"

E la massa disordinata della servitù era scomparsa, com'era comparsa, in una fuga goffa e disordinata. Lei aveva sbattuto la porta alle sue spalle, borbottando qualcosa in un ringhio. Stolas avrebbe giurato di averla sentita sussurrare: "Sono cose nostre, non loro."

***

Il disinfettante sui tagli bruciava, lei era meticolosa, era partita dalle gambe, su cui si concentravano gran parte delle ferite più profonde, proprio dove le forze lo avevano abbandonato e si era accasciato sui cocci di ceramica e le schegge di vetro.

Al disinfettante seguiva una strana pomata vischiosa e semi trasparente, e poi una piccola benda o un cerotto per i tagli più piccoli. Sembrava lo avesse già fatto un milione di volte.

Era seduto sul bordo del letto, con la testa leggermente inclinata di lato, e la guardava: gli appariva concentrata e assorta, inginocchiata ai suoi piedi, e si stupiva di come anche così gli sembrasse forte, come se avesse perfettamente il controllo. La fronte aggrottata, il broncio familiare della quattordicenne che era stata, le dita delicate al tocco pur nella loro risolutezza; si era tolta i guanti di seta e li aveva gettati in un angolo, lui notò c'erano delle piccole macchie di sangue sopra.

"I guanti..."

Lei aveva guardato nell'angolo, e poi lui, con sguardo interrogativo. Aveva due occhi grandi e accigliati, velati di leggera preoccupazione.

"Mi dispiace...li...li faremo lavare."

Lei scosse il capo. Tornò a tamponare una ferita con il disinfettante.

"Li laverò da sola, o li butterò." aveva risposto, poi aveva passato la pomata viscosa sulla ferita "Non gli lascerò in pasto una storia così succosa."

Stella ora stava esaminando ogni angolo delle sue gambe, e fu nell'istante in cui sentì il calore della sua mano schiudergli leggermente le cosce per assicurarsi che non ci fossero ferite, che Stolas realizzò che, sotto la vestaglia, era ancora nudo.

Sentì le sue guance bruciare, era così intimo, non si toccavano da mesi, in verità non si erano mai toccati davvero. Lei sembrava così disinvolta nel maneggiare il suo corpo.
Ora si era seduta accanto a lui sul letto, gli aveva sfilato la vestaglia dalle spalle e scrutato ogni centimetro della sua pelle. C'era una piccola ferita poco sopra l'inguine, un'altra poco profonda all'altezza della clavicola.

Stella si era premurata a medicarle senza mostrare il minimo disagio, ma Stolas aveva avuto un piccolo sussulto di confuso imbarazzo quando si era sentito sfiorare.

"Sta' fermo!" aveva detto lei "Ti ho fatto male?"

"No..." aveva sussurrato.

Restava solo un graffio appena accennato sotto l'occhio.

"Avresti potuto accecarti" lo rimproverò, poi tamponò il batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante sul taglietto. "Non voglio sapere che è successo, se non vuoi dirmelo. Ma devi stare più attento."

"Il solito comportamento pressante di mio padre, non ho... non ho retto" tagliò corto lui, senza approfondire.

"Già..." lei si era rabbuiata "I padri..."

Sotto l'occhio non c'era modo di applicare un cerotto, gli spalmò la pomata vischiosa con il lato del pollice.

Quando i loro sguardi si incontrarono vide in lui qualcosa di diverso, una luce nuova, come di una flebile fiamma accesa, si chiese cosa fosse successo davvero con Paimon e si pentì di avergli concesso la possibilità di non rivelarlo.

Il suo cuore sussultò per un istante quando assunse la consapevolezza di trovarlo attraente. Forse era l'aspetto da cattivo ragazzo, con tutte le bende e i cerotti, e il taglio sotto l'occhio. Il corpo magro e rilassato sul letto. Forse era la nudità, forse la fiamma a lungo soffocata della giovinezza. Forse era solo una sensazione stupida e passeggera, dettata da quel momento di inusuale vulnerabilità.

Gli accarezzò la guancia e poi, senza pensarci troppo, gli stampò un bacio sulla bocca. In barba a tutti i suggerimenti di Andrealphus sul gioco lento e calcolato della seduzione.

Pensò che fosse giusto che Stolas avesse il sapore legnoso del tè, e il sentore salato delle lacrime.

Era il primo bacio dopo otto mesi, dopo il primo e unico bacio pubblico che aveva suggellato la loro unione. Nemmeno quella disgraziata notte avevano osato scambiarsi un bacio di conforto.

Era il suo secondo bacio in una vita intera, il primo bacio che desiderasse.

Il cuore di Stolas si strinse, si chiedeva perché lo stesse facendo in quel momento, dopo averlo visto così fragile, dopo essersi presa cura di lui, dopo averlo rimproverato per non essere stato attento. Sapeva che odiava la debolezza, e c'era forse qualcuno che apparisse più debole di lui in quel momento?

Per un breve istante aveva ceduto al calore di quella bocca contro la sua, aveva schiuso le labbra assaggiando il sapore di lei, indovinandone un gusto lieve di caramello, aveva sentito le dita magre sfiorargli la scapola sana, l'altra mano afferrargli la nuca per attirarlo più vicino, una scarica elettrica attraversargli la spina dorsale.

Ma poi la stretta al cuore si era fatta più forte, le dita di lei sembravano bruciare sulla sua pelle. Si chiese perché non potesse lasciarsi andare e basta, arrendersi alla sensazione, al calore che gli si irradiava nel petto. Si chiese cosa ci fosse di sbagliato in lui, perché non riuscisse ad abbandonarsi.

Si chiese se fosse giusto, era fuori dall'accordo e non ne avevano riparlato, non seriamente almeno. Si chiese tante cose tutte insieme e ottenne solo una risposta: aveva esaurito la carica emotiva, per quel giorno non avrebbe potuto reggere altro.

"Stella... Non..." Si era staccato dal bacio, un leggero affanno nella voce "non adesso, non così... Non so nemmeno come... come mi sento a riguardo..."

Le guance di Stella si erano fatte rosso vivo.

"Cazzo. Lo sapevo, non avrei…”

Sono solo una stupida impulsiva. Un pensiero fulmineo e tagliente. Hanno ragione, tutti quanti.

Si era alzata dal letto di scatto coprendosi la bocca con le mani. Gli occhi lucidi di imbarazzo e delusione. Non sapeva che cosa si aspettasse, non sapeva nemmeno che cosa volesse davvero, ma di certo non quello che era successo.

"Rimettiti quella cosa per favore" aveva detto poi indicando la vestaglia.

Era tornata nel salottino da tè e si era messa a raccogliere i cocci e le schegge, lo aveva fatto scrupolosamente, dilatando il tempo con il silenzio e con movimenti meccanici e ripetitivi, e poi aveva coperto la cornice dello specchio distrutto con un drappo color pervinca. Ora la stanza sembrava non aver visto nessuna lotta, un normale salotto da tè, se non fosse mancata la teiera.

"Scusami io... Avevamo detto che non...Tu mi avevi chiesto..." Stolas si stringeva nella vestaglia come se volesse scomparirci dentro "Non capisco che cosa vuoi Stella... Dove...dove ho sbagliato?"

Lei sospirò "Niente. Non hai sbagliato niente. Sei solo uno stupido, e io più di te."

Era andata via e non l'aveva più vista per tutto il giorno.

***

Quella notte l'aveva aspettata per ore, sdraiato sul letto, guardando il soffitto dipinto. Erano passate le tre e non era riuscito a prendere sonno, non era tornata, non sarebbe tornata.
Acquisita tale consapevolezza aveva preso l’audace decisione di andare da lei, si era alzato e aveva attraversato il palazzo, si era addentrato nelle stanze di Stella: erano una copia perfetta delle sue, un ambiente familiare e specchiato, con le tende dello stesso colore, le poltroncine uguali e lo stesso tavolo da tè, notò che Stella aveva coperto anche il suo specchio: lo aveva fatto quel giorno? O era successo tempo prima? Suo padre era comparso anche a lei? Lo avrebbe davvero fatto?

Era tutto uguale, ma sopra i tavolini e le mensole c’era la presenza di lei. Una presenza sottile, solo appoggiata, come se fosse di passaggio. La boccetta di un profumo sulla mensola dietro il divanetto, un burro di cacao, di certo al caramello, un romanzo lasciato a metà e riposto a faccia in giù sul tavolo da tè. Tra i cuscini del divano stava un quadernino rosa con qualche parola scritta sopra che, sapeva, non avrebbe dovuto leggere e una vecchia foto, ingiallita e senza cornice, con una donna di spalle che teneva in braccio una Stella bambina. La fede, ancora macchiata di sangue, appoggiata anche quella sul tavolo da tè.

"Io non… non riesco a dormire...posso stare qui stanotte?"

Una richiesta formulata in un modo infantile, come un bambino che ha fatto un brutto sogno.

Anche lei era sveglia, stava rannicchiata dando le spalle alla porta, al suono della sua voce si era girata nelle coperte e aveva visto la sagoma di lui, come il negativo di una foto, emergere dalla luce del salottino.

"Pensavo te ne saresti stato col culo per terra a fissare il muro per tutta la notte." Il suo tono era quello di una ragazzina offesa, e questo aveva fatto sorridere Stolas.

"Se non so rialzarmi da solo, come farò a guidare un regno?" le aveva risposto.

Lei aveva sbuffato, ma gli aveva fatto spazio e lui si era sdraiato a pancia in su, tenendosi ad una rispettosa distanza.

"Stolas?"

"Mh?"

Lei gli aveva preso il polso, trascinandolo sotto la coperta, più vicino. Ora potevano sentire l'uno il calore del corpo dell'altro. Lui aveva cercato la sua mano nel buio e l'aveva avvolta in una stretta leggera.

"Sei davvero uno stupido."

"Lo so."

 

 

 

Notes:

Arriva così, solo perchè per qualche notte non ho fondamentalmente dormito.
Quante crepe ci sono nel corpo e quante nel cuore? Quanti errori e incomprensioni si possono sopportare prima di rompersi? Quanta solitudine può esserci nella presenza dell'altro? Ma sopratutto... che romanzo sta leggendo Stella tanto da sentire il bisogno di tenerlo a faccia in giù?

Se avessi le risposte a queste domande, non starei qui a scrivere.

Chapter 8: Fessure sul rimosso (katabasis)

Summary:

‹‹Dentro di sé sapeva che avrebbe dovuto fermarsi. Che Stella si sarebbe arrabbiata. Ma Stella era chissà dove, e nell' angolo c'era un vecchio baule scardinato. Se non l'ho aperto io, non sono colpevole. Si giustificò con sé stesso. Ma intanto sentiva il cuore farsi gonfio e pesante, si sentiva un intruso in un mondo altro, come se in modo sacrilego si fosse affacciato su una soglia a cui non era stato iniziato.»

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

A tutte le bambine ben educate.
 

 

Fessure sul rimosso (Katabasis)
 

"Non capisco perché proprio alla tenuta invernale, è l'equinozio di primavera!"

Stella camminava nervosamente avanti e indietro, con la voce rotta e acuta. Andrealphus era seduto sul divano, sprofondava nei cuscini con la schiena, seguendo quell'andirivieni con lo sguardo. Manteneva una parvenza di distaccata e annoiata, capiva le motivazioni di sua sorella, ma non poteva assecondarla.

"Perché è il palazzo principale, è l'altra che è la tenuta estiva."
"Io lì non ci torno."
"Non puoi evitarlo, sei Principessa. E siete stati invitati a presiedere. Ufficialmente."
"Certo, e prima non potevo evitarlo perché era la mia fottuta casa. Me ne sono andata e continuo ad essere risucchiata dentro. Fa' cambiare il luogo della festa o non ci sarà nessuno ricevimento."
"Non essere irragionevole..."
"Possiamo farlo qui..." aveva suggerito, gli occhi trasudavano ansia e trepidazione "Quello dei cicli astronomici è Stolas, cosa c'entra la nostra famiglia?"
"Eh-ehm..." Andrealphus la guardò con disappunto.
"Ah già, tutto per i tuoi stupidi studi di astronomia[1]"
"È... è metà della mia formazione!"

Stella aveva sventolato la mano come a dire "certo, certo, non importa". E lui l'aveva deliberatamente ignorata, continuando a parlare:

"Non possiamo farlo qui perché è il ricevimento di nostro padre. E tu devi venire, perché hai sempre partecipato quando eri solo una marchesina, e non capisco adesso che puoi partecipare da Principessa perché tu stia facendo i capricci."

"Lo sai benissimo invece. Ti coprivi gli occhi perché ti faceva comodo non immischiarti, o forse perché pensavi che me lo meritassi, che andasse bene, non lo so!"
"Stella ora calmati...questo non c'entra con..."
"Stella- Stella – Stella! Stella devi essere perfetta! Sta' dritta quando cammini, sta' dritta quando canti, mantieni il controllo quando danzi, anche se stai danzando da quattro fottute ore!"

Ora gridava a pieni polmoni, con la voce impostata di una cantante lirica. Dopotutto – crudele ironia – le lezioni di canto erano servite a qualcosa.

"Mangia a bocca chiusa, non rispondere male e non contraddire, studia quel maledetto violoncello fino ad aprirti i polpastrelli! Se no il principe non ti vorrà, e deluderai la tua famiglia, e soprattutto se non ti fai abbastanza male da sola ci sarà qualcun altro pronto a fartene! Non commettere nessun fottuto errore in nessun cazzo di ambito altrimenti verrai punita! O se non le prendi, perché è solo la giornata buona, ti faranno sentire una perfetta incapace! Inadeguata a vivere a corte! Una fottuta plebea. Anche se sei solo una bambina che non capisce nemmeno il perché tutti quanti vogliano qualcosa da te!"

Aveva afferrato un vaso e lo aveva scaraventato per terra, frantumandolo in mille pezzi. Deve essere il leit-motiv di questo matrimonio. Pensò.

"Quel vaso mi piaceva!" disse Andrealphus nel tentativo di sdrammatizzate.
"Oh, va' a farti fottere, te ne ricompro dieci!" aveva risposto lei.

Ma Andrealphus la guardava con commiserazione, schiacciato da un senso di colpa e di impotenza.

"E quando finalmente ti sei messo in mezzo" aveva concluso lei, ancora sull'orlo delle lacrime "è stato solo per diventare il suo lacchè."

Il volto di Andrealphus si era colorato di vergogna.

"Ero un ragazzino Stella...ho fatto quello che...che potevo."

"Beh, non è stato abbastanza. E lo vedo come assecondi ancora nostro padre." Si era passata il dorso della mano sotto gli occhi "Ti ha mandato qui a farmi la guardia."

Andrealphus sapeva, in cuor suo, che fargli la guardia, come diceva lei, era sempre stato l'unico modo che aveva trovato per proteggerla. Se il cattivo era lui, se era lui a punire e riprendere, non sarebbero dovuti passare dal Marchese.

"Stella, per favore, sei un'adulta ormai. Non presentarsi non è un'opzione. E nostro padre è vecchio e stanco, affrontare un viaggio potrebbe..."

"Che muoia. Non mi importa."

Andrealphus fu percorso da un brivido lungo la schiena, era la prima volta che sua sorella diceva ad alta voce quello che – sapeva - pensava da sempre.


***


Stella era insolitamente silenziosa. Di solito parlava sempre: parlava per prenderlo in giro, per lanciargli frecciatine, parlava di come avrebbe voluto cambiare il colore dei tappeti, rifare le tende, parlava di come non fosse contenta di una cosa o di un'altra che era successa a corte, parlava per lamentarsi che Stolas non ci fosse mai, che stesse sempre nascosto a fare il topo di biblioteca o il giardiniere, e parlava per lamentarsi che Stolas le stesse troppo intorno quando voleva solo un po' di pace. Parlava per non fermarsi ad ascoltare davvero i suoi pensieri.

Non sentirla parlare inquietava il principe. Non erano mai stati al palazzo del Marchese. Si erano sempre visti alla tenuta estiva, o nel palazzo di Paimon, o nel loro piccolo palazzo d'inverno.

In effetti era quantomeno insolito che si stesse celebrando l'equinozio di primavera. Doveva essere qualcosa che aveva a che fare con la fertilità e la generatività. Sperava che non ruotasse tutto attorno a quello però, o la principessa avrebbe potuto avere uno dei suoi... momenti. E non doveva succedere davanti a metà della nobiltà, sarebbe stato imbarazzante e inopportuno. Lo pensò, e poi si vergognò di quel pensiero. Era inutile, per quanto si dicesse di essere superiore a certa merda che gli avevano infilato in testa, non riusciva a svincolarsi da quella fuffa pomposa su cosa fosse decoroso o meno, e non se ne sarebbe liberato per molti, moltissimi, anni.

Ma non era solo quello che lo agitava. Era entrare nella vita di lei, nella vita prima di loro. In fondo non la conosceva. Ma soprattutto non sapeva che cosa amasse davvero, e lei si guardava bene dal farglielo sapere. Era davvero la donna frivola che si lamentava dell'invadenza della servitù? O era la donna che scriveva i suoi pensieri più profondi sul quadernino rosa nascosto alla buona tra i cuscini delle sue stanze? Era entrambe le cose? Poteva essere entrambe le cose?

Di lei aveva imparato quanto basta. Aveva imparato che se si sentiva in pericolo, giudicata o frustrata attaccava. Che fosse con parole taglienti o lanciando un piattino da dessert poco importava. Aveva imparato che era sempre sulla difensiva, come se da un momento all'altro dovesse essere pronta a rispondere o a lottare. Sapeva che aveva il controllo, sempre, perché aveva imparato la disciplina dalla danza e dalla musica. E sapeva che certe micce la facevano scoppiare come se di controllo non ne avesse affatto. Il senso di inadeguatezza era una di queste. E quella festa rischiava di essere un mucchio di dinamite.

Per qualche motivo, Stolas, si aspettava che avrebbero dormito nelle vecchie stanze di lei. Lo invadeva una piccola vena di morbosa curiosità su che aspetto dovessero avere. Invece erano stati sistemati in una stanza del palazzo asettica, con pochi oggetti di circostanza, che non lasciava trasparire nessuna storia, nessun passato, solo un freddo e insignificante presente. A dire il vero Stella lo aveva lasciato da solo con due facchini stracarichi di roba che - era certo - non sarebbe servita a nulla, ed era scomparsa.
Così si era ritrovato da solo ad esplorare il palazzo. Pensò che fosse molto diverso dal loro, non c'era molta servitù o, se c'era, non girovagava per il castello. Non sembrava interamente abitato, come se un'ala fosse stata chiusa e mai più percorsa da tempo. C'era polvere sull'incavo delle cornici, polvere sulle tende. Stolas era stato attratto dalla zona apparentemente in disuso, e aveva percorso il lungo corridoio, accompagnato solo dal suono dei suoi passi che echeggiavano sul marmo. Aveva aperto qualche porta con la discrezione di chi ha paura di essere beccato e con la curiosità tipica della giovinezza. Trovò mobili coperti da grandi teli bianchi, e le imposte chiuse che lasciavano filtrare poche lame di luce.

Era approdato ad un'ampia stanza, anche questa soffocata dalla penombra, con la carta da parati color avorio con un motivo a farfalle. Un letto a baldacchino dello stesso colore. E tante cose, ammucchiate e sparse, come alla vigilia di una fuga, o come i residui di una lotta.
Una bambola di porcellana con un braccio staccato. Un carillon che non suonava più, rovesciato aperto sul comodino. Diversi fogli accartocciati sul pavimento. Si avvicinò e ne raccolse uno. Era lo spartito di un concerto per piano e violoncello di Chopin[2]. Realizzò che in quasi un anno di matrimonio non l'aveva mai sentita suonare, e questo lo fece sentire, per qualche motivo, colpevole.
Trovò anche qualche foto strappata in due, e le rimise insieme alla buona. C'era lei, bambina, seduta a modo e con un sorriso pacato e serio. Sembrava bella e triste. E soprattutto, per niente spaventosa. Chissà perché, tra tutte le foto, mio padre mi ha mostrato quella foto terribile. Pensò tra sé e sé. Probabilmente solo per torturarlo, dopotutto si trattava di Paimon.
Scostò le ante dell'armadio socchiuso e vi trovò appesi pochi vestiti, tutti di colori chiari: bianco candido, avorio, rosa cipria, azzurro pastello.

Dentro di sé sapeva che avrebbe dovuto fermarsi. Che Stella si sarebbe arrabbiataMa Stella era chissà dove, e nell' angolo c'era un vecchio baule scardinato. Se non l'ho aperto io, non sono colpevole. Si giustificò con sé stessoMa intanto sentiva il cuore farsi gonfio e pesante, si sentiva un intruso in un mondo altro, come se in modo sacrilego si fosse affacciato su una soglia a cui non era stato iniziato.

Dentro il baule trovò diversi giochi, gran parte di questi distrutti. E due o tre disegni dal tratto marcato, in certi punti il foglio era stato bucato, tanto forte era stato calcato il colore. Si sarebbe aspettato un sacco di rosa e di azzurro; invece, c'era tanto rosso e tanto nero. E il colore strabordava oltre i contorni delle figure. Ebbe di nuovo la sensazione di stare guardando qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.

Si trattenne dal frugare nei cassetti, riposizionò le cose come le aveva trovate. Accartocciò di nuovo persino lo spartito di Chopin e lo rimise esattamente dove lo aveva preso. Separò i due pezzi della foto che aveva ricomposto. Poi lasciò la stanza, lanciandogli un'ultima occhiata prima di richiudere la porta, percorso da un vago senso di inquietudine.

Il corridoio era ancora vuoto, ma nel silenzio, lontano, si sentiva il suono lieve di uno strumento ad arco. Per un attimo pensò che fosse frutto della sua immaginazione, ma poi, come con il canto di una sirena, non poté fare a meno di seguirlo. Camminava trattenendo il respiro, non voleva fare rumore, una strana sensazione di timore gli faceva torcere lo stomaco.

Salì una rampa di scale e il suono si fece chiaro, proseguì fino a trovarsi di fronte ad una porta appena accostata. Sbirciò dentro. La stanza era inondata di luce, riusciva a vedere il pulviscolo atmosferico nell'aria, sembrava polvere di stelle.
E lei era lì, completamente persa in sé stessa e avvolta dalla luce, con la bocca serrata in una linea sottile e gli occhi socchiusi, col violoncello abbracciato tra le gambe schiuse, a suonare un'elegia malinconica e dolce.[3]
Stella non si accorse della sua presenza e, prima che potesse farlo, lui scivolò a lato della porta, sedette per terra, e la ascoltò suonare per la prima volta, per assolversi dal senso di colpa provato poco prima. Quella musica gli chiudeva la gola in un nodo di tristezza.

Un'ultima nota, una stonatura e poi il silenzio. Un suono di tacchi che sbattevano sul marmo.
"Maledizione! Maledizione!"
Un singhiozzo.
“Lo sapevo!”
Un archetto spezzato.
"Lo sapevo, lo sapevo che non potevo tornare qui!"
La sentì piangere da dietro la porta. Rimase in silenzio, nascosto, col cuore ancora gonfio e pesante, e sentì che qualcosa gli si spezzava dentro. Così, per interminabili minuti, pianse con lei. Ma poi fu preso dall'incontenibile timore di essere visto, un intruso in un luogo e in un tempo che non erano suoi. Si allontanò, il fruscio della camicia fece un rumore quasi impercettibile, ma lei, nella vergogna della sua debolezza, era vigile e lo sentì.

Corse alla porta e la spalancò, con gli occhi ancora gonfi, si guardò intorno ma tutto era vuoto.

"Pa..papá?" -'apá?-
"A-Andre...?" -'ndre?-
"...."
"...Stolas?" –‘olas?-

Solo un' eco. Nessuno rispose.
 


•••••••••••

 

Qui sotto trovate le cose importanti! Non genericamente importanti, diciamo importanti per me!


[1] [1] Andrealphus, nella Piccola chiave di Salomone è indicato come il demone esperto in Geometria e Misure ma anche in Astronomia!

[2] Se ve lo state chiedendo, sì, Chopin ha composto anche per violoncello. E sì, ho in mente un concerto preciso, se volete ascoltarlo lo trovate qui:https://youtu.be/qAaGrczZ2h0?si=AqZSYilT--wBaNX2

[3] Anche questa Elegia esiste davvero, si tratta di un brano di Gabriel Fauré, ed è davvero malinconica e dolce: https://youtu.be/_hUJKqHTOEI?si=9E2IG2J7ALBhKk0r

Notes:

Qui piove senza sosta da tutto il giorno,e forse anche per questo il capitolo voleva essere pubblicato oggi, per non piangere da solo.
Questo capitolo è stato una discesa. Di un Orfeo tutto particolare in un oltretomba altrettanto particolare. Ma per ogni catabasi, c'è un'anabasi e, lo prometto, arriverà presto. 

Chapter 9: Fuga all’Inglese (Anabasis)

Summary:

"Stolas?" fece lei, e gli diede una leggera stretta nel punto in cui lo teneva sottobraccio.
Lui la guardò ed ebbe un piccolo sussulto, non poteva farci niente, quella sera Stella emanava una luce diversa.
"Quand'è che siamo stati ragazzi l'ultima volta?"
Lui sorrise mesto.
"Non penso di ricordarlo."
"Andiamocene di qui."
Gli fece un sorriso speranzoso e sincero, che non le aveva visto mai addosso, e che, come il vestito e la ribellione silenziosa, era diverso e le donava.
"Cosa? Ora?"
"Ora."
Lui sembrò esitare.
"Oh, andiamo, ti interessa o no questa stupida festa? Chi vuoi che noti mai la nostra assenza?"

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Fuga all’Inglese (Anabasis)

 

Poco prima del ricevimento Stella era emersa dalla loro stanza con indosso un abito viola cangiante che ricordava il cielo al crepuscolo, era ampio e con uno spacco che le faceva intravedere le cosce nude. A Stolas era parso di trovarsi davanti una sconosciuta: aveva spalancato gli occhi di sorpresa senza riuscire a dire una parola. Lei aveva sul viso un mezzo sorriso canzonatorio, come fosse contenta di quella sua trovata.

"Ma che diamine ti sei messa?"


La voce di Andrealphus echeggiò per il corridoio, e in un baleno le fu davanti. Lei fece la sua tipica risatina giuliva di quando faceva un dispettuccio.

"Lo sooo, papà si incazzerà un sacco!"
"Modera il linguaggio e datti una calmata siamo-" le afferrò il braccio scuotendola "- siamo a casa!" Le disse a denti stretti.

Stolas sussultò a quella vista ed ebbe l'impulso di intervenire. Ma lei si liberò dalla presa di scatto, come fosse un automatismo:

"Oh, ma questa non è più la mia casa." Rispose.
Poi fece pat-pat con entrambe le mani sul vestito e un mezzo giro su sé stessa:
"Allora Stols? Che dici?"  di nuovo quella risata sciocca, di simulata sicurezza e noncuranza.
"Eh? Oh. Sei...sei bella." Lo pensava davvero, solo che per lui era bella com'era bello un fiore o un quadro dipinto a modo. Chissà qual era il modo in cui vedevano gli altri la sua bellezza quando gli dicevano cose tipo sei fortunato, ti hanno trovato una bellissima moglie.

"Dille di cambiarsi Stolas, di mettersi uno dei suoi mille abiti pastello che si è portata appresso."
Stolas sentì una morsa di fastidio attanagliargli lo stomaco.
"È tua moglie, insomma! Fatti rispettare. Falla vestire decorosamente!"

Stolas era buono e gentile e Andrealphus era suo cognato, non pretendeva che gli si desse del voi, ma il rispetto non era una questione di formule, era una questione di modi. E poi lui era un Principe, e Andrealphus solo il figlio di un Marchese, e quello suonava fin troppo come un ordine.
Sentì il petto infiammarsi di offesa. Le luci del corridoio tremarono per un istante, e l'aria si riempì di rosso e nero. La voce del principe si fece profonda e tonante.

"Credo che quello che debba darsi una calmata e badare a come parla sia tu, cognato." disse serio. Andrealphus indietreggiò di un paio di passi, dissimulando malamente la paura.
"Quanto a me" continuò lanciandogli uno sguardo affilato, ancora avvolto nella nube rossastra "non devo dirle proprio niente, è un'adulta, ed è la tua Principessa, non un tuo giocattolino da vestire. Mi sono spiegato?"

Andrealphus spalancò gli occhi per lo smacco, e trattenne il fremito che gli saliva lungo la colonna.
“S-ì.” rispose, sforzandosi di mantenere un controllo almeno apparente.
Il principe lo guardava ancora duramente, come a esortarlo a fare meglio. Andrealphus deglutì.
“Sì. È chiaro. Vostra Altezza.” mormorò infine, gonfio di umiliazione.

Stella era rimasta immobile a guardarlo: Stolas era ipnotico nel suo abito elegante e avvolto dalla nube del suo potere sopito. Sentì una sensazione di calore invaderle il petto e le guance e si crogiolò nell'inusuale sensazione di essere stata difesa, stampandosi in faccia il sorriso soddisfatto di una bambina discola.
"Hai sentito? Mio marito – il tuo Signore – mi trova bella. Ci vediamo a ricevimento, fratellino."
Prese il principe sottobraccio e se lo portò via ancheggiando.

"Che problema c'è con il vestito? È diverso. Ma ti dona." Le disse sottovoce Stolas, tornato ai suoi soliti modi gentili, quando si furono allontanati.
Stella esitò. Ma dopotutto se lo era guadagnato, un frammento di lei, una tessera del puzzle che non avrebbe ricomposto mai.
"Mio padre ha questa ossessione con una certa immagine che dovrei dare di me." Scuoteva la testa come se fosse la cosa più ridicola che potesse dire "Non ho mai indossato né abiti scuri né appariscenti. Non vorrai mica sembrare una donna a lutto o una scostumata! Oh, se darà di matto stasera!" e non riuscì a trattenere un mezzo sorriso mentre lo diceva. Era uno strano e silenzioso modo di ribellarsi, ma Stolas piacque, anche quello era diverso dal solito, ma le donava; quella sera non ci sarebbero stati scontri tra loro, intorno c'erano troppi nemici per restare da soli sul campo di battaglia.

Il ricevimento era la copia identica di tutti i ricevimenti che si erano susseguiti negli anni nelle tenute di Duchi, Conti e Marchesi, e di certo più modesto di uno qualsiasi di quelli di Paimon.
Ma c'erano gli stessi addobbi ridicoli e crudeli di fiori recisi che Stolas non sopportava. E le stesse chiacchiere vuote. E le stesse facce che conosceva a memoria. C'erano anche due compagni del collegio di Stella, al principe non piacevano poi molto, ma lei nutriva per loro uno strano attaccamento. E lui non riusciva a capire come non si accorgesse che in fondo la invidiavano e la compativano. La invidiavano perché era riuscita ad accaparrarsi il rampollo più sfuggente e ambito della loro età – come se poi fosse un suo merito o una sua colpa – e la compativano perché la credevano frivola e sciocca, un lato di lei che si accentuava ogni qual volta veniva messa a paragone col fratello, così serio e a modo. Stolas vedeva tutto questo, ma Stella affogava nel bisogno di avere degli amici, e si confidava con loro, e straparlava; il principe non avrebbe mai osato toglierle questa illusione perché sapeva fin troppo bene cosa volesse dire agognare qualcuno con cui condividere le piccole cose.

Il Marchese era un uomo vecchio, e più malconcio di quanto non ricordasse dal loro matrimonio, come se quei dieci mesi senza figli in un palazzo popolato solo dalla servitù e da leccapiedi di ogni sorta, avessero accelerato il suo invecchiamento. Se ne stava seduto su una grande poltrona rialzata, e li scrutava con due occhi piccoli e incappucciati. Stella aveva ragione, era arrabbiato. Lei aveva fatto in modo che la vedesse soltanto quando erano già in mezzo alla folla di invitati, così che ribollisse dentro senza poter agire in nessun modo. Eppure, come tutti gli uomini vecchi e consunti che un tempo avevano tenuto il mondo in mano, non era riuscito a trattenersi del tutto; e durante il suo discorso di apertura, nell'annunciare la lieta presenza di sua figlia e del Principe, aveva detto – con la voce roca e sibilante di un non morto – qualcosa che poteva suonare più o meno così:

"Sono lieto e onorato che qui a presiedere ci sia il Principe Stolas, Guardiano delle stelle. E la mia bellissima figlia, che per qualche motivo, pur avendo un così degno sposo accanto, ha deciso di mettersi addosso gli abiti di una vedova che cerca un rimpiazzo.”

Disinnescare. Questa era la parola d'ordine. Stolas guardò sua moglie con gli occhi pieni di panico. Andrealphus guardò suo padre e poi Stella con la faccia di uno che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non essere lì.
Sarebbe esplosa? Sarebbe bastata quella piccola, piccolissima scintilla? Ma lei aveva ancora addosso quel mezzo sorriso beffardo e sembrava non essersela presa affatto, anzi godeva del disappunto causato al suo vecchio genitore. Si coccolava un calice di champagne tra le mani dondolando leggermente come se danzasse sul posto.
Dalla folla si levò un brusio, e per un istante tutti gli occhi furono puntati su di loro. Ma lei era fiera e soddisfatta, come se non fosse stata scalfita, come se avesse fatto un patto con sé stessa e intendesse rispettarlo in ogni modo.

Poi il Marchese, sorretto per il braccio da Andrealphus, arrancò verso i due giovani sposi, si inchinò a Stolas e poi si volse lentamente verso Stella e la avvolse in quello che dall’esterno doveva apparire come un abbraccio affettuoso.

"Sei fortunata che ti abbia visto solo adesso, o ti avrei riempita di schiaffi." Le sussurrò all'orecchio "Spero che tuo marito capisca in fretta come si trattano le donne come te." E le stampò un bacio grinzoso sulla guancia.

Lei sentì le guance bruciare come se fosse stata schiaffeggiata davvero. Fece un ampio respiro e sostenne il suo sguardo, colma di rabbia, senza parlare. E affondò le unghie nel braccio di Stolas.

Il principe le sentì affondare nella carne e trasalì.
"Che... Che ti ha detto?"
Lei rilassò la presa e gli rivolse uno sguardo di sgomento.
"Te lo dico poi, Stols."
 

***

 
Il ricevimento proseguì noioso e lento, con le danze cadenzate, i fiumi di champagne, le chiacchiere di circostanza, i complimenti di facciata e i pettegolezzi negli angoli delle sale. E l'unica domanda che tutti avrebbero voluto fare, soprattutto chi aveva dei pargoli appena sfornati e da sistemare, taciuta e sottintesa dietro i mille "come va il matrimonio?" o "programmi per il futuro?". Sembrava di annegare nel fetore insopportabile dell'ipocrisia e dell'interesse. Stolas si sentiva inquieto, ma sul viso di Stella sembrava essere tornata la bonaccia.

"Stolas?" fece lei, e gli diede una leggera stretta nel punto in cui lo teneva sottobraccio.
Lui la guardò ed ebbe un piccolo sussulto, non poteva farci niente, quella sera Stella emanava una luce diversa.
"Quand'è che siamo stati ragazzi l'ultima volta?"
Lui sorrise mesto.
"Non penso di ricordarlo."
"Andiamocene di qui."
Gli fece un sorriso speranzoso e sincero, che non le aveva visto mai addosso, e che, come il vestito e la ribellione silenziosa, era diverso e le donava.
"Cosa? Ora?"
"Ora."
Lui sembrò esitare.
"Oh, andiamo, ti interessa o no questa stupida festa? Chi vuoi che noti mai la nostra assenza?" fece un cenno con la testa, invitandolo a guardarsi intorno.

Stolas percorse la sala con lo sguardo: il Marchese si era congedato, ritirandosi nelle sue stanze per la salute malferma, e Andrealphus ne aveva approfittato per sgattaiolare in qualche anfratto trascinandosi dietro un giovane e ingenuo Conte. Ipocrita. E il resto degli ospiti era già troppo ubriaco o annoiato, o entrambe le cose, per badare a qualcosa che non fosse il proprio immenso ego.

Aveva ragione, non c'era motivo di restare, non sarebbe importato a nessuno. Fu contagiato dalla sua fiamma di vitalità.
"Se dobbiamo farlo, andrà fatto per bene." E le fece l'occhiolino. Le sembrò goffo e fuori posto, ma non fece che alimentare in lei il fuoco brioso di una sopita adolescenza.
Stolas afferrò con nonchalance dal mucchio la bottiglia di champagne che aveva l'aspetto più costoso, poi prese Stella per mano e la guidò nello spiraglio di una porta socchiusa. Si trovarono nel corridoio vuoto e lei inciampò sulla stoffa della gonna, il principe la trattenne.
"Oh no, ho rischiato di strappare il mio terribile vestito da vedova allegra!"
"Pfff-" lui rise in uno scarico di tensione.
"Shhh!" fece lei "Ci farai beccare prima che riusciamo a fare due metri!" e rise a sua volta mentre si sfilava le scarpe.

Camminarono per un po', lei scalza per non fare rumore, tenendo in mano le sue décolleté, e si nascosero in una biblioteca austera e buia.
Stella sedette per terra con la schiena al muro e Stolas la seguì. Bevve un sorso di champagne e le porse la bottiglia.
"Oh." Disse poi, tra l'ironico e il realmente dispiaciuto "Forse avrei dovuto prenderti un calice."
Ma Stella gli strappò la bottiglia dalle mani e bevve un grosso sorso.
"Oh Stolas, non sei stato in collegio?" e rise di nuovo.

Beh, no, non era stato in collegio. Non era stato ragazzo in mezzo ad altri ragazzi. Quella era la prima bravata da adolescente che faceva. Sgattaiolare via da una festa in cui era l'ospite d'onore, rubare la bottiglia migliore al padrone di casa, anzi sgattaiolare via con la figlia del padrone di casa. Va bene, era sua moglie, ma valeva comunque. Stava scappando da una festa di ricchi noiosi con una ragazza, questo lo rendeva un po' più simile a tutti i suoi coetanei. Spuntò mentalmente quel punto guadagnato nella scala della normalità.

"Non arrabbiarti ma..."
Stella gli lanciò un'occhiata torva, ma lui continuò, c'era fin troppo abituato a quegli sguardi.
"Che cosa ti prende stasera? Non è che...non è che sei ubriaca?" e nel domandarglielo arrossì.
Lei gli diede uno scappellotto e scoppiò a ridere di gusto
"Ma sei tutto scemo? Mi hai vista. Ho bevuto appena un bicchiere!
Stolas si sfregó la nuca per il bruciore: "Ma tu sei così... stranamente sorridente e stasera con tuo padre…e poi ieri io ti -"
"Ieri cosa?" lei si voltò di scatto a guardarlo accigliata.
"Niente è che" No, non gli avrebbe mai detto che l'aveva sentita piangere. Non mentre adesso gli appariva così serena. "è che mi sembravi nervosa mentre venivamo qui."
"Ho solo deciso che questo posto non deve avere potere su di me. Avrò, probabilmente, una vita intera per soffrire ancora, e oggi proprio non mi va."
Stolas abbassò lo sguardo e le sue guance si colorarono di nuovo di rosso.
"Per questo sei voluta andare via dalla festa?"
"Volevo un po' di pace. E un amico. E non stare a sentire ancora e ancora quegli stronzi del collegio."
Oh. Quindi lo sapeva anche lei.
"È solo una notte Stolas, una notte in cui siamo fuori da palazzo senza tutta quella pressione, senza doverci stendere l'uno accanto all'altro a fissare il soffitto. Una notte in cui, pensavo... Oh, al diavolo! Te lo chiedo di nuovo come te l'ho chiesto anni fa: hai dei desideri? Dimmene uno piccolo e semplice e lo realizzeremo stanotte."
Stolas ci pensò su, colto di sorpresa. Scartò due o tre pensieri che ritenne troppo imbarazzanti o inopportuni.
"Vorrei, uhm, andare nel mondo di sopra a guardare le stelle." disse infine.
Lei sembrò confusa.
"Ma non lo fai sempre?"
"Oh no, quelle sono proiezioni. E non voglio guardare il cielo seduto nella mia biblioteca. Voglio sedermi su una collina, circondato di fiori e profumi, sentire l'odore dell'erba umida, e guardare il cielo."
Le venne da ridere. Era così incredibilmente da lui.
"Puoi portarci in un posto così con una delle tue magie?"
"Io... Credo di sì... Ho aperto più volte dei portali ma... Non li ho mai attraversati."
"Non sarebbe la prima “prima volta” che condividiamo.” fece lei, con un sorriso dolceamaro.
"Sì, però..."
"Perché devi essere sempre così esitante e insicuro, Stolas!" disse lei con impazienza, incrociando le braccia.
Beh, almeno era certo che fosse sempre la solita Stella.
"No è che...non mi hai detto il tuo desiderio."
"Io? Io stanotte voglio solo avere diciott'anni."

Stella si alzò in piedi e diede un altro sorso alla bottiglia di champagne.
"Stai al passo, o sarò davvero solo io quella ubriaca qui!"

Bevve un sorso anche lui, e poi invocò il portale. Lo attraversò, senza guardarla, temeva in cuor suo che il monito antico valesse per chiunque attraversasse quella soglia e che, voltandosi, avrebbe rischiato di perdere quella luminosa versione di lei. Stella lo seguì, portandosi dietro da bottiglia di champagne.

Notes:

Avevo promesso una risalita. Abbiamo una risalita. Metaforica e reale, questi due vanno nel mondo di sopra. Se circa 18 anni fa qualcuno di voi ha visto una coppia di giovani ragazzi dall’aspetto insolito attraversare un portale di luce per guardare le stelle su una collina, probabilmente ha visto proprio loro! E forse ora lavora per i DHORKS, o sta nello scantinato degli X-Files insieme a Scully e Mulder. Vi vorrei tanto dire che quel qualcuno sono io, ma purtroppo no, non lo sono.

Il titolo del capitolo, e il contesto della seconda parte, è liberamente ispirato a Fuga all’Inglese di Paolo Conte. Volevo scrivere una situazione così da quando ha iniziato a frullarmi in testa questa canzone:

[…] Agguanta la mia mano e ce ne andiamo
Tanto di noi si può fare senza
E chi vuoi
Che noti mai la nostra assenza […]

Il piacere della fuga e della disubbidienza. La sottrazione irriverente ai doveri. Esprimere desideri piccoli e semplici. Ah, quanto può essere bella l’adolescenza!

Spero vi siate goduti la piccola scintilla di potere di Stolas, e che siate riusciti a farvi scivolare addosso, senza farvi ferire troppo, il bacio di Giuda del Marchese.
Per oggi dalla vostra Armilla è tutto, non ci resta che vederci dall’altra parte!

Chapter 10: Stelle e fiori di campo

Summary:

«I wish I had your angel tonight»
Se siete stati abbastanza attenti, sapete già cosa sta per succedere

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Stelle e fiori di campo

 

"Allora? È come te lo immaginavi?"

 

Domandò Stella, quasi più rivolta a sé stessa che al suo sposo. La volta celeste era gremita di stelle e sembrava non potesse essere abbracciata con un solo sguardo. Stava in piedi nel suo abito dello stesso colore del cielo, con le braccia distese ai lati del corpo e il collo della bottiglia stretta tra le dita sottili. Col viso rivolto alle stelle e la rassicurante sensazione di essere piccola e perduta in qualcosa di immensamente grande.

Anche Stolas guardava il cielo, e si riempiva gli occhi e il cuore di quel piccolo desiderio realizzato. In qualche modo sapeva che lo doveva a lei, che era lei la forza motrice che lo aveva risvegliato dal torpore della sua inettitudine, della sua paralizzante timidezza. Ora lui era nel suo elemento, ed era forte dell'energia che gli arrivava dalla volta celeste.

 

Se era come se lo era immaginato? Oh no, era molto di più, i suoi desideri non avevano mai avuto tale forza e vividezza.

"È meglio." rispose in un sussurro.

 

Si sganciò il mantello e lo pose sull'erba come una coperta. Sedette con le ginocchia leggermente flesse. Stella era ancora in piedi, sovrappensiero, illuminata dalla luce azzurrina del firmamento.

"Mi farai compagnia?" domandò timido, come se le stesse chiedendo chissà cosa e le mostrò lo spazio vuoto accanto a sé. Lei annuì e gli si mise accanto, con la sua spalla nuda che sfiorava la camicia di lui. La notte era fresca, ma non ci badava. Si sentiva davvero il profumo dei fiori e dell'erba bagnata di rugiada.

"Immagino mi farai una lezione di astronomia.” lo prese in giro lei.

"Oh no. Voglio che sia come quand'ero un bambino e non sapevo nulla dell' Orsa Maggiore o della Cintura di Orione: vedevo solo una miriade di chicchi luminosi senza nome e mi innamoravo delle stelle." si fermò un attimo, meditabondo "È così strano che alla fine mi abbiano dato te in sposa." disse infine.

Stella lo vide sorridere, e sentì una vena di amarezza attraversarle la mente. No, non era strano. Non era il destino. Lui aveva pochi mesi quando lei era venuta alla luce. Mi hanno chiamato così per te, una Stella che brillasse per il tuo diletto. Ero tua ancor prima di imparare ad essere mia. Ma non glielo disse. Perché il principe era un sognatore, e questa consapevolezza lo avrebbe distrutto, più di quanto non stesse logorando lei.

 

Rimasero in silenzio per un tempo indefinito a guardare il cielo. Lei era sprofondata nell'incavo della spalla di Stolas, resa molle dall'alcool che iniziava a darle alla testa. La serenità del momento era così irreale e intensa da risultarle quasi insopportabile, e le strinse il cuore di malinconia.

"In un'altra situazione mi avrebbe presa davvero a schiaffi." disse all'improvviso, sottovoce, come se parlasse con sé stessa. Il principe rabbrividì.

"È questo che ti ha detto prima?” Chiese con voce tremante.

"Credimi Stolas, se fossi stata nubile mi avrebbe fatto il culo a strisce davanti a tutta la nobiltà." fece lei, prima di prendere un altro sorso di champagne. E sentì il cuore di Stolas accelerare nel suo petto.

"Ma perché... Perché provocarlo stasera? Saremmo rimasti solo un giorno."

"Voglio che si ricordi che, piuttosto che piegarmi ancora alle sue stupide aspettative, mi lascerò spezzare."

"Non è saggio."

"Non devo essere saggia, devo essere forte."

"Sapersi piegare quando serve è una forma di fortezza."

"No, è codardia." bevve ancora, un grosso sorso, tutto d'un fiato.

 

Stolas sentì una fitta nel petto, e non riuscì a spiegarsi la sensazione amara che gli invadeva l'animo. Le strappò la bottiglia dalle mani. "Ora basta!" disse colmo di preoccupazione "Era questo che intendevi quando hai detto di voler fare la diciottenne? Ubriacarti e dire sciocchezze?"

Però, mentre lo diceva, bevve anche lui, doveva stare al passo.

"Dammi quella stupida bottiglia, Stolas!"

"No." e gliela allontanò ancora, tendendo il braccio verso l'esterno.

"Ma allora sei tu a volere gli schiaffi!" e gli colpì la mano che teneva la bottiglia.

Stolas perse la presa e lo champagne si rovesciò sull'erba.

 

Il fuoco del litigio si spense, sostituito da una vena di delusione. Lei lo guardava con occhi grandi e umidi.

"Mi... Mi dispiace... Volevo solo che anche tu avessi il tuo momento felice stasera." si giustificò Stolas "Mi sembrava che lo champagne non stesse aiutando."

Lei rimase in silenzio e non riuscì a reggere il suo sguardo, si sottrasse abbassando la testa. Col respiro irregolare per la perdita di controllo e per la vergogna di essere stata ripresa.

 

Ma poi successe una cosa che non si aspettava, perché nemmeno Stolas se lo aspettava. Sentì che le prendeva il viso tra le mani, e le labbra di lui posarle un casto bacio sulla fronte.

"Eri bella stasera nella tua ribellione" le disse. "Io non riesco a capirti, ma ti ammiro."

Lei sentì di nuovo quello strano calore invaderle il petto e la gola. Si fece rossa in viso non sapendo cosa dire. E poi gli tornò in mente quello Stolas potente e sicuro, che metteva al suo posto Andrealphus.

"Anche tu eri bello stasera." rispose, sopraffatta dall'imbarazzo. A lui scappò un sorriso di soddisfazione, e lei nascose la faccia nel suo petto. "Non ti ci abituare." aggiunse, ma la voce fu un mormorio soffocato nelle rouches della sua camicia.

Poteva sentire chiaramente ogni battito del suo cuore, e la timida stretta di lui che la avvolgeva con un braccio, mentre con l'altra mano le accarezzava piano la testa come fosse una bambina.

Il respiro di lei prese a regolarizzarsi, ma a quel tocco innocente il cuore sembrava uscirle dal petto, e sentiva nello stomaco un groviglio indefinito e bruciante. Sentiva l'immensa volta del cielo avvolgerli come una coperta, e sentiva che, nella sua intera vita, non c'era mai stato e forse non ci sarebbe stato mai più un momento migliore di quello.

 

"Stols?" si rimise a sedere per guardarlo negli occhi, lui piegò la testa di lato come a dire che la stava ascoltando.

"Voglio un altro sorso di champagne." disse lei, il tono della voce morbido e caldo.

"Oh. Sì. Possiamo vedere se è rimasto qualcos-" Si stava già contorcendo per raggiungere la bottiglia riversa sul prato, ma lei lo attirò vicino afferrandolo per il gilet.

"Non farmene pentire questa volta."

E assaggiò lo champagne dalle labbra di lui.

 

Quella volta fu più semplice e giusto. Forse perché avevano lo stesso sapore per confondersi l'uno nella bocca dell'altra. Forse perché non c'erano soffocanti pareti attorno a loro, né specchi da cui spiare, né porte da cui origliare. Perché non c'era un letto preparato con le lenzuola di seta né fiori recisi in un vaso azzurro, ma solo un mantello gettato tra i fiori di campo sull'erba bagnata.

Forse perché non c'era niente da dimostrare, e perché un corpo è solo un corpo, ed essere insieme è sempre meglio che essere soli. Forse perché lei voleva avere solo diciott'anni, e forse perché anche lui, per una notte, non voleva essere un principe, un mago o un guardiano delle stelle, ma solo un ragazzo come tanti.

 

Le dita affusolate di lei che gli sbottonavano la camicia scoprendogli il petto. Le mani incerte e febbrili di lui che le sganciavano il corpetto sulla schiena. I guanti abbandonati tra le margherite, il gilet gettato chissà dove tra i fili d'erba. La ricerca spasmodica del contatto, l'attrito delle cosce nude sul tessuto liscio del pantalone. Con lei concreta e vera come terra vulcanica e lui etereo e impalpabile come il firmamento.

E mentre Stella si riempiva gli occhi della visione d'insieme: del viso di Stolas arrossato e morbido, del suo corpo snello e teso; Stolas la cercava nei dettagli, nell'incavo della scapola nuda, nei polsi sottili, nelle mani bianche che gli accarezzavano il torace, negli occhi grandi e languidi.

Percorreva la curva del suo collo con baci timidi e incerti, e le posava carezze leggere al lato dei seni sodi, col cuore che gli scoppiava nel petto e il respiro mozzato a metà della gola.

 

Lei prese la mano di Stolas e la guidò ad avvolgerle un seno nudo.

"Andiamo Stols. Non sono un fiorellino delicato."

Lui la guardò con occhi lucidi e perduti, con la testa piena di domande e paure, con lui che non sapeva ancora nulla di sé stesso e lei che sembrava aver capito tutto di sé stessa e di quel gioco.

Le affondò titubante le dita nella carne in una stretta gentile; lei tremò di sollievo prima di catturargli di nuovo le labbra.

Lo tenne stretto, abbandonandosi sul petto di lui, fino a sentirne ogni battito e ogni respiro.

Il corpo di lei era caldo e soffice e i suoi baci più sicuri e affamati: percorreva il collo di Stolas assaggiandogli la pelle, alternando ai baci dei piccoli morsi esplorativi. Lo sentì sospirare e tremare alla sensazione, allora lo morse più forte, tra il collo e la spalla; Stolas lanciò un lamento confuso e un brivido caldo gli percorse la schiena. Spinse i fianchi verso di lei alla ricerca di attrito. Lei rise. Una risata calda e gutturale.

 

"Oh. A Sua Maestà piace il dolore." gli sussurrò all'orecchio.

 

Il cuore di Stolas saltò un battito, le guance si fecero più rosse di quanto già non fossero.

"Stella!" fece una risatina imbarazzata coprendosi il viso con le mani "Chi ti ha insegnato a parlare così?"

 

Lei fu percorsa da una scintilla di pudore: aveva esagerato? Era stata troppo irriverente?

Ma durò un istante, ormai era semi nuda, a cavalcioni su di lui, e sembrava aver toccato un nervo che lo faceva scattare. Che lo faceva sembrare bramoso e affamato quasi quanto lei.

 

"Perché? Mi sono forse sbagliata?"

 

Si alzò in piedi e si sfilò la gonna, e a Stolas sembrò grandissima e luminosa: una Stella stagliata nel cielo notturno. Un idolo d'avorio, una dea potente e terribile, e allora lui non poteva che essere il suo iniziato, o il suo sacrificio.

 

La vide tornare su di lui, e riprendere a baciarlo, a mordergli il collo e le labbra.

Sentì le sue mani armeggiare coi pantaloni, e sentì che lo toccava, ubriaca di desiderio, con carezze sicure e insistenti. Era la prima volta che qualcuno lo toccava così. "Stella..." ansimò. E mosse i fianchi per averne di più. Poi trascinò una mano tra le cosce di lei, incerto sul da farsi, la accarezzò con dita inesperte, schiudendo le sue labbra umide, sfiorandole il clitoride gonfio e sensibile, col timore di non fare bene: la sentì fremere al suo tocco e si rallegrò del gemito soffocato che le sfuggì dalle labbra. Era troppo. Era tutto troppo e tutto insieme, come un incantesimo più grande di lui, così grande da oscurare le incertezze e le domande, da ovattare il mondo intorno e zittire ogni pensiero.

Non riusciva più a pensare, solo ad abbandonarsi. Non c'era più ragione, c'erano solo i sensi: il calore bruciante delle mani impazienti di lei sul suo sesso, l'odore dolce della sua pelle e il profumo dei fiori, il suono della brezza primaverile e i loro sospiri.

 

"Lo vuoi, Stols?" il suo respiro caldo a fior di labbra.

"Lo voglio."

 

Così successe.

Per un allineamento dei pianeti. Per un equilibrio perfetto del giorno e della notte, della luce e del buio. Per l'unione ancestrale di terra e cielo.

Il respiro di lui nella bocca di lei, e loro due perduti in quel travasarsi l'uno nell'altra, in quello scambio reciproco e magico che mischia la pelle alla pelle e non conosce il confine dei corpi.

 

E, come tutte le cose più belle, quell'istante perfetto non si sarebbe ripetuto mai più.

Ma per ora non importava, importavano solo loro, le stelle e i fiori di campo.

 

***

 

Stavano sdraiati sotto l'alcova del cielo notturno, lei con la testa sul petto di Stolas ad ascoltarne il lento respiro, e Stolas ad accarezzarle la fronte con le dita. Non parlarono di quello che era successo, perché ogni parola sarebbe stata di troppo, era stata una fuga da custodire come un sogno.

 

"Posso esprimere un altro desiderio? È piccolo e semplice." disse lei sottovoce.

"Sì" sussurrò il principe.

"Possiamo vedere sorgere il sole?"

 

Aspettarono in silenzio l'arrivo della primavera e, quando le stelle lasciarono il posto alla loro sorella più luminosa, il cielo si fece rosato. I tiepidi raggi del sole colpirono la collina, illuminando il bianco e il giallo delle margherite e il verde dell'erba, svegliandoli dal sogno in cui si erano rifugiati.

Lei indossò di nuovo il corpetto e la gonna sgualcita, e lo guardò abbottonarsi la camicia e il gilet blu coi grandi bottoni d'argento, tutto arruffato e disordinato come non lo aveva visto mai.

 

Qualcosa scintillò nell' erba. Stella si chinò a raccoglierlo.

"Oh, devi aver perso un bottone." ma poi lo osservò meglio, era piccolo e color oro "Ah. No. Non penso sia tuo." aggiunse.

Ma Stolas glielo strappò dalle mani smanioso, come fosse una cosa preziosa e segreta:

"È mio invece." disse tutto d'un fiato.

Lei lo guardò accigliata, e una leggera sensazione di disagio la invase.

"Tuo? Ma i tuoi bottoni sono..."

Stolas lo teneva stretto nel pugno, sul volto un'espressione di doloroso sollievo. Ma poi vide le mille domande negli occhi di lei, e prese coscienza di come doveva essere sembrato disperato e impaziente.

Tornò in sé e le rivolse il più morbido e rassicurante degli sguardi.

"Non è nulla. Solo il ricordo di un'altra vita."

Lo ripose nel taschino del gilet e le sorrise.

"Dai, torniamo a casa."

La prese per mano, in una stretta dolce e sicura.

 

Stella si impose di rilassarsi. Era stata una notte perfetta. E l'alba era chiara e luminosa. Non doveva lasciare che una sensazione sciocca e infondata la tenesse intrappolata nella sua testa, non doveva pensarci troppo, perché non era nulla, perché non c'era motivo di lasciarsi turbare, dopotutto si trattava solo di un vecchio bottone.

 

Notes:

Se aveste voluto il lieto fine avreste dovuto fermarvi prima della seconda parte di questo capitolo. E soprattutto fermarvi lì e non continuare, perché per quanto possiamo nutrirci di autoinganni, sappiamo tutti benissimo come finirà questo matrimonio.
Ma credo che a chiunque in questa vita debba essere concessa almeno una notte per avere diciott’anni, per conoscere il piacere e il desiderio, per sfuggire al controllo del Super-io e abbandonarsi all’Es.
Sapevamo tutti che quel bottoncino dorato sarebbe stato la pistola di Čechov di questo racconto, e di questo matrimonio. Avrei forse potuto mantenere la magia almeno fino al prossimo capitolo. Ma i sogni sono appannaggio della notte, e il giorno si riprende quello che le tenebre hanno regalato.

Infine, alla fine di questo “primo arco” di 10 capitoli, siccome credo che la gratitudine, un po' come l’amore, sia un grande motore che move il sole e l’altre stelle, voglio ringraziare tutti voi lettori che mi avete seguito fin qui, e che spero continuerete a leggermi nei capitoli che verranno.

Chapter 11: Intermezzo

Summary:

Nelle stanze di Andrealphus.
Hangover e co-dipendenza emotiva.

Chapter Text

 

 

Intermezzo
 

Andrealphus aprì gli occhi in una camera da letto che sul momento non riconobbe. Gli ci volle un momento per ricordarsi che aveva passato la notte nella sua vecchia stanza, in casa di suo padre. Si sentiva stordito, le palpebre erano gonfie e pesanti e la testa gli scoppiava.

Si guardò intorno, era solo. Ovviamente. Nessuno sarebbe stato talmente stupido da farsi trovare lì al sorgere del sole.

Sperava solo che quel tizio... Oh...come si chiamava? Gli aveva chiesto il nome? Cazzo sono un disastro. Si massaggiò le palpebre con l'indice e il pollice. Insomma. Sperava solo che quel tizio, quel conte, fosse stato abbastanza discreto nel lasciare la sua stanza quella notte.

Si mise a sedere sul letto e una forte sensazione di nausea lo invase, sentì un sapore di anice invadergli la gola, accompagnato da un retrogusto amaro e pungente. Merda. Doveva vomitare. Arrancò fino al bagno utilizzando ogni goccia di autocontrollo per non vomitare sui variopinti tappeti persiani.

Mentre stava riverso sulla tavoletta, come il più basso dei plebei, a riversare nel water bile e assenzio si chiedeva che cosa stesse facendo della sua vita. Che cosa fosse diventato. Non era Marchese, perché Marchese era ancora suo padre. Non era un Guardiano, perché quello era Stolas. I suoi stupidi poteri non gli servivano ad altro che a raffreddare i drink di tutti quei nobili repressi che doveva ubriacare per portarseli a letto. Non era salito di status, perché non aveva voluto sposare una qualunque delle insulse duchesse che gli avevano fatto la corte negli anni.

Ma poi, di chi era stata l'idea dell'assenzio quella notte? Ne odiava il sapore, ne odiava l'odore. E ora se ne sentiva invaso, anche il suo sudore puzzava di quella roba immonda che bevevano solo i depressi e i poeti.

Non si ricordava niente. A stento riusciva a dipingere la faccia di quello con cui aveva passato la notte. Però si ricordava l'umiliazione del rimprovero di Stolas, un insulso diciottenne, che poteva permettersi di minacciarlo e di farsi chiamare "Vostra Altezza", di fargli chinare la testa come un suddito qualsiasi.
E si ricordava il brusio della folla nel vedere sua sorella vestita da puttana.
E la disapprovazione negli occhi di suo padre. Perché la colpa poteva anche essere di Stella, ma responsabilità era sua.

Vomitò ancora. Sentì l'esofago bruciargli come avesse ingoiato benzina.
Forse avrebbe dovuto sposare davvero una di quelle duchesse. Lasciare che Stella rovinasse sé stessa e il suo matrimonio come meglio credeva, che suo padre si consumasse nella vecchiaia solitaria che si meritava fin troppo. Sarebbe stato semplice, stanze separate, una notte ogni tanto di sacrificio, un figlio o due da fare crescere ai maestri privati e a tutori scelti, e la sua unica responsabilità sarebbe stata essere un uomo normale, un padre moderatamente presente, un marito gentile.

Perché doveva essere il fratello (il consigliere?) della Principessa, quando poteva essere il marito di una duchessa, e dunque, a sua volta, un Duca?

Un colpo di tosse, un altro conato di vomito, la sua camicia azzurra completamente intrisa di sudore. La gola in fiamme, sulla lingua solo il sapore amaro dell'assenzio e dell'autocommiserazione. Le tempie gli scoppiavano.

Era dipendente da Stella. Non poteva vivere senza di lei. Non poteva immaginare di rinunciare ai loro tè, ai loro litigi, alle loro colazioni della domenica. La odiava, lo infastidiva il suo comportamento volubile e scostante. E la amava perché lo faceva sentire utile, perché lo faceva sentire potente, perché era l'unica persona che gli dava ascolto, su cui aveva potere. E perché era l'unica persona che, in qualche modo, avesse mai ricambiato il suo affetto.
Per questo odiava di più Stolas. Perché lo aveva umiliato davanti a sua sorella. Perché lo aveva fatto apparire debole. Perché si era messo in mezzo.

Lui non è niente. Lui non sa niente di noi, niente della nostra famiglia. Di come siamo cresciuti. Di quello che abbiamo passato. È un intruso. Un intruso che me l'ha portata via. E gliel'ho consegnata con le mie stupide mani.

Lei sarebbe diventata madre presto o tardi. Sarebbe stata sempre più impegnata, sarebbe stata sempre più distante. Non ci sarebbe stato più tempo per il tè. Si sarebbe addolcita? Un'altra creatura avrebbe condiviso il suo sangue. Non sarebbe stato più lui la priorità, non sarebbe più stato lui il più importante, non sarebbe più stato lui il sangue del suo sangue, e sarebbe stato sempre più solo.

Pensa che non li abbia visti ieri sera, sgattaiolare via come innamorati? Lei mi dice che si odiano, che non si toccano nemmeno, che a stento si parlano. Ma mi mente. Non si fida più di me. È distante. Non sono più io la sua famiglia. Mi sta lasciando indietro. A cinquant’anni sarò ancora qui a svegliarmi da solo dopo una notte con uno sconosciuto qualsiasi.

Cazzo se era ancora ubriaco. Si tenne la testa con le mani come a schermarsi da quei pensieri intrusivi che gli vorticavano nel cervello come fantasmi venuti per tormentarlo. Come scarabocchi confusi sul foglio bianco della sua mente.
Merda. Merda. Non riusciva a respirare. Sentiva un peso nel petto che gli occludeva le vie respiratorie. La vista appannata. Gli girava la testa. Iniziò a tremare. Non gli succedeva più da quando era un ragazzino. Non può succedere di nuovo. No, no, no! Ma intanto il respiro era irregolare, come se non riuscisse a incamerare aria nei polmoni.

"STELLA!" gridò.

Ma come avrebbe potuto sentirlo? Il palazzo era immenso, e non era nemmeno certo che fosse ancora lì.

"Stella..." Singhiozzò. "Aiutami..."

E ancora il respiro affannato e irregolare, i tremori incontrollati, la camicia zuppa che gli si incollava alla pelle, non vedeva più niente. Sentiva solo il lino appiccicarsi al suo corpo con la sensazione che la stoffa lo stritolasse.

"AIUTO" gridò. "Non...non resp.... "

Boccheggiava. Il cuore sembrava volergli bucare il torace. Provò a sfilarsi la camicia senza successo, finì per strapparla rovinosamente. Si appoggiò al muro, abbracciandosi le ginocchia, preso dagli spasmi per la mancanza d'aria. Ma non c'era nessuno nelle sue stanze.

Cazzo morirò qui. Morirò nudo e circondato dal mio vomito.

La sensazione di soffocamento si fece più acuta.
La gola gli bruciava.
Le tempie gli martellavano forte.
Ora vedeva solo nero.

Lo soccorsero due imp in livrea, gli diedero da bere, lo coprirono con una vestaglia. Gli prepararono la colazione.

"Non ditelo a mio padre." Ordinò, ansante.
"Come sempre, signorino." disse il più vecchio dei due. "Dovrebbe iniziare a contare lentamente la prossima volta. Funzionava quand'era un bambino."
Andrealphus annuì, non trovando il coraggio di fare un sorriso.
E poi fu lasciato solo nella grande sala da pranzo. Come sempre. Come quando era un ragazzino. Con lui che provava a farsi spazio in una famiglia che non esisteva o che forse, più semplicemente, non si accorgeva di lui.
Quando si fu ripreso del tutto il sole era ormai alto nel cielo. La servitù lo informò che sua sorella e il principe erano già rientrati a casa.

Ecco. Lo sapevo. Comincia già a lasciarmi indietro.

Rientrò al palazzo di Stolas calmo e composto come se non fosse successo nulla. Come se la notte prima non avesse bevuto fino a svenire e non avesse appena avuto un attacco di panico nel bagno variopinto del palazzo di suo padre.
Era elegante, vestito a modo, profumatissimo e impomatato, con un viso sereno e un'espressione perfettamente controllata e affabile. Un diplomatico impeccabile. Ma non aveva voglia di parlare con nessuno.

Si diresse direttamente nelle sue stanze, e trovò nel suo salotto un'enorme quantità di vasi.
Erano identici a quello che Stella aveva rotto durante il loro litigio.

Quattro erano poggiati sul tavolo.
Tre stavano sul divanetto, sistemati come bambole che fingono di prendere il tè.
E due in piedi sulle sedioline.

 

E uno fungeva da fermacarte per un biglietto rosa ripiegato che recava scritto sopra, in bella grafia:

 

Andre


Lo aprí.
 

Visto che ti piaceva tanto quel vaso, te ne ho ricomprati dieci.
Resti, comunque, uno stronzo.

- S.

 

Sul volto di Andrealphus si allargò un sorriso. Forse, in fondo, le importava ancora di lui.

 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Complice la febbre, e la consapevolezza che il secondo arco sarà più duro e lungo da scrivere, ho voluto sbirciare nelle stanze di Andrealphus.
No, Andre, la privacy non qualcosa che appartiene al narratore onnisciente!
Anche i più controllati e impassibili possono avere un momento di debolezza. Qualcuno aiuti quest'uomo a risolvere i suoi problemi di attaccamento! 

Bene, le forze mi abbandonano, mi ritiro nelle mie stanze. (Come tutti, qui intorno)

- Armilla Lunastorta

Chapter 12: Guardarsi e non riconoscersi

Summary:

Per un po' era successo spesso, nei momenti e nei luoghi più improbabili e inopportuni, in un tentativo di protrarre quella fuga.
[...] Poi, senza ragione apparente e forse troppo presto, era diventato un automatismo. Una risposta pavloviana alla presenza dell'altro. Un cercarsi nella notte, nella fase tra la veglia e il sonno, quando calavano le difese e le inibizioni. Bastavano due dita leggere che percorrevano la schiena, un bacio rubato nella penombra, o un casuale sfiorarsi delle mani ad innescare la scintilla.
Ma ormai non era più com'era stato quella volta sotto il cielo.

Chapter Text

Guardarsi e non riconoscersi

 

Per un po' era successo spesso, nei momenti e nei luoghi più improbabili e inopportuni, in un tentativo di protrarre quella fuga.

C'era stata la volta un mattino presto, dopo un litigio iniziato chissà per cosa, sul divanetto della sala da tè.

E la volta, a tarda notte, quasi a sfregio, nel corridoio dei ritratti, sotto lo sguardo austero dei dipinti di famiglia.

"Non ci riesco, con i miei avi che mi fissano."
"E tu non guardarli, guarda me."

E ancora quella volta, nel giorno della cometa, nella torre dell'osservatorio, con Andrealphus che li cercava ovunque perché avrebbero dovuto fare un solenne discorso per l'evento e che alla fine - non avendoli trovati - aveva dovuto fare lui.

Oppure la volta nell'orangerie, completamente a caso, in pieno giorno.

"Ma, ci vedranno!"
"E allora? È l'unica cosa che vogliono da noi."

Poi, senza ragione apparente e forse troppo presto, era diventato un automatismo. Una risposta pavloviana alla presenza dell'altro. Un cercarsi nella notte, nella fase tra la veglia e il sonno, quando calavano le difese e le inibizioni. Bastavano due dita leggere che percorrevano la schiena, un bacio rubato nella penombra, o un casuale sfiorarsi delle mani ad innescare la scintilla.

Ma ormai non era più com'era stato quella volta sotto il cielo.

Lui ogni notte le si arrendeva più tardi, e a lei sembrava sempre più meccanico e forzato. Le sembrava di essere l'unica a fare tutto e l'unica ad averne bisogno. Lo sentiva altrove, con la testa e col cuore, come se rimuginasse costantemente su qualcosa, e come se non cambiasse nulla che lei fosse o meno lì.

Così dapprima era successo spesso, poi solo qualche volta, finché non era successo più.

Ed era diventato tutto un girarsi dall'altra parte al tocco di lei.

Uno "scusami, sono molto stanco."

O ancora un tentativo iniziato e fallito prima ancora di arrivare a stare insieme, con il silenzioso imbarazzo in cui lei si girava di fianco e lui restava sdraiato sulla schiena.

E ancora, nel buio, l'echeggiare di un mesto: "Stella non...non sto bene, stasera."

Fino al non provarci nemmeno più, per non subire l'umiliazione del rifiuto.

E così erano passati giorni. Settimane. Mesi.

***

Stolas sentì un bacio caldo alla base del collo. Le dita di lei ad accarezzargli la nuca. Il calore del suo corpo appoggiato alla sua schiena. "Stols..." un sussurro, un lamento.
Stolas chiuse gli occhi, provando a cedere alla sensazione, rievocò ogni piccola scintilla della notte dell'equinozio e ogni piccolo frammento di piacere delle volte passate ma, anche quella volta, non ci riuscì.

"Scusami. Devo... Devo studiare."

Le prese la mano con delicatezza e l'allontanò da lui, e poi si alzò lentamente, molto lentamente, dissimulando il più possibile il fatto che si trattasse di una fuga.

"Ci metterò tutta la notte. Non è necessario che mi aspetti sveglia."

Aveva detto morbido, con la voce di chi vuole fare una dolce concessione.

Si era allontanato, sempre a passi lenti e misurati, e aveva richiuso la porta della camera da letto dietro di sé. E solo allora aveva accelerato il passo ed era corso nel suo studio, colmo di imbarazzo e senso di inadeguatezza.

Non aveva acceso il grande lampadario di cristallo, la biblioteca era rimasta buia, illuminata solo dalla fioca luce delle candele. Il Principe stava alla scrivania, in pantaloni e maniche di camicia, chino su uno dei mille tomi che avrebbe dovuto conoscere a memoria. Doveva adempiere ai suoi compiti di Guardiano delle Stelle, presto avrebbe dovuto presiedere agli antichi riti e interpretare le profezie nascoste nel moto degli astri. Ma non riusciva a concentrarsi. Si raccontava che fosse solo lo stress, poche settimane lo separavano dall'ufficializzazione del suo ruolo. Per questo ogni notte si rifugiava tra i libri, per questo era stanchissimo e per questo si stava ammalando spesso, perché studiava giorno e notte per essere all'altezza di quello che lo aspettava.

Ma la verità, una verità che non riusciva a confessare nemmeno a sé stesso, è che si stava nascondendo da lei.

Sapeva che qualcosa sarebbe cambiato dall'equinozio, che non poteva fare finta di niente, solo che non aveva saputo gestirlo. Stella ora si arrabbiava meno, ma gli sembrava più triste. Cercava il contatto, lo toccava, lo stuzzicava, solo che lui... lui non era sicuro di volerlo ancora.
E non sapeva cosa fare, né come dirglielo.

E poi lei lo guardava come se cercasse dentro i suoi occhi delle risposte ad una domanda taciuta. Come se si aspettasse qualcosa da lui. Ma non parlava. Non urlava. Non domandava. Si limitava a fissarlo con due occhi grandi e interrogativi. E questo lo faceva sentire perduto, perché non c'è soluzione alle omissioni e ai non detti.

Sul comodino della loro camera Stella aveva spostato il profumo, il burro di cacao e una spazzola d'argento, e piccoli oggetti frivoli e inutili con cui si faceva bella. Ma non aveva portato nient'altro. E sembrava di nuovo che la sua presenza fosse solo appoggiata, solo che stava appoggiata in due ali del palazzo diverse, e adesso di lei c'erano due metà eternamente incomplete e i cui bordi non coincidevano del tutto, e lui non riusciva a ricomporla.

Ma d'altronde come poteva, se a stento riusciva a ricomporre sé stesso?

Di certo aveva qualcosa di rotto: lo aveva pensato spesso, ma adesso quel pensiero lo tormentava.
All'equinozio era stato perfetto, solo che non era più riuscito a replicarlo uguale e dopo un po', semplicemente, aveva rinunciato. Aveva bisogno di qualcosa di diverso, di qualcosa di più? E avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sapere perché il suo corpo si rifiutava di collaborare. Forse quella notte era stato il brivido della novità, lo champagne, il romanticismo del cielo stellato, e le volte dopo il sottile gusto del proibito, e poi il tutto, a un certo punto, gli era solo venuto a noia. Magari non era semplicemente fatto per quelle cose.

Ma gli sembrava più semplice non chiederselo e basta, evitare la situazione: passato il brivido iniziale lei si sarebbe stancata, come sembrava essersi stancato lui.

Che cosa c'è che non va in me?

E aveva stretto la testa tra le mani, abbandonando i gomiti sulla scrivania.

***

Stella stava sdraiata su un fianco, nel buio, guardava il lato del letto vuoto, con la sagoma della testa di Stolas ancora visibile nell'incavo del cuscino.

Si sentiva invasa da una sensazione di inadeguatezza opprimente.

Probabilmente ho sbagliato qualcosa.
Forse ho esagerato.
Forse non avrei dovuto dire quelle cose sul dolore.
Forse avrei dovuto essere più timida e remissiva.
O forse avrei dovuto essere ancora più sicura di me.
Forse non avrei dovuto prendere sempre io l'iniziativa.
Gli ho tolto il piacere della conquista.
Si è annoiato.
Si è stufato.
O forse...
...forse non sono abbastanza bella.

Si alzò dal letto con l'impulso di guardare il suo riflesso per studiarlo.

Che cosa c'è che non va in me?

Ma in quella stanza non c'era nessuno specchio.

Tanto Stolas non tornerà.

Si diresse nelle sue stanze, camminando nel buio, sfiorando la parete del corridoio con le dita come a farle da guida. Era un percorso che ormai conosceva fin troppo bene, che percorreva troppo spesso nella notte. Scoprì l'ampio specchio nel salottino da tè, accese la lampada e una flebile luce calda invase l'ambiente. Allora si sfilò la camicia da notte.

Studiò il proprio riflesso meticolosamente. Il suo viso era giovane e i suoi lineamenti morbidi ed eleganti, come si addiceva ad una principessa. Si passò una mano sulle guance e ne pizzicò una chiedendosi se un viso più affilato l'avrebbe fatta sembrare più affascinante.

La mia pelle è più luminosa del solito. Pensò compiaciuta.

Poi si guardò le spalle, erano dritte e proporzionate, le braccia tornite, le dita lunghe e sottili, era l'immagine perfetta della femminilità. Il suo seno era alto e sodo, lo avvolse con le mani a coppa come a misurarlo. Lo sentì sensibile al tocco e provò una punta di fastidio, così diede la colpa alla sottile frustrazione in cui viveva da settimane.

È più grande? Si accigliò. Sembra più grande.

Tornò a guardarsi nello specchio.

Fu infastidita e turbata dalla sensazione di vedere sé stessa uguale a sempre, ma diversa. Come in quei giochi in cui due immagini identiche si differenziano per piccoli dettagli.

Percorse i fianchi con lo sguardo e con le dita.

Sono ingrassata? Scosse il capo come a scacciare quel pensiero. 

Ma no. Era sempre uguale. Era solo una stupida impressione dettata dall’insicurezza.

Guardò ancora sua figura nello specchio.

La linea dei fianchi arcuati come un violino, le gambe tornite, le caviglie sottili.

Sono bella. Si disse. Non ho niente da rimproverarmi.

Si infilò nel suo letto, le lenzuola erano fredde, il materasso meno cedevole di quello dell'altra stanza, e non c'era nessun segno della presenza di un altro nel lato vuoto.

Sono bella. Desiderabile. Si disse ancora. Devo smetterla di tormentarmi. Non è colpa mia.

Ma non riusciva a togliersi dalla testa la sensazione che nell'immagine riflessa qualcosa non andasse, che quella nello specchio fosse una Stella diversa da quella che aveva sempre conosciuto.

Provò a prendere sonno senza riuscirci. Le tornavano in mente le immagini dell'equinozio e provava dolcezza, nostalgia, calore e poi rabbia. Perché aveva dovuto sperimentare una cosa così intensa e non riuscire a ripeterla più? Sarebbe stato meglio conservare il ricordo terribile della loro prima notte. Provare repulsione e fastidio per il contatto con l'uomo che ti dorme accanto. Sarebbe stato più semplice non conoscere mai il piacere del tocco dell'altro, la connessione, il sentirsi desiderati e il desiderare, perché non puoi rimpiangere una cosa che non hai conosciuto.

Sarebbe stato meglio. Perché se non poteva avere l'amore, avrebbe avuto tutto il resto. Le confidenze nella notte. Il poter raccontarsi. Un bacio leggero di affetto e poi...poi la passione bruciante a fare crollare i silenzi e le distanze. Ma "il resto" l'aveva solo illusa palesandosi una notte per non tornare mai più.

***

Stolas guardò il grande orologio. Erano le quattro del mattino. Doveva tornare. Non poteva ripresentarsi di nuovo all' alba. Ma non tornò. Si alzò per riporre il tomo da cui aveva tentato invano di ripassare le carte astrali e prese il Grimorio. Avrebbe letto un altro po'... Solo un altro po'... Ma gli occhi gli si stavano facendo pesanti, e l'inchiostro nero delle parole e dei simboli si confondeva sulla carta bianca.

Stella lo trovò prima dell'alba, riverso sulla scrivania della biblioteca, con la faccia schiacciata sulle pagine, addormentato ed evidentemente infreddolito.

Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto stracciare quel maledetto libro di incantesimi. Avrebbe voluto svegliarlo con uno scappellotto ben assestato e dirgli:

"È questo che fai, coccoli i libri invece di dormire con tua moglie?"

Ma invece recuperò la vestaglia di quello stupido imbranato e gliela mise sulle spalle.

Poi, in punta di piedi, andò a riporre il romanzo che aveva completato quella notte e ne cercò uno nuovo da cominciare. Qualcosa che potesse farle compagnia a lungo, vista la piega che avevano preso le loro notti.

Aveva apprezzato la letteratura della terra, così percorse con lo sguardo la sezione autori.
Notò un grosso libro che stava sotto la lettera "T". Era pesante e ben rilegato. Con una copertina scarlatta e il titolo impresso a caratteri d'oro.

Poteva andare bene, le avrebbe occupato le notti insonni e le albe solitarie.

E com'era entrata, era fuggita, in punta di piedi, senza svegliarlo. Mai si sarebbe fatta trovare da lui in biblioteca, mai si sarebbe fatta trovare con un libro, le sue letture non erano affari che lo riguardavano, c’erano già troppe poche cose che le appartenevano.

Poi si era seduta per terra nel suo salottino da tè, avvolta da una coperta, alla fioca luce violetta dell'alba infernale, e aveva iniziato a leggere:

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo»

Sussultò e sentì un nodo alla gola.
Gli sembrò una macabra profezia autoavverante.

Fu colta da un moto di rabbia incontrollabile, sentendosi presa in giro da quella tragica coincidenza. Rimproverando sé stessa per aver estratto proprio quel libro, e rimproverando quel libro per aver scelto lei.

Se anche sulla terra funzionava così, come poteva lei, all'inferno, sfuggire all' infelicità?

Scagliò il libro contro la parete.

"Stupido romanzo! Perché vuoi tormentarmi?" Gridò, coprendosi il volto con le mani.

E rimase così, rannicchiata nella coperta ai piedi del divano, finché il sonno la colse.

Ma il sole si era fatto alto nel cielo prima che potesse realmente riposare, e nel dormiveglia poteva sentire le cameriere, nella sala da pranzo, approntare il tutto per la colazione.
Presto sarebbero venuti a svegliarla ed era meglio non farsi trovare in quello stato.

Allora si alzò. Raccolse il bel tomo rilegato e lo pose a faccia in giù sul divanetto. Ma poi tornò indietro per appoggiarci sopra un cuscino. Adesso va bene.

Poi indossò la sua espressione più frivola e serena, la lunga vestaglia da camera coi fiori azzurri, le scarpine blu in tinta. Si guardò di nuovo allo specchio: Sono bella, si disse ancora, e poi lo coprì di nuovo, perché la sua vanità non era ancora più importante della sua libertà.

***

Non aspettò Stolas per colazione, e non mangiò niente, tutto le sembrava avere un odore nauseabondo.

Quando lui arrivò, trafelato, lei stava sorseggiando del tè.

"Buongiorno."

"Sì, sì" fece lei, sventolando la mano e indicandogli un piatto coperto, e tornando a bere il suo tè senza guardarlo.

Stolas si fermò a metà del tavolo, titubante. Poi si avvicinò impacciato e le diede un bacio formale sulla guancia.

"Come hai dormito?"

Calma. Devi stare calma.

"Di certo meglio di te, a giudicare dalla tua faccia orrenda."

Beh, imporsi di stare calmi non aveva funzionato. Stolas aveva sospirato. Non poteva biasimarla, era un codardo.

"Tuo fratello si unirà a noi per colazione?"

Una domanda di circostanza. Sapeva bene della loro colazione programmata di domenica.

"Perché?" Lo guardò tagliente "hai bisogno che qualcuno ti liberi dal peso di parlarmi?"

"Ehm, io..."

"Ti libero io, non ho voglia di parlarti. Ora mangia. È già freddo."

E gli lanciò un croissant.

"Ma che - , Stella!" sì schermò.

"Che vuoi?" fece lei innocente, bevendo un altro sorso di tè.

Stolas scosse la testa. Lei finì il tè e si alzò da tavola. Gli passò dietro per uscire dalla stanza, Stolas le afferrò la mano in un tentativo di intenerirla.

"Passa una buona giornata." disse e gliela strinse, rivolgendole un sorriso morbido. "Se hai bisogno di me..."

Lei si infiammò. Perché non poteva essere semplicemente crudele? Perché non continuare ad essere distante e scostante anche durante il giorno? Odiarlo così, nella sua impacciata gentilezza, la faceva sentire peggiore.

"Ci vediamo a pranzo. E non ti preoccupare, non ho bisogno di te."

Stolas rimase da solo, a capotavola, nell'ampia sala silenziosa. Diede un morso al croissant. Era proprio vero, la colazione era già fredda.

Chapter 13: Fiorire in terre inadatte

Summary:

Stella affronta le emozioni della scoperta della gravidanza. E deve dirlo a Stolas.

Chapter Text

Fiorire in terre inadatte

 

"Andiamo Stella! Sei di nuovo bulimica?"
Andrealphus stava fuori dalla porta del bagno, con la fronte appoggiata allo stipite, era la loro colazione della settimana e la sua stupida sorella la stava passando alla toilette.
"Vaffanculo Andre, non sono mai stata bulimica!'
"Certo, certo… dillo al tuo culo secco."
"Perché non vai a farti fottere?"
"Non sono io quello che sta passando la mattina a vomitare la colazione!"
La sentì tossire da dietro la porta.
"È colpa del nuovo schifoso pan di spagna. Dovrai licenziare il pasticcere."
"Smettila coi capricci. È sempre il solito pan di spagna."
"No!" Stella si lamentò "Questo puzza di uova marce."
"Ma non è vero che puzza di... Oh."

Andrealphus fu colto da una rivelazione improvvisa.

"Sorellina..." La sua voce si fece più morbida e viscosa come miele, bussò alla porta con un tocco lieve "Posso entrare?"

Lei gli aprì la porta, pallida in volto, rivolgendogli uno sguardo torvo.

"Dai vieni qui" La portò a sedere sulla cassapanca accanto alla vasca da bagno. Poi bagnò un asciugamano e le tamponò i polsi e la fronte.

"So che non sono affari miei..."
"Come se questo ti avesse mai fermato dall' impicciarti."

Andrealphus serrò la mascella. Lo faceva impazzire! Perché doveva fare così? Ma la guardò mantenendo una impassibile faccia di bronzo.

"Tu e Stolas avete... risolto dall'ultima volta che ne abbiamo parlato?"
"Non che ti debba fregare qualcosa, ma comunque non mi tocca più." fece lei, imbronciata e infastidita. Bene, iniziava la mattina con un’informazione superflua che non voleva sapere e che lo riempì di imbarazzo. Inspirò. Espirò.
"Intendo. Non ti tocca dalla prima volta o… è successo ancora?
"Qualche volta." Si fece rossa in viso e le sue guance si gonfiarono di imbarazzo "Perché questa curiosità morbosa? Sei forse geloso?" insinuò poi, rivolgendogli un sorrisino malizioso, e percorrendo con un dito la linea della coscia. Adorava metterlo a disagio.

Lui provò una leggera sensazione di disgusto per l'implicazione. Raccolse ogni fibra di autocontrollo per mascherare la smorfia che minacciava di comparirgli sul volto. Non era davvero il momento di scherzare.

Lei ebbe un altro conato che finì dritto nella vasca. "Stupido pan di spagna!" Si lamentò. "E tu” fece poi rivolta a suo fratello “Che cazzo ci fai ancora qui a vedermi in questo stato pietoso?"

Lui le passò il suo fazzoletto e le accarezzò la testa: "Credo che non sia la colazione, tesoro." 

Poi cercò delle parole che fossero semplici e non inutili perifrasi, che risultassero delicate e non suonassero ridicole, ma non le trovò. E allora, siccome era un uomo di scienza, lo chiese nell’unico modo che gli sembrava appropriato:

"Da quanto tempo non hai le mestruazioni?"
"Ma stamattina mi chiedi proprio cose schif - " il resto della frase le morì in gola.

Spalancò gli occhi. E poi si alzò in piedi, tremando leggermente, in totale silenzio.
Camminò nervosamente avanti e indietro nel piccolo spazio tra i lavandini la parete. Sentiva solo i battiti del proprio cuore rimbombarle sotto lo sterno. La testa come in una bolla ovattata. Come aveva fatto a non rendersene conto? Erano passati quanto? Due, addirittura tre mesi? Che stupida. Tutta presa dal sentirmi rifiutata. E nemmeno prestavo attenzione a me stessa.

Si fermò in piedi al centro della stanza, a guardare un punto fisso nel vuoto.

Andrealphus allungò il braccio per farle una carezza sulla schiena.

"Stella..."

Lei si passava una mano sul ventre come a cercare una risposta in una sfera di cristallo.

"Forse dovresti fare uno di questi" Andrealphus le passò una scatolina allungata.
"Che cazzo Andre!?" lei lo guardò stizzita "Perché diavolo tieni un test di gravidanza nel tuo bagno?"
"Hai idea di cosa mi hai fatto passare?" rispose lui in un rantolo agonizzante, passandosi una mano sugli occhi "Ne ho altri duecento sparsi per il palazzo!"
Stella scoppiò a ridere fragorosamente. Poi lo spinse via.
"Esci. Maniaco del controllo."
 
Fu di nuovo sola, con Andrealphus di fuori dal bagno con la fronte appoggiata allo stipite.

"Non capisco perché in un mondo dove c'è la magia io debba fare pipì su un bastoncino!" la sentì lamentarsi.

Poi ci fu silenzio per interminabili minuti. Stella riaprì la porta, e fece cenno di "sì" a suo fratello senza parlare, guardandolo con due occhi pieni di confusione. Il cuore ora le batteva all’impazzata e sembrava prendersi tutto lo spazio che aveva nel petto.

Non sapeva come sentirsi. Perché in verità aveva smesso di pensarci. Aveva ignorato quel pensiero, lo aveva rinchiuso a doppia mandata nell'angolo più lontano della sua mente e aveva gettato via la chiave. E adesso tornava così, potente e inaspettato, sfondando la porta blindata in cui ammucchiava tutto quello di cui non aveva la forza di occuparsi. Aveva sempre creduto che quando fosse successo si sarebbe sentita, semplicemente, sollevata. Ma invece ora tremava, e la assaliva una smisurata paura. Sentiva le mani gelate, e le guance e il petto in fiamme, al contempo rabbrividiva di freddo e soffocava per il caldo. Si sentiva sopraffatta, si sentiva perduta. Con un nodo alla gola inestricabile e con le lacrime che le riempivano gli occhi.

Ci era riuscita. Era stata brava. Aveva fatto quello che ci si aspettava da lei. E adesso? Sarebbe stata libera? O aggiungeva solo un altro lucchetto alla sua gabbia dorata? Avrebbe migliorato le cose, o le avrebbe definitivamente mandate in cenere? Era pronta? Sarebbe mai stata pronta? Sarebbe mai stata in grado? Ma poi in grado di fare cosa, se non sapeva nemmeno da dove avrebbe dovuto iniziare.

Era stata bambina per così tanto che quasi pensava lo sarebbe rimasta per sempre, e aveva imparato come essere donna da così poco che non era sicura di voler mutare ancora; di essere capace di compiere un'ulteriore metamorfosi, perché l’ultima le era costata fatica e dolore, ed era stanca. E poi… lei non sapeva niente dell'essere madre. E questo la riempiva di terrore.

Andrealphus, invece, si sentiva davvero sollevato. Solo che - e non per i motivi a cui aveva alluso poco prima Stella - si sentiva anche, inspiegabilmente, geloso. Ma non poteva permettersi che un'emozione infantile del genere rovinasse quella preziosa scoperta. Era fatta! Bastava solo andare da Paimon a dirglielo: un erede, vostra maestà, mia sorella porta in grembo l'erede Goetia. E i suoi tormenti sarebbero finiti. Perché come sempre, il merito poteva essere di Stella, ma gli onori per la riuscita dell'impresa, quelli erano suoi.

"Se lo dici a qualcuno prima che io possa parlare con Stolas ti strappo la lingua." disse Stella rompendo il silenzio.
"Ma io non..."
"Ma tu sì! Sì che ci stavi pensando."

Era davvero diventato così trasparente?

Seguì sua sorella con lo sguardo, mentre si sciacquava la bocca e il viso. Si sentiva... nervoso. E lei ora appariva ai suoi occhi piena di una grazia nuova, così fiera e risoluta.

"Vado da lui."
"E la colazione?"
"Fai sul serio, Andrealphus?"

E se ne era andata. Non sapendo dove andare, non sapendo dove lo avrebbe trovato. Ma con la sensazione, per la prima volta dopo mesi, di non essere poi così tanto arrabbiata con lui.

Aveva pensato di chiedere dove fosse alla servitù, ma non voleva correre il minimo rischio di causare curiosità. Era una cosa loro.

Sapeva che non aveva passato la notte con lei, di nuovo, e a quel pensiero l’aveva attraversata una punta di irritazione; ma l’aveva scacciata subito, persino lei sapeva quando non era il momento.
Non aveva passato la notte con lei e quindi, dato che era ormai giorno, poteva essere solo in due posti: la biblioteca o la serra.

La biblioteca aveva la porta accostata, e c'era un gran trambusto, segno che la stavano riordinando e che stavano spolverando i libri, e lui non sopportava lavorare nel disordine, e non riusciva a studiare se aveva qualcuno intorno, così non restava che la serra.

Stolas era lì, piegato su un cespuglio, con i pantaloni di cotone pesante, la camicia di lino sgualcita, il grembiule sporco di terra e i guanti da lavoro, come il più umile degli uomini. Con un sorriso di stupore e soddisfazione mentre spargeva attentamente il concime tra i gambi.

Lo guardò per un po', ferma sull'uscio, in silenzio. Lui sì che sarebbe stato bravo. Guarda come si coccola le foglie, guarda come non si cura delle spine. Guarda come è tutto assorto e immerso nei rovi, quando io riuscirei solo a pensare a come potrebbero ferirmi la pelle.

Si fece forza ed entrò.

"Stols..."

Lui si stupì di vederla. A quell'ora della mattina. In quel posto che di solito evitava. E si stupì del nomignolo affettuoso. Ma fu felice, perché poteva condividere con lei un piccolo miracolo.

"Sono fiorite le rose!" le disse entusiasta, rivolgendole uno sguardo gioioso "Pensavo non sarebbe successo. Questa pianta non è fatta per l'inferno. E invece guarda! È bastato solo un po' di amore!"

Le mostrò orgoglioso il cespuglio pieno di boccioli e lei sentì di nuovo le lacrime salire agli occhi. Lui sì che era fatto per quelle cose. Lui sì che sarebbe stato in grado.

"Sei... sei stato bravo." rispose, senza più controllo sulle lacrime che ora le rigavano le guance.

Stolas la guardò confuso, si tolse i guanti e il grembiule e le andò incontro.

"Stella, che c'è?" le prese le mani "È successo qualcosa? Ho fatto qualcosa di male?" la guardava con occhi grandi colmi di preoccupazione, ripassando mentalmente che cosa potesse averla turbata così tanto.

Lei scosse la testa "No" tirò su col naso "Hai fatto qualcosa... qualcosa di bene, credo."

Gli sorrise.

“Sei davvero un insicuro se la prima cosa che pensi quando mi vedi è che io possa avercela con te.” aggiunse.

“Di solito non mi dai modo di pensare diversamente.” le rispose, ma il tono non era di accusa. Le asciugò le lacrime passandole il lato del pollice sotto gli occhi. Vederla così fragile lo agitava.

“Dimmi che succede. Mi stai facendo paura.”

“Oh, e aspetta di sapere che cosa devo dirti, non so se ti passerà la paura.” poi rise e riprese a piangere, con lui che le teneva il palmo sulla guancia in una carezza di conforto, e la guardava con due occhi pieni di domande, con lo stomaco che gli si attorcigliava. E con il sospetto di iniziare a intuire quale fosse la cosa che dovesse dirgli.

Ora che Stella ce lo aveva davanti la invadeva una sensazione ambivalente e misteriosa, come di gioia incontenibile che sconfinava in un sordo dolore. Non trovava le parole, anche se erano semplici. Fece un ampio respiro. Raccolse tutto il coraggio che le restava in corpo. Strinse forte le mani di lui, come per aggrapparsi, come se lasciandole avrebbe potuto precipitare.

"Sono incinta." gli disse "Avremo un figlio."

E si stupì di quella scelta di parole, perché lo aveva sempre pensato come un erede Goetia, come fosse una cosa da generare e spostare dalla culla al trono. Ma prima di essere quello, realizzò, sarebbe stato il loro bambino. Qualcosa di loro. Per davvero.

Stolas barcollò. E si sentì invaso da un sentimento smisurato e incontenibile.
Non aveva fatto altro che pensarci, e ogni volta che ci pensava sentiva che non lo voleva. Che un uomo debole e spaventato come lui non sarebbe stato la persona adatta. Aveva sempre pensato che nello scoprirsi padre avrebbe dato di matto. Aveva sempre pensato che avrebbe avuto paura, che non si sarebbe sentito mai pronto, che sarebbe stato l'inizio di ogni preoccupazione e ogni turbamento. Che non si sarebbe più potuto dedicare come si deve ai suoi studi, alle sue piante, alle sue letture, al moto delle stelle. Che avrebbe dovuto rinunciare a tutto quello che lo rendeva sé stesso. E per questo, ogni volta che ci aveva pensato, aveva sperato che succedesse il più tardi possibile.
Ma invece, ora che stava succedendo, ora che Stella glielo aveva detto, ogni preoccupazione era svanita. Non aveva provato nessuna delle emozioni negative e terribili che aveva immaginato, si era sentito solo genuinamente e immensamente felice.

"Sarò... Sarò papà?" domandò, saltellando sul posto tenendole le mani, in un modo infantile che fece sorridere Stella.

Poi le lasciò le mani per percorrerle la linea dei fianchi.

"Saremo genitori?"

Gli occhi gli brillavano di una scintilla nuova e sicura, più luminosa di qualsiasi luce avesse mai avuto negli occhi. Un'espressione meno complessa e turbinosa di quella che brillava negli occhi di lei. Un'espressione semplice e vera. E Stella se ne accorse.

"Sarai un bravo padre." disse lei, e lo pensava davvero. Ma non poteva fare a meno di chiedersi:

Ed io,io sarò una buona madre?

Stolas la attirò a sé e la abbracciò. "Anche tu lo sarai." le sussurrò, come a indovinare il suo pensiero. La avvolse completamente, nella sua tipica stretta gentile.

“Ho paura, Stols.” confessò a mezza voce, e se ne vergognò.

“Vorrà dire che, per una volta, dovrò essere io quello coraggioso.” le rispose, con il mento appoggiato alla sua testa, mentre la teneva stretta. E sperò in cuor suo di poter tenere fede a quelle parole.

“Siamo due ragazzini. Non dovremmo essere coraggiosi, dovremmo essere spensierati.” sussurrò lei.

“Cresceremo.” La rassicurò lui “Il coraggio si impara, come tutto.”

Lei annuì. Dopo mesi di distanze, dopo mesi dalla notte dell’equinozio, a pochi giorni dal loro anniversario di matrimonio, Stella sentì che Stolas la abbracciava come se volesse davvero avere qualcosa a che fare con lei. Come se gli importasse che lei fosse lì. In un modo diverso da quello che aveva desiderato nelle notti passate nel letto vuoto; ma in un modo così morbido e dolce da farle desiderare, per un momento, che le stupide fiabe da cui lui era ossessionato potessero essere vere. E, nella piena consapevolezza che non lo sarebbero mai state, ricambiò l'abbraccio, cercando di trovare nutrimento in quel frammento di felicità. Affondò la faccia nel petto di lui, ne sentì i battiti del cuore, senti un bacio piccolo e lieve posarsi alla sommità della sua testa. "Oh, Stella, sono così felice!"
Sentì la paura, e sentì la gioia. Sentì le lacrime bagnargli la camicia.

Sentì il suo abbraccio farsi più stretto. E vi si abbandonò ancora. Tenerezza? Senza ulteriori implicazioni. Gratitudine? Stolas la stringeva e le posava carezze sul capo e piccoli baci sulle palpebre chiuse. Gentilezza? CuraProtezione? Prolungò l'abbraccio, ne prese il più possibile; perché non sapeva se, o quando, sarebbe tornato un momento così.

Come le rose all'inferno, anche lei aveva radici in terre inadatte, e di qualcosa doveva pur nutrirsi per fiorire.

 

°°°°°°°°°°°°°°

Beh, lo avete capito. Non ci saranno uova qui. Solo il buon vecchio pancione con parto annesso.

Piena di una grazia nuova. Leggasi: Piena di Grazia. Un uccellino me lo ha sussurrato all’orecchio e purtroppo non ho resistito.

Stessa cosa vale per le emozioni ambivalenti di Stella, che ride e piange, si sente triste e felice. Situazione che ho spudoratamente fregata all’Ave Maria della “Buona Novella” di De Andrè. “Sai che fra un'ora forse piangerai /poi la tua mano nasconderà un sorriso/ gioia e dolore hanno il confine incerto[…]”.  Siccome il paradiso sono certa di essermelo giocato in qualche altro momento della mia vita, almeno mi diverto un po'. Nel contesto lo trovo esilarante. E sono certa che in Grande Capo ha senso dell’umorismo, e apprezzerà.

E poi c’è del magico e del sacro nel generare la vita, nemmeno il setting infernale può sopire questi aspetti. Poveri ragazzi. E pensare che fino ad adesso è stata la parte facile. Buona fortuna giovani sposi (e futuri genitori!) sappiamo che vi servirà.

Alla prossima, cari lettori!

  • Armilla Lunastorta

 

 

 

Chapter 14: Di amore, di potere, di libertà.

Summary:

Stella e Stolas danno l'annuncio della gravidanza a Paimon. Andrealphus taglia fuori il Marchese dalla notizia. Stella vede in sogno che l'erede sarà una femmina. Bisognerà proteggerla dalle ingiustizie del mondo di corte.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Di amore, di potere, di libertà.

 

Lei avrebbe voluto ritardare l'annuncio il più possibile, consapevole del fatto che quella cosa solo loro, preziosa e fragile, sarebbe diventata, letteralmente un affare di stato.

E avrebbero dovuto rendere conto di tutto. E il suo corpo non sarebbe stato più suo, per l'ennesima volta. Dopo che le avevano scelto gli abiti fino al matrimonio, e ora, anche se non glieli sceglievano più, riusciva a vedersi pienamente sé stessa con addosso solo i maledetti colori pastello. Dopo che la sua prima mestruazione era stata motivo di giubilo e lei non aveva capito perché tanto scalpore per una cosa che le sembrava solo scomoda e sporca, e di cui non sapeva niente. Dopo che l'avevano promessa a dodici anni al ragazzino per il quale l'avevano educata da quando ne aveva tre. Dopo che l'avevano scambiata per qualche titolo, per un accordo di potere, per un’alleanza militare, e per l'erede, s'intende. Dopo che avevano dovuto – avevano voluto? – controllare che fosse vergine davvero, e dopo che avevano dovuto assicurarsi che non lo fosse più. Un'altra volta sarebbe stata messa sotto i riflettori, con tutti gli occhi addosso, con il peso soffocante delle aspettative, studiata come uno dei topolini bianchi che stavano nelle teche dell'aula di scienze del collegio.

Ma sapeva anche che non era una cosa che poteva nascondere a lungo, il suo corpo avrebbe rivelato il segreto molto presto. Sempre che Andrealphus non avesse già spifferato tutto.

Così avevano chiesto udienza a Paimon: sarebbe avvenuto quel sabato, al mattino, prima di pranzo.
Il Marchese non c’era, suo fratello aveva detto loro che il motivo della sua assenza era la malattia, che lo fiaccava e gli impediva gli spostamenti, ma in verità il Marchese stava addirittura meglio del solito. Ma Andrealphus l'aveva convinto che, di qualsiasi cosa si trattasse, se ne sarebbe occupato da solo, che non c'era bisogno di scomodarsi: qualsiasi novità, gliela avrebbe comunicata per lettera. Sapeva bene che a una donna in stato interessante come Stella doveva essere evitata qualsiasi preoccupazione. E loro padre era in grado di muoverle dentro mille sentimenti terribili solo con la sua semplice presenza. Non era un rischio che era disposto a correre.

Il sabato arrivò, e per tutta la mattina lei non era riuscita a guardare Stolas negli occhi. E quello era stato un errore, perché se lo avesse guardato, avrebbe visto che anche lui aveva lo sguardo velato di preoccupazione. Così avevano camminato, uno di fianco sull'altra, con Andrealphus che stava dietro di lei, distante di due passi, come in una processione, verso la sala del trono.

E là stava il Re, seduto sul trono rialzato, e loro si erano dovuti inchinare. E Stella lo aveva odiato, perché era a lei che sarebbero dovuti toccare tutti i fottuti onori.

"Vostra Maestà..." cominciò Andrealphus "Vostro figlio, il principe Stolas, Guardiano delle Stelle…" tentò di mascherare una punta di fastidio mentre pronunciava quella sfilza di titoli altisonanti nell'indicare il cognato "…e la principessa Stella, la mia cara e preziosa sorella, sono qui per dare un lieto annuncio che -"

"Basta con tutti questi giri di parole Andrealphus, è troppo anche per me." lo interruppe Paimon. "Lo so già."

"Lo...lo sapete?" domandò Andrealphus sgomento.

"Come?" fecero Stella e Stolas all'unisono, spalancando gli occhi.

"Per fortuna, in questo palazzo, c'è ancora qualcuno che si degna di tenere gli specchi scoperti e intatti" disse guardando verso il demone di ghiaccio "Non è vero, Andrealphus?"

"Mi ha guardata vomitare e fare pipì su un bastoncino?" fece Stella rivolta a Stolas, con le guance rosse e piena di rabbia. "Ma che cazzo di famiglia siete?"

"Stella!" la riprese Andrealphus. Per fortuna papà non è qui. Pensò, e sperò che Paimon non glielo dicesse mai.

"Stella!" fece eco Stolas, più preoccupato per le ripercussioni per sé stesso che nei confronti di lei. D'altronde lei era incinta. Portava in grembo sangue reale. Sarebbe stata intoccabile fino al parto.

Paimon fece una smorfia indecifrabile, ma rimase calmo e composto. "Mi scuso, principessa, non volevo invadere il vostro spazio personale. Vi assicuro che non ho visto nulla di scandaloso e che il vostro onore è salvo. " poi guardò Stolas e gli rivolse un sorriso beffardo, che portava con sé una punta di soddisfazione. "Beh, figlio mio, a quanto pare sei davvero un uomo."

E il principe non capì se interpretarlo come un complimento o come un insulto. Stella teneva gli occhi bassi. Si mordeva la lingua. Avevano portato a compimento l'unica cosa che gli avevano richiesto con tanta insistenza e quella era la risposta? Nemmeno delle congratulazioni? Nemmeno un maledettissimo "grazie"? Nemmeno la dignità di poterlo comunicare lei stessa?

Andrealphus le teneva una mano sulla spalla, era come se quel gesto fosse ipnotico per lei, era un modo per tenerla buona. Forse era solo un riflesso condizionato dell'infanzia. Lei lo sapeva che era così, ma non riusciva a reagire. Se lui le posava la mano sulla spalla o sulla nuca ed esercitava una pressione leggera, lei era sua, avrebbe potuto chiederle qualsiasi cosa, un leggero timore le invadeva le membra e le spegneva la fiamma della ribellione. Poi suo fratello l'aveva guardata, e il suo sguardo poteva voler dire una sola cosa. E così lei lo aveva fatto.

"Chiedo perdono Vostra Maestà." aveva detto mesta, senza guardare Paimon negli occhi "Mi scuso per il mio comportamento. Gli ormoni mi fanno straparlare."

Stolas stava in silenzio. Il cuore gli batteva all'impazzata. Ancora nessuno aveva detto la parola che tutti si aspettavano di sentire. Ma poi Paimon lo fece.

"La principessa darà alla luce l'erede che tanto abbiamo attesoCi auguriamo sia un maschio, naturalmente, e se lo sarà, lo educheremo alle arti magiche fin da bambino. Sarà tua responsabilità, figlio mio, renderlo pronto a prendere il tuo posto. A dodici anni lo inizierai al Grimorio, così che impari a conoscere le stelle e l'arte della divinazione."

Ci fu un attimo di silenzio. Interrotto da un flebile "Sì, padre."

Stella aveva nel cuore una domanda che le premeva e non aveva il coraggio di fare. Andrealphus aveva ancora la sua mano sulla spalla di lei, come una briglia, a trattenerla.

"Se sarà una femmina..." continuò Paimon "...dovremo trovarle qualcuno di degno. Di sangue reale, in grado di gestire il grande potere che deriva dalla nostra famiglia, che impari a usare il Grimorio e lei ne sarà custode, e ci darà un erede degno a sua volta, e il nostro sangue sarà preservato. Certo sarebbe meglio fosse del nostro stesso rango. Potremmo trarne accordi politici vantaggiosi. Qualcuno dei sovrani nostri alleati ha figli di pochi anni. Ne valuteremo l'attitudine e a tempo debito se ne parlerà…”

Stella era livida. Si mordeva la lingua quasi a farla sanguinare. Teneva le mani strette in un pugno e sentiva le unghie conficcarsi nei palmi. Fa' che sia un maschio. Pensava.  Ti prego. Fa' che sia un maschio.

D’improvviso Paimon sembrò abbandonare la sua severità, si alzò in piedi e disse "Ma ora basta formalità! Congratulazioni figlio mio, vieni, fatti abbracciare!"

Stolas percorse titubante e impacciato i tre gradini che lo separavano da Paimon e ricevette il primo abbraccio che suo padre gli avesse mai dato in tutta la vita. Solo che non sentì nulla: era una formalità, un rito, qualcosa che andava fatto, come tutti gli altri gesti che Paimon aveva compiuto nei suoi confronti. Poi fu il turno di Stella, e la stretta del re la fece rabbrividire, perché non stava abbracciando lei, era come se stringesse un oggetto che contiene una cosa preziosa, un forziere di cui non possiedi la chiave e che ti coccoli nell’attesa che i cardini cedano.  Così, nel gelo e nel disagio di quell’abbraccio, era riuscita a ferirsi con i denti l'interno delle guance e ora sentiva nella bocca solo il sapore ferroso del sangue.

Infine, furono congedati. Tutti. Tranne Andrealphus. Che rimase con Paimon nella sala del trono.

"Vedete di aggiustare quel disastro di vostra sorella." gli disse il Re in tono severo "Non possiamo davvero permetterci che quello che è successo oggi succeda davanti a tutti."

Per Andrealphus fu come uno schiaffo in pieno viso.

"Sì, Vostra Maestà." disse. "Stella non creerà problemi in pubblico. Avete la mia parola."

"Bene. La vostra parola ha valore per me."

Andrealphus annuì e fece per congedarsi quando Paimon lo chiamò.

"Siete stato bravo, finora, Marchese." gli disse.

"Quello è... è mio padre." lo corresse lui.

"Io qui non vedo vostro padre, vedo voi."

"Sì, Maestà, ma non oserei..."

"Prendetevi gli onori, Marchese Andrealphus, non sono così morbido con chiunque."

Andrealphus si inchinò "Grazie Maestà."

Ma sapeva che quello che era appena successo era solo il preludio di un altro, gigantesco, problema.

 

***

Quello che era seguito all'annuncio era stato un periodo sereno. Lui non le sfuggiva più di notte e le dormiva accanto. Forse perché sapeva che non aveva più obblighi fisici nei suoi confronti, e questo lo faceva rilassare, o forse perché, più che per lei, lo faceva per la creatura che portava in grembo. Si infilava nel letto e le si avvicinava, la avvolgeva in un abbraccio protettivo e le posava una mano sul ventre, e la testa nell'incavo della spalla, o a volte le sfiorava la fronte con un bacio gentile.

"Sarà bello." le diceva "Spero che abbia la tua determinazione, e il tuo coraggio."
E lei pensava in cuor suo: io spero che abbia la tua gentilezza, e la tua innocenza.

Una notte Stella fece un sogno. Era sulla collina dell'equinozio ed era giorno, di colpo faceva buio. Alzava gli occhi e vedeva il disco del sole coperto dalla faccia della luna. Un'eclissi. Prima era donna e d'improvviso era bambina, e sua madre le toccava la spalla e le diceva: "è davvero così forte il sole, o è più forte la luna, se può prendergli la luce?". E poi quella figura di donna si allontanava nel buio, e lei la rincorreva gridando: "Mamma! Mamma!". Continuava a inseguirla, e da giorno si era fatta notte, una notte chiarissima, illuminata dalla luce argentea della luna. Ed era donna di nuovo. Ma continuava chiamare "Mamma!" inseguendo quel fantasma. E la sagoma, ormai lontana, rispondeva: "Tu chiami te stessa."

Stolas si era svegliato, la sentiva agitarsi nel sonno, e mormorare qualcosa:
-ole; -na; -amma -mma; calde lacrime le bagnavano le guance. Sembrava combattere con sé stessa nel tentativo di svegliarsi.

Stolas le aveva fatto una carezza "Stella" aveva sussurrato "Stella... svegliati...stai sognando."

Ma lei non si svegliava, vedeva la luna stagliarsi nel cielo notturno, il fantasma sfuggirle, l'eco della propria voce di bambina perduta. "-amma; -ami; -ssa" mormorava ancora.

"Stella!" la scosse piano. Ma lei era ancora lì. Intrappolata nell'abisso del sogno. Ad annegare nella luce argentea, inseguendo l'ombra di sé stessa. Cazzo, come si sveglia una principessa? Si era chiesto Stolas, così, preso dal panico, aveva fatto l'unica cosa che gli avevano insegnato le fiabe: le aveva dato un bacio sulle labbra. Perché continui a mandarle messaggi confusi? Si era rimproverato poi, dandosi una pacca sulla fronte. Chiaro che poi se la prende con te. Ma poi lei aveva aperto gli occhi. Oh. Funziona. Aveva pensato, colto da una scintilla di orgoglio infantile. E Stella era riemersa dal sogno e dal sonno. Le guance umide. Il respiro affannato. Lo vide su di lei a pochi centimetri dal suo viso, che la guardava con due occhi colmi di preoccupazione.

"E quello che cavolo era?" fece Stella.

Stolas era arrossito, e aveva iniziato a sputare fuori un fiume di parole: "Oh,io...Non ti svegliavi... Io... è stupido...nelle fiabe di solito... Oh mi prenderai per il culo fino alla mia morte… Io, non lo so, volevo solo che ti svegliassi. Sembravi turbata, piangevi, ti agitavi...io...non-"

Lei gli prese il viso tra le mani, ancora mezza addormentata, con l'eco del sogno che sembrava comparirle dietro gli occhi.

"Stols, basta. Respira." sussurrò. “Solo… non farlo più, se non lo vuoi.”

Stolas si era sentito invadere da un senso di colpa lancinante.

"Ho fatto un sogno." Continuò lei, rivolgendogli un sorriso dolceamaro "È una femmina."

Poi si era spinta su con i palmi sul materasso fino a sedere sul letto, aveva afferrato Stolas per le spalle e gli aveva rivolto parole colme di apprensione.

"Devi farmi un giuramento." aveva sussurrato, col timore che qualcuno fosse in ascolto "Se ho ragione, se è una femmina, dovrai insegnarle la magia."

Stolas l'aveva guardata sgomento, come se avesse pronunciato parole indicibili, si era svincolato dalla presa.

"Lo sai che non posso giurartelo." la voce era poco più di un bisbiglio.

"No, Stols, tu devi giurarmelo. Non come le stronzate che ci siamo giurati al matrimonio. Questa è una cosa seria. È importante. Più importante dell'amore a cui tanto tieni. Ti sto parlando di potere, ti sto parlando di libertà."

Stolas si vedeva già redarguito da Paimon, ammonito, minacciato, tormentato. Vedeva già il volto di suo padre in ogni piccola superficie riflettente. Si vedeva già a dover dare mille spiegazioni, in ogni istante, si vedeva a dover lottare, ogni giorno, e sapeva che sarebbe stato logorante. O peggio, si vedeva già a doversi nascondere, giorno dopo giorno, per anni, a dover insegnare alla sua bambina a mentire, continuamente. A sperare che l’innocenza dell’infanzia non la tradisse mai.

"Non guardarmi così Stols. Mi fai innervosire!” disse lei, era il lamento di un animale ferito e infuriato.

“Non c’è da arrabbiarsi. Lo sai come funziona. Ci hai vissuto dentro anche tu!” le disse, agitato, facendole cenno di abbassare la voce.

Lei sospirò. Provò a tornare in sé.

“Lo so che pensi che si siano cose inevitabili. Ma io voglio che impari la magia. E poi… non voglio che le si scelga l’educazione, non voglio che vada in collegio, non voglio che le si scelga un marito, non voglio nemmeno che le si insegni il galateo, né che la si riempia di aspettative di corte. Istruita sì, non indottrinata.”

Sentirla parlare così lo confondeva. Più provava a inserirla in uno schema più lei gli sfuggiva dai bordi. Dov’era la ragazzina capricciosa e frivola che gli avevano dato in moglie? Chi era quella sconosciuta che gli sedeva davanti nel letto?

“Voglio che decida che farne, della sua vita, voglio che abbia quello che noi non abbiamo potuto avere. Tu sei… potente Stols. Io non ho nessun potere, io non posso decidere niente, ma tu… ti prego non lasciare che la tua gentilezza limiti il potere che possiedi."

Stolas sentiva un peso opprimente nel petto. Si era appena svegliata, come faceva a parlare così? Perché lui si sentiva ancora stordito? Era il sonno o erano le sue parole? Rabbrividì. Se Paimon l'avesse sentita. Oh, se Paimon avesse solo avuto il leggero sospetto che stava pensando quelle cose.

"Straparli Stella. Stai dicendo cose che non dovresti nemmeno pensare." sussurrò preso dal panico.

“Mi avevi detto che saresti stato coraggioso…” disse lei, con una punta di disperazione nella voce “Io non posso sopportare l’idea che – ” stava per urlare, lo vedeva nel mondo in cui le sue guance si facevano rosse.

Stolas le mise una mano sulla bocca, come a farla tacere. La guardò con occhi colmi di paura e confusione.

“Magari sarà maschio. Magari non ci sarà bisogno di fare niente.”

Poi si fermò a guardarla. Il cuore in gola. Gli occhi di lei fiammeggiavano nella penombra. Era seria. Era una cosa importantissima per lei. Glielo leggeva dentro. E allora decise.

“Una richiesta, Stella. Una. Non sono abbastanza forte da gestire tutto insieme Mi conosci. Lo sai.” E le liberò la bocca.

“La magia.” disse lei, senza nessuna esitazione. “La magia, fin da piccola.” Al problema matrimonio ci avrebbe pensato quando si sarebbe posto. Sarebbero passati anni, non se ne sarebbe parlato prima dello sviluppo. Anche per la scuola, per l’educazione. C’era tempo. Una richiesta alla volta. Poteva funzionare. Poteva avere senso. La magia era la priorità. A tutto il resto ci avrebbe pensato poi.

Stolas rimase in silenzio per un tempo che a Stella parve interminabile. Sembrava ripercorrere con la mente i passaggi di un’operazione matematica, o i versi in metrica di una poesia. Come se nella sua testa si stesse formando un pensiero complesso e ordinato. Poi, finalmente, aveva annuito: “Va bene. La magia.”

Lei fece un ampio sospiro di sollievo. Non si era resa conto di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo. Accennò un sorriso e disse in un sussurro: “Grazie.”

Allora lui le fece una carezza: “Ora andiamo a dormire. Non devi stancarti.”

Stella si sdraiò di nuovo. Chiuse gli occhi. Vide ancora l’eclissi. Una bambina raccoglieva fiori sulla collina: aveva la timida grazia di lui, e gli occhi vivaci di lei. Poi il miraggio svanì. Una profezia. Una magia naturale. Perché ce l’aveva nel sangue, anche se non gliela avevano insegnata.

 “È davvero una femmina Stols.” un mormorio confuso nel buio.

“Lo so, ti credo. Ma ora devi riposare.” le sistemò il cuscino e la coperta e le si sdraiò accanto.

“Puoi… vuoi…” lei si sentì improvvisamente fragile come vetro “…stringermi?”

Notes:

Paimon nonno dell’anno. Prima il dovere poi… niente, altro dovere, no? Che bella la ragion di stato! E poi, Andrealphus, caro mio, che mi combini? Tagli fuori tuo padre così? Sei sicuro di saperlo gestire? E Stella, che sogni la verità come una maga antica. E Stolas che, in fondo, lo sei davvero coraggioso.
Questa bambina ancora non è nemmeno nata, e già siamo alle contrattazioni sull’educazione. Ma in fondo non possiamo biasimare questi due giovani e disfunzionali genitori: alle cose importanti come l’amore, il potere, la libertà, bisogna pensarci il prima possibile. Non puoi mai sapere, infatti, quando sarà troppo tardi per rivendicarle.
Chissà come continuerà, forse lo vedrò anch’io in un sogno.
Vi aspetto nel prossimo capitolo.
- Armilla Lunastorta

Chapter 15: Moglie o spina dorsale?

Summary:

Stolas diventa Guardiano delle Stelle

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Moglie o spina dorsale?

 

Le piaceva uscire da palazzo. Le pareti erano opprimenti e tutto insopportabilmente noioso e scandito. E poi, durante il giorno, si sentiva sempre gli occhi puntati addosso, come se tutti fossero pronti a cogliere qualche sua mancanza. Una ciocca fuori posto. Una veste sgualcita. Un dolcetto di troppo.

E la notte, ne era certa, qualcuno doveva aver notato che non avevano dormito insieme per mesi. La servitù lo sapeva che Stolas la rifiutava, l'avevano vista girare sola di notte, e di certo ne avevano riso. Aveva sentito i bisbigli nell'ombra. Sapeva delle insinuazioni che si sussurravano nelle cucine e nelle stanze dei domestici adesso che la sua gravidanza iniziava a vedersi.

Quindi le piaceva uscire da palazzo, le spazzava via la polvere che le si era accumulata sul cuore, e la sua anima poteva respirare un po' nella luce rossastra del giorno.

Le piaceva vedere posti nuovi. E quello era anche un posto che di norma le sarebbe stato interdetto. Non l'avevano lasciata entrare nemmeno quando suo fratello aveva preso l’altisonante titolo di "Maestro di primo livello di Magia Elementale." E ora Stolas avrebbe assunto il suo ruolo di Guardiano delle Stelle. E si sa, per la moglie di un principe e di un futuro guardiano, per giunta in dolce attesa, si fanno molti più strappi alla regola che per la sorellina irascibile di un marchese.

E poi Stolas in quelle occasioni non l'avrebbe messa in imbarazzo con il suo fare timido e impacciato che poco si adattava ad un principe. Quando era tra gli eruditi era solito indossare la maschera del demone e del mago, e fiammeggiava di un'aura di potere che la faceva sentire orgogliosa e non le faceva rimpiangere quel matrimonio maledetto. Chi l'avesse vista così, con quell'uomo accanto, non avrebbe potuto che rispettarla e temerla.

E così, quella mattina, si era messa addosso l'abito più formale e castigato che avesse, perché non voleva generare chiacchiere né attirare l'attenzione, perché non sopportava di sentire i sussurri e le maldicenze. Era di un azzurro pallido e le dava l'aspetto di una strana monaca. Poi era corsa da Stolas con una punta di entusiasmo in corpo.

"Stols oggi finalmente prendi il potere che -" aveva detto spalancando la porta della biblioteca, aspettando di trovarsi davanti il demone e il mago. Ma davanti si era trovata il ragazzino quattordicenne che spingeva per terra nella fanciullezza.

Stolas era seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata alla scrivania. La testa tra le ginocchia, le mani sulla testa. Raggomitolato in sé stesso e colmo di sconforto. Un odore pungente di anice invadeva l'aria.

Stella era rimasta immobile sulla soglia. Si era guardata intorno. Un bicchiere sulla scrivania. Libri sparsi sul pavimento. L'ultima carta astrale stropicciata e abbandonata sul tavolo basso al centro della camera.

"Non puoi farmi questo..." aveva detto avvicinandosi a lui "Non puoi farci questo."

Il principe aveva alzato la testa rivolgendole uno sguardo stordito. La delusione superava di gran lunga qualsiasi fiamma d'ira che potesse avere in corpo.

"Fai sul serio Stolas? Non sei mai uscito fuori dal binario e adesso sei sbronzo a tre ore dall'esame che ci deciderà la vita?"

Lui era tornato a tenere la testa tra le ginocchia, dicendo qualcosa di incomprensibile in un lamento.

"È questo che mi si prospetta? Una vita a rimediare ai tuoi casini?"

Lo aveva afferrato per il colletto e lo aveva tirato in piedi e sistemato sulla poltrona della scrivania.

"Sono tua moglie o la tua maledetta spina dorsale?"

Lui stava zitto, gonfio di imbarazzo.

"Cazzo, dimmi almeno perché!"

Lui mormorò ancora qualcosa di incomprensibile.

"Parlami razza di stupido!"

"Non sono pronto." disse Stolas infine "Non posso farcela."

Lei sentì che un occhio le tremava, come se stesse per esploderle una tempia.

"Non ti consolerò, non ti giustificherò. Tu non mi hai lasciato passare tutte le fottute notti da sola, per mesi, per mollare così adesso."

Lui si accasciò sulla scrivania. "È solo...troppo."

"Come faccio? Come faccio?" stava dicendo lei camminando avanti e indietro e trattenendosi dal distruggere la biblioteca per l'agitazione "Dobbiamo rimandare, qualche ora, solo qualche ora...dovrò chiamare mio fratello e dirgli che -"

"No!" il principe sembrò riprendere una scintilla di vitalità, poi ridacchiò.

"Che diavolo hai da ridere?"

"Non dirlo a tuo fratello... io ho pfff -" esplose in una risatina isterica "- ho rubato il suo assenzio." 

Deve essere un maledettissimo scherzo. Pensò lei. Ma rispose nell'unico modo che pensava potesse convincerlo: "A maggior ragione, quello stronzo saprà come fartela passare." 

Stolas tornò serissimo, la guardò dalle palpebre gonfie e le disse "No. Non deve saperlo nessuno."

"Tanto se ne accorgeranno comunque stupido idiota, quando ti vedranno sbiascicare stronzate senza senso."

Stolas ora aveva i gomiti sulla scrivania e la testa tra le mani.

"Aiutami..." aveva detto infine. "Ma...solo tu."

Va bene. Poteva farcela. E Stolas doveva diventare Guardiano. E doveva succedere quel giorno. Perché rimandare voleva dire che il loro bambino sarebbe nato prima che ufficializzassero il suo ruolo. E lui non avrebbe avuto potere, non abbastanza.

Di sbronze ed esami ne sapeva qualcosa. Il collegio non era più così controllato come pensavano tutti, e lontano dagli occhi di suo padre si era presa le sue meritate libertà. Poteva assolutamente farcela.

"Intanto alzati. E cammina."

"Non riesco."

"Ti assicuro che ci riesci. Vieni." E se lo mise sottobraccio.  "Ti prenderei a schiaffi." aggiunse.

E lo fece camminare per un po', finché non vide tornare un colorito omogeneo al suo incarnato e non lo vide più stabile.

"Ti senti male? Devi vomitare?"

"No."

"Visto? Ora bevi. Piccoli sorsi. E respira."

E aveva lasciato che sorseggiasse dell'acqua, finché le labbra di lui non avevano assunto di nuovo un aspetto soffice e le occhiaie si erano fatte più lievi.

"Merda Stols, ma che cazzo ti è preso."

Non lo sapeva nemmeno lui, si era solo fatto prendere dal panico. E glielo disse, perché tanto aveva già visto il peggio, e comunque non lo avrebbe raccontato a nessuno, se non per lui, di certo per non perdere la faccia.

"Panico, ansia da prestazione, non lo so."

"Perché non rompi le cose invece di rompere te stesso." aveva detto lei, come se fosse il consiglio più normale del mondo "Io lo faccio continuamente." E le era sembrato che a lui fosse scappata un'altra risata.

"Che c'è da ridere ora?" si era accigliata.
"Niente è che hai..."
"..."
"Hai ragione."
"Bah! Della ragione non me ne faccio niente. Andiamo a farti un bagno, puzzi. Di biblioteca e disperazione."

Aveva riempito la vasca e lo aveva spogliato: indumento dopo indumento il corpo di lui sembrava farsi più snello. E alla fine quando lo aveva visto nudo, fuori dal letto, fuori dalle ombre della notte e dai fumi del desiderio, il suo corpo le era sembrato insopportabilmente magro e goffo. Il corpo di uno che aveva passato la vita sui libri o raccogliere fiori in una serra e non aveva mai corso in un prato o giocato ad arrampicarsi.

L'acqua sembrò rigenerarlo. E lei gli massaggiava la testa con i polpastrelli. Nervosa. Arrabbiata. Delusa. Ma con un tocco gentile, perché non poteva strapazzarlo ulteriormente. Oh, quanto gli avrebbe volentieri tirato i capelli sulla nuca.

"Sei ancora lì, idiota?" disse e si passò lo sfizio di tirarglieli davvero. 

"Ahia! Stella!" si lamentò lui. “Perché?”

"Così ti svegli. Inizia a ripetere tutto quello che sai e che ricordi."

"Non mi ricordo niente io..."

"Merda, ne parli anche a colazione, anche a letto, anche mentre dormi ti sento blaterare, ti ricordi tutto."

"Ma alcune cose non dovrei dirle a chi non -."

"Tanto non ci capirò comunque niente. Ma almeno acquisti un po' di dannata sicurezza."

"Ma io..."

"Se non parli ti affogo." E lo aveva spinto nell'acqua. 

"Va bene! Va bene!" urlò Stolas, dimenandosi e schizzando acqua ovunque.

E allora le parlò delle costellazioni. Dei segni dello zodiaco. Degli allineamenti dei pianeti. Delle eclissi. Della luna nuova e della luna piena. Delle piogge di comete. Delle lune di Giove. Delle sette galassie antiche, dei gate dimensionali e di come si invocano. Dei sigilli dei demoni. Di come si trascrive una profezia. Delle foglie della Sibilla, delle farneticazioni di Cassandra. Del vero e del falso, della luce e delle tenebre. Delle porte dei mondi e di come attraversarle. Le parlò di tutto e scoprì che sapeva ogni cosa. Solo che non sapeva di conoscerla.

"Asciugati. E vestiti. Secchione." disse lei infine. Poi si accorse che il suo abito si era bagnato. "Ovviamente sono un disastro, dovrò cambiarmi anch'io." Si lamentò, e andrò a mettersi addosso un abito semplice e lieve, color lampone, che le abbracciava le curve e la faceva sembrare giovane e vitale, che non le nascondeva il ventre cadendole a campana, ma piuttosto lo incorniciava rivendicandone orgogliosamente l'importanza, e il colore le illuminava le guance rosate. Che fosse adatto all'occasione o meno, in fondo, non importava poi molto.

Lui si stava abbottonando la camicia quando posò il suo sguardo su di lei. 

"A dire il vero è una fortuna che abbia combinato questo guaio..." le disse, nel tentativo di sdrammatizzare, e di farle un goffo complimento "Questo vestito ti dà luce. Sei molto bella." e le sorrise di gratitudine. Lei era arrossita, e per un momento si era sentita davvero bellissima e luminosa, ma ciò non toglieva il fatto che fosse ancora, irrimediabilmente, arrabbiata.

***

L'Accademia aveva l'aspetto polveroso e austero dei vecchi musei, le ampie scalinate con le ringhiere di mogano, i lunghi corridoi silenziosi su cui si affacciavano porte chiuse con nomi altisonanti scritti sopra. Era un luogo di un tempo altro, dai colori sbiaditi e monocromatici, e lei si sentiva sgargiante e fuori posto nel suo abitino lampone.

Stava seduta su una panca di legno nel corridoio, Stolas l'aveva lasciata da sola, doveva ricontrollare i dettagli della dimostrazione che avrebbe presentato, e Andrealphus era andato con lui, per assicurarsi che non mandasse tutto all'aria; non che Stella gli avesse detto nulla, ma aveva imparato presto a riconoscere le crisi del cognato, perché - in fondo - non erano così diversi. 

"Marchesina? Sei tu?" fece una voce nota, che veniva dai tempi del collegio. Lei trasalì a quel titolo che non più le apparteneva. Alzò gli occhi e si trovò di fronte una ragazza dagli occhi verdi e dall'aria stralunata.
"Oh... Ehm... Sì" rispose.
"Che sorpresa! Non ti vedo da..."
"Da metà dell'ultimo anno." la anticipò Stella "Ho dovuto... io ho... ho finito a casa." E mi sono sposata. Aggiunse mentalmente.
"Oh Satana sei sempre bellissima. Come ti ammiravo, passavo delle ore davanti allo specchio per imparare a truccarmi come te!"
Stella era arrossita. Che sciocchezza. Che sciocca ragazza. Aveva pensato. Ma si era sentita lusingata.
"Che ci fai qui?"
"Stolas...ehm, cioè, mio marito, oggi diventa Guardiano."
"Tuo marito?"
Ci fu un momento di silenzio. La ragazza spalancò gli occhi di sorpresa ed entusiasmo.
"Il principe Stolas è tuo marito?"
"Già..."
"Sei...oh Satana mi scuso, siete una...una Principessa?"
"Sì."
"Per tutte le mosche di Belzebù!" poi si portò le mani alla bocca come a zittirsi. "Oh, mi scuso mia Signora, Vostra Altezza, io... Non sapevo che mi sarei dovuta rivolgere a voi con queste formule io...non mi sono molto interessata degli eventi mondani, sapete... io..."

Quell'improvvisa cerimoniosità fece irritare Stella. Dannazione, si erano ubriacate insieme. Avevano tirato palline di carta dagli involucri svuotati delle penne. Tormentato i ragazzini. E ora improvvisamente era tutto un voi-mi scuso-mia Signora-Vostra Altezza?  A quanto pare era davvero una sciocca.

"E tu?" domandò Stella pur di farla tacere. "Che ci fai qui?"
"Oh io? Sono un’erborista."
"Oh." sussurrò lei abbassando gli occhi.
Ma quella ragazza aveva già notato ciò che Stella sperava davvero che potesse ignorare.
"Ma voi aspettate un bambino! Che bello! Un uomo così affascinante e potente. Un bambino. Chissà che palazzo... Lo sapevo che sareste stata la più fortunata tra noi."

Quelle frasi accesero in Stella una fiamma d'ira. Perché quella sciocca sciocca ragazza lo pensava per davvero, che fosse la più fortunata tra tutte. E sulla carta lo era. Era giovane, bella, moglie di un principe e madre dell'erede Goetia. Una vita da passare comoda a palazzo senza muovere un dito. Messa lì a farsi ammirare. E a consumarsi nella noia. Sono un maledetto soprammobile. E Stolas nemmeno si degna, ogni tanto, di spolverarmi. Pensò. Dunque, non solo quella ragazza era una sciocca, ma una sciocca cieca alle sue fortune. Allora si vestì del suo sorriso migliore e le disse "È vero, sono stata fortunata. Ora scusami ma è il turno di Stolas." E raggiunse il suo sposo, mettendoselo sottobraccio, sfoggiandolo come un gioiello, a quell'ostentazione di felicità matrimoniale, dopotutto, bisognava che partecipassero in due. 

***

L'esposizione di Stolas fu impeccabile. E lei non avrebbe scommesso diversamente. Era uno stupido insicuro, ma era davvero l'uomo più colto che avesse conosciuto. Per quanto ne sapeva aveva passato l'infanzia da solo, con i libri come unica compagnia, senza nessuno con cui condividerli. Doveva essere stato devastante, quasi quanto era stato devastante per lei non avere mai un momento per pensare a sé stessa, per imparare a conoscere la solitudine e capire cosa le sarebbe piaciuto diventare. Mentre guardava Stolas invocare un portale dimensionale di fronte a quella commissione di vecchi rattrappiti ripensava alla sera dell'equinozio, e ai desideri piccoli e semplici, e si chiedeva se avrebbe mai potuto esprimerne altri e vederli realizzati. Mentre ascoltava Stolas parlare del firmamento con voce tonante e impostata, mentre lo guardava fiammeggiare di passione, si chiedeva come fosse possibile che fosse toccato a lei, poco prima, doverlo raccattare dal pavimento per rimetterlo in sesto; se ora lui le appariva con tanta naturalezza come una delle creature più potenti e sicure dell'inferno. Mentre vedeva Stolas stringere le mani degli eruditi togati che gli stavano di fronte, pensava che forse avrebbe dovuto imparare a vedere la sua vita come la vedeva quella ragazza incontrata là nel corridoio, in fondo cosa poteva chiedere di più se non un marito colto, potente e gentile? Un marito che ti voglia, per esempio. Le sussurrò una voce cattiva dal fondo della sua testa. O anche nessun marito. I matrimoni sono una lenta agonia. Lo sai che quell'uomo gentile è la tua gabbia. Lo sai che sotto il suo dolce viso, che ti bacia la fronte ogni notte, c'è il volto del tuo carceriere. Lei si sentì soffocare, e zittì quella voce stringendo le palpebre e scuotendo la testa. "Maledizione. Taci." sussurrò "Non qui. Non oggi." 

Si sentiva ancora arrabbiata con lui, ma era anche sollevata che ce l'avesse fatta, e orgogliosa. Era stato bravo, sapeva veramente tutto quel dannato secchione. E ora lei era la moglie di un Guardiano delle Stelle.  Un altro gradino nell'ascesa sociale. E non aveva dovuto muovere un dito. Avrebbe potuto continuare a sfoggiarlo come un gioiello, a vantarsene ai banchetti, a sorridere, e a non desiderare niente, perché cosa può desiderare qualcuno che ha già tutto? Non sarebbe stato così male rimanere sempre la figlia del marchese, la sorella del demone di ghiaccio, la moglie di Stolas, la madre dell'erede. Quando inizieranno a dimenticarsi il tuo nome? La voce cattiva riemerse, più forte.  E tu? Quando inizierai a dimenticarti di te stessa?

Stolas era tornato da lei, a interrompere il flusso dei suoi pensieri "Sei stato bravo." gli aveva detto lei. "Mi hai fatta arrabbiare moltissimo. Ma sei stato bravo." 
E lui se l’era messa sottobraccio e le aveva detto a mezza voce: "Grazie. Per tutto." 

"Oh, Principe Stolas, Guardiano delle Stelle, chi è questa bellissima donna a cui porgete il braccio?" fece uno dei vecchi togati alla fine della cerimonia.

Almeno tu Stols, non smettere di chiamarmi per nome. Pensò lei. Poi lo guardò.

"Oh è... è mia moglie." disse Stolas arrossendo.
"Stella." precisò lei.

"A casa, lo giuro su Satana, ti prendo a schiaffi." gli sussurrò all'orecchio.
"Che cosa ho fatto adesso?" domandò lui. E diede la colpa agli ormoni della gravidanza.

Notes:

Lo so, lo so, la trama qui non procede granché. Ma avevo in mente questa cosina da un po’, e ad un qualche punto dovevano pur arrivare tutte quelle notti insonni che Stolas aveva passato sui libri! E poi conosciamo un po' di più Stella e i pensieri che la tormentano.
E quindi Stolas si è preso il diploma, la laurea, o qualsiasi cosa sia questo titolo ottenuto con la discussione di fronte ad una commissione di vecchi eruditi rugosi. Congratulazioni Stols! Preferisci il tocco la corona d’alloro? Tanto Stella, qualsiasi cosa ti metteranno in testa, te la farà volare con uno scappellotto!
Sempre grata a voi che mi leggete!
Ci vediamo la prossima settimana!
Armilla Lunastorta

Chapter 16: Piccoli momenti di quiete apparente  

Summary:

Questo capitolo voleva essere un po' un esperimento narrativo, volevo che potessimo vedere i momenti semplici: una finestra su dialoghi, pensieri, cose dette e cose non dette. Tutti quei momenti di quiete apparente di cui ci si dimentica, perché si tende a ricordare i momenti forti, d’impatto, e la semplicità dei giorni uguali ci sfugge dalla memoria. A volte farebbe bene ricordare un pomeriggio condiviso davanti ad una tazza di tè; o un bicchiere bevuto con chi credevi di disprezzare, per accorgerti di poterlo, se non apprezzare, almeno rispettare. O una tutina con le stelle, comprata in un impeto d’amore, che può unire più di tante parole vuote.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Piccoli momenti di quiete apparente

 

"Questa. Non è. Gianduia." aveva detto Stella prima di scaraventare il bignè che le avevano servito contro la porticina della veranda chiusa. "Maledizione, non sapete distinguere tra il cioccolato e la gianduia?"
La cameriera si era defilata senza rispondere, per non rischiare di essere colpita da un secondo pasticcino che stava già volando verso la porta.
Stolas si era infilato nello spiraglio lasciato aperto dalla domestica, ed era stato preso in pieno sulla camicia bianca.
"Stella!" le aveva detto sussultando "Devi smetterla di lanciare le cose, sul serio." e poi aveva dato un morso al bignè, tanto la camicia era pulita.
"Lo volevo io!" sbuffò lei.
"Ma... me lo hai letteralmente tirato contro!"
"Beh? Ho cambiato idea." e si imbronciò.

Stolas scosse la testa e rise, teneva con la sinistra una scatolina rinchiusa con un nastro rosa.

"Ti ho preso questi. Spero sia abbastanza per farmi perdonare." le disse, appoggiando la scatola sul tavolo. "Non sapevo cosa volessi. Ma è tutto al gianduia, lo prometto."
Dentro c'erano due bignè, due cannoncini, due éclair e due biscottini ripieni. Stella aveva provato un profondo imbarazzo per quella coccola.
"È schifosamente sdolcinato." aveva detto, non sapendo cos'altro dire, e le era venuto da piangere.
"Smettila di fare la difficile e goditeli. La bimba ne ha voglia." Stolas le aveva fatto una carezza sul ventre e poi si era allontanato per tornare ai suoi doveri.

"Aspetta ..." la voce di lei era un mormorio più docile "...ne vuoi...ne vuoi uno?" Non voglio passare tutto il giorno da sola. Aveva pensato, senza osare confessarglielo.

E Stolas le si era seduto accanto, con la camicia macchiata di crema al gianduia. Poi aveva notato la teiera con la singola tazza da tè di fronte a Stella.
"Vado a chiedere di portare un'altra tazza." aveva detto, facendo cenno di rialzarsi. Ma lei si era sentita stringere il cuore, non voleva davvero più stare sola, nemmeno un secondo.
"Lascia stare. Abbiamo condiviso ben altro, no?" e gli aveva porto la sua.

Così era passato il pomeriggio. Senza eclatanti momenti di disperazione, senza eclatanti momenti di gioia. Una serenità semplice. L'alternarsi dei loro sorsi su quell'unica tazza da tè. Un lieve sfiorarsi delle dita al centro del tavolino. Timidezza per quell'intimità che non aveva a che fare col sesso, con il matrimonio, con il dovere. Nessun timore, perché non era il momento né il tempo. Poche parole, perché parlarsi, quasi sempre, era scontrarsi. Molte speranze per quella bimba non ancora nata.

"Chissà se mi somiglierà."
"Con la fortuna che ho, Stols, sarà tutta uguale a te."

***

Si svegliava spesso di notte. Cominciava a soffrire della pressione della bimba sulla vescica. Dalla notizia della gravidanza avevano sempre dormito insieme, e lei trovava rassicurante che ci fosse qualcuno accanto a lei nel letto. Anche se non si toccavano, sentiva il calore del suo corpo irradiarsi, il suo peso inclinare leggermente il materasso, e aveva la sensazione che la sua semplice presenza tamponasse la solitudine che le gravava nel petto. Una notte, svegliatasi per aver sentito muoversi la bimba, e per la necessità di dover usare il bagno, non lo aveva trovato nel letto. Stolas si era alzato e se ne stava al balcone a fissare il cielo notturno, meditabondo, col Grimorio stretto così forte tra le mani che le sue nocche erano bianche.

"Non riesci a dormire?"
"Come le insegneremo tutto, senza che lui lo sappia?"
Stella aveva sentito un leggero calore irradiarsi nel petto. Allora ci pensava. L'aveva ascoltata davvero.
"C'è ancora tempo Stols."
"Lo so."
"Dai, torna a letto. Non mi piace dormire da sola."
"Dammi solo qualche altro momento."

***

"Andre?"
"Mh?"
"Pensavo..."
"Tu pensi, Stellina?"
"Cazzo, sei un emerito stronzo."
"Quanti complimenti, sei di buon umore?"
"Oh, va’ a farti fottere!" e aveva fatto per andarsene, battendo i piedi.
"Eddai! Sorellina! Scusami! Torna indietro e dimmi che cosa c'è!" l'aveva chiamata lui, facendo una vocina di supplica.
"È solo..." lei si era fermata e teneva gli occhi bassi "... è solo strano che nostro padre non si sia ancora fatto vedere."
Il cuore di Andrealphus aveva saltato un battito, e il respiro gli si era bloccato in gola. Ma aveva mantenuto il volto più affabile possibile.
"Sta' tranquilla, evidentemente ritiene che basti la mia presenza. Gli ho scritto diverse lettere." Lettere che non gli ho mai spedito.
"Non ti credo. Lo dici solo per non farmi preoccupare."
"Stella. Ti prego. Ci sto pensando io."
"Se ci fosse qualcosa che non va, me lo diresti?"
"Certo, tesoro." le aveva scompigliato i capelli sulla sommità della testa, in un gesto di simulata tranquillità "Ora torna da quell'allampanato di tuo marito, penso che ti stia cercando."

***

Le tutine da bebè erano ordinatamente sistemate sul letto. Stella le guardava accigliata, con una strana sensazione alla bocca dello stomaco.  Era stata così felice, poco prima, quando le aveva scelte, perché ora le veniva da piangere? Quei vestiti così piccoli le facevano sembrare tutto più reale. Più del sentire la bimba muoversi dentro di sé. Più del pancino che pian piano si faceva un pancione. I vestiti sul letto davano alla situazione concretezza, forse perché li vedeva fuori da sé, già dentro il mondo che avrebbe abitato suo figlia. Avrebbe voluto poterne parlare con qualcuno, con sua madre magari, ma lei non c'era più, da tanto tempo. Eppure, solo ora che da bambina si era fatta donna, realizzava che nessuno mai avrebbe potuto più capirla o consigliarla nel modo in cui sentiva disperatamente il bisogno. Neppure Andrealphus, che pure così tanto teneva a lei.

Un pensiero le attraversò la mente, e si sentì sciocca. Ma lo fece comunque perché, anche se sentiva di essere sola, ormai non lo era mai davvero: "Ehi, piccola..." sussurrò parlando al pancione avvolgendolo con le mani, come in un abbraccio "La mamma dovrà imparare insieme a te come si fa. Mi aiuterai?" la sentì muoversi. "Oh, scalci? Lo prendo come un sì allora" continuò. "Sai... io ho davvero paura di fare un disastro. Tu eri il mio unico compito, ma pensavo che sarebbe stato facile. Che non mi sarebbe importato, che nemmeno me ne sarei accorta. Invece io ti sento crescere nel mio ventre, sento che ti muovi, so che ora ho due cuori dentro di me, è così strano. Premi sulla mia vescica e non mi fai dormire, eppure non mi rattrista che tu mi tolga il sonno. E non so mai se le fragole o i dolcetti di cui ho tanta voglia siano un capriccio mio, o un tuo desiderio. È come se fossi una parte di me, come se fossi la parte buona, e ho paura che quando lascerai il mio corpo io non sarò più così tanto buona...  Cazzo, non dovrei dirti queste cose. Ora che ci penso, non dovrei dire nemmeno le parolacce, pare che tu mi senta, da là dentro." le lacrime le salirono agli occhi, e sentì un nodo formarsi al centro della gola "Io ho paura di questo calore che sento nel petto quando penso a te, quando mi immagino che tu sia qui, piccola e fragile, in questa tutina rosa con le stelle. Io...credo che sia… Oh. È una cosa nuova per me…io ti amo già piccola mia." era arrossita a quella confessione, anche se nessuno, tranne lei poteva sentirla "E questo mi fa sentire debole. Maledizione...” Un piccolo singhiozzo aveva rotto i sussurri “… è così bello e così spaventoso. Forse, se ho così paura, è perché non sono fatta per amare." sentiva gli occhi pizzicare, e la voce le tremava. "Io non so davvero da dove iniziare. Tuo padre... lui… sembra sapere già tutto. Lui è migliore di me. Sopperirà alle mie mancanze. Ma io posso provarci, ci proverò, lo prometto." ora stringeva tra le mani la tutina con le stelle "Sto imparando tanto, da lui, ma tu non dirglielo...non so il perché, ma me ne vergogno. Sarà un segreto madre figlia."

Stolas era sulla porta, in silenzio, l'ascoltava.  Lei non si era accorta di lui, gli dava le spalle ed era tutta assorta nelle sue confessioni. Lui sentiva il cuore scoppiargli nel petto, ed era invaso da un senso di dolce malinconia. Avrebbe voluto che condividesse con lui tutte quelle cose che la spaventavano, ma sapeva che non lo avrebbe mai fatto e che, se avesse scoperto che aveva sentito delle sue paure, i muri tra di loro si sarebbero fatti insormontabili. Si accontentò di conoscerle, così da poterle allontanare da lei, senza svelarsi mai. Bussò due volte sullo stipite, fingendo di essere appena arrivato. 

"Andate bene, le compere?" domandò, sorridendo.
"Stolas!" lei era arrossita violentemente "Da quanto tempo sei lì?"
"Da adesso." disse lui, nella maniera più convincente possibile.

Lei si era rilassata. Aveva ancora le guance rosse e gli occhi lucidi. Lui si era avvicinato e aveva percorso con lo sguardo il set di tutine sul letto, e quella che Stella si coccolava tra le dita.

"Mi piace questa con le stelle." le aveva detto.
A lei era scappato un sorriso “Ovviamente” aveva risposto.
“Perché l’hai scelta?” una cosa a cui Stella non aveva pensato, ma di cui conosceva la risposta.
"Sai…qualcosa di me, qualcosa di te." aveva detto, con una punta di imbarazzo.
"Credo sia la mia preferita."
Lei aveva sorriso ancora, i suoi occhi si erano fatti vivaci.
"Anche la mia, Stols."

 

***


Andrealphus gli aveva porto un bicchiere con due dita di un liquido ambrato, whiskey, probabilmente.
"Bevi con me?"
Stolas aveva alzato un sopracciglio.
"Chi sei tu, e dov'è mio cognato?" Aveva detto ironico, afferrando il bicchiere.
"Non mi piaci, Stolas, ma se in uomo decente.”
“Immagino sia la cosa più vicina a un complimento che riceverò mai da te.” aveva alzato il bicchiere come a voler brindare “Quindi grazie.”
“Dovrai trattarla bene. E tenerla al sicuro."
“È la madre di mia figlia. Sarò sempre gentile con lei."
Andrealphus aveva bevuto un sorso e gli aveva lanciato uno sguardo obliquo.
"Potrebbe non bastarle."
Stolas aveva sospirato, aveva fatto ondeggiare il liquido ambrato nel bicchiere e aveva bevuto anche lui.
"È tutto ciò che posso darle, Andrealphus, tu cosa le hai dato?"
"A mio modo, amore."
"È tua sorella, è naturale."
"È tua moglie."
"Una moglie non si sceglie."
"Nemmeno una sorella."

***
Stella era tutta assorta a distribuire l'ombretto rosato sulla palpebra semichiusa, canticchiava a fior di labbra un motivetto. Sembrava di buon umore. Al centro dello specchio, col rossetto, aveva scritto qualcosa. Stolas la fissava da un po', perplesso.
"Che cosa sarebbe "itittof"? si era deciso a domandare.
"È "fottiti" al contrario." aveva risposto lei, come fosse la cosa più naturale del mondo.
"E perché hai scritto "fottiti" al contrario sullo specchio della tua toletta?"
"Oh, andiamo Stols... lo sai il perché.”

***

Una sera si erano ritrovati tutti nell' androne, Stella stava iniziando a lamentarsi di qualcosa che aveva a che fare con il fatto di "essere ingrassata" mentre si trascinava Stolas per mano alla ricerca di chissà cosa, continuando a parlargli di quanto volesse fargliela pagare per averla messa incinta e fatta diventare una mongolfiera. Andrealphus era sceso a recuperare delle lettere che – dal momento che non gradiva visite nelle sue stanze - i domestici avevano lasciato sul tavolino tondo dell'ingresso.
E allora si era creato un trambusto generale.
“Andre, guarda cosa mi ha fatto questo stupido, sono un pallone!”
“Non è vero, sei perfetta e hai un pancino invidiabile.” Aveva risposto Andrealphus afferrandole le guance “Ora smetti di fare il broncio e sorridimi.”
“Di questo passo non passerò più dalle porte!” aveva bofonchiato lei.
“Oh Satana, Stolas, dì a tua moglie che si sbaglia.”
“Tuo fratello ha ragione, sei bella, e non sei ingrassata, è solo un normale pancione.”
“È solo colpa tua.” si lamentò ancora lei.
“Se ti sei divertita nei tentativi, non lamentarti dei risultati.” fece Stolas, che si sentiva particolarmente spiritoso.
“Oh cielo! Che schifo.” gemette Andrealphus portandosi una mano agli occhi.

In fondo c’era un’aria serena. Stella sembrava più arrabbiata per abitudine che per davvero, Andrealphus non era infastidito da lei e non sentiva di disprezzare Stolas più di quanto non disprezzasse qualsiasi altra creatura dell’inferno. E Stolas, che era già di buon umore, aveva goduto nel mettere a disagio suo cognato con quella battutaccia.

“Dove sono tutti i domestici?” domandò Stella d’un tratto, notando che l’androne era vuoto e silenzioso e non c’era neppure il portiere.

Poi si sentì battere tre volte alla porta. Era una situazione inusuale. Nessuno bussava, c’era il campanello. E poi l’assenza della servitù iniziava ad apparire come un’inquietante anomalia. I tre si guardarono confusi, percorsi da una leggera agitazione.

"Beh, immagino che se qualcuno è qui per sterminare la famiglia reale…” fece Andrealphus in tono sprezzante e divertito “…io sia il più sacrificabile". E andò ad aprire il portone d’ingresso.

Notes:

Forse è ingiusto che io mi arroghi il diritto di sbirciare nelle loro vite, come tanto vorrebbe fare Paimon, ma il narratore onnisciente non ha un po' lo stesso potere? È ovunque, vede e sa tutto, persino i pensieri. È un fardello che deve portare insieme ai suoi personaggi. Qualcuno potrebbe pensare che sia il dio del mondo fantastico di cui racconta, ma è solo uno scriba, è sempre la storia che sceglie la direzione che vuole intraprendere. I personaggi, già da tempo, non mi obbediscono più. Ma, come con i figli, bisogna lasciare che prendano la loro strada.
PS: Scusate per il cliffhanger a fine capitolo, ma si sa, l’attesa aumenta il piacere!
Cosa aspetta il povero Andre dall’altra parte dell’ingresso?
Ci vediamo, oltre la porta, nel prossimo capitolo!
- Armilla Lunastorta.

Chapter 17: Faccende di sangue

Summary:

Scopriamo chi aspetta Andrealphus dall'altra parte della porta.

ATTENZIONE: QUESTO CAPITOLO CONTIENE
- Violenza
- Riferimento a punizioni corporali

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Faccende di sangue

 

"P-padre?" balbettò Andrealphus colmo di sgomento e preoccupazione. "Che –"

Il Marchese lo schiaffeggiò col dorso della mano anellata, così forte da farlo cadere per terra.

"Andre!" gridò Stella, un grido acuto, spaventato. Ed ebbe l'impulso di lanciarsi verso di lui, ma Stolas la trattenne avvolgendola con le braccia e assumendo parzialmente la sua forma demoniaca, e ora le faceva scudo con un fumo nero e rossastro.

Il Marchese teneva alta la mano destra, su cui portava l'anello col sigillo. E arrancava tenendosi in piedi su un bastone levigato e lucido, che aveva per pomello una testa d'uccello dal lungo becco appuntito. Andrealphus vedeva solo bianco, era cieco, e non sentiva nulla, se non un forte fischio alle orecchie che gli attraversava il cranio da parte a parte. [1]
Si teneva la testa urlando: "Basta! Quel maledetto anello del cazzo!"; e ancora "Stolas, portala via!" Ma non riusciva a sentire nemmeno il suono della propria voce.

"Quanto sei melodrammatico figlio mio." - disse il Marchese roco, restituendogli l'uso dei sensi -"Non ho intenzione di fare del male alla mia adorata figlia, né a mio nipote."

Andrealphus stava ancora per terra. Ma almeno adesso sapeva perché suo padre era lì, e perché lo aveva colpito. Stella era scossa da forti tremori e batteva i denti senza controllo tra le braccia di Stolas; negli occhi aveva l'immagine di un altro tempo, di suo fratello appena adolescente, per terra, dopo che loro padre lo aveva colpito allo stesso identico modo. E Stolas non capiva, né sapeva cosa fare, perché non l'aveva mai vista così in preda al terrore.

Il Marchese si era avvicinato a suo figlio, torreggiando su di lui, con uno sguardo severo e gonfio di disapprovazione.
"Sei davvero un figlio ingrato." gli aveva detto, e Andrealphus aveva sentito di nuovo quel fischio lancinante sfondargli i timpani "Quando avevi intenzione di dirmelo? Quando mio nipote avesse avuto tre anni? O trenta? Pensavi di potermelo nascondere per tutta la vita? E come pensavi di farlo?" La voce di suo padre gli arrivava ovattata e confusa. Il Marchese si era fermato un momento a pensare, poi aveva guardato in direzione di Stella "Te lo ha chiesto lei?" - aveva domandato - "Ti ha chiesto lei di tenermi lontano?"

"No!" rispose Andrealphus, mantenendo una certa fierezza pur se stava riverso sul pavimento. "Lei non ne sapeva niente." e ingoiò un grumo di saliva amara e ferrosa.

"Non devi mentirmi, lo sai!" il sigillo sull'anello brillò di un blu intenso, e Andrealphus ebbe la sensazione che una lama gli trafiggesse le tempie.

"Vattene Stella." gridò "Stolas, per tutti i maledetti sette inferni, portala lontano da qui."

"Giuro su Satana che se molli da solo mio fratello non ti perdonerò mai." disse Stella "Fa' qualcosa, maledizione!"

Andrealphus guardò Stolas come non lo aveva mai guardato: gli stava consegnando Stella più sinceramente di quanto non avesse fatto al matrimonio, con fiducia, con rispetto, da pari a pari.

"Portala via." implorò, disperato.
"Lasciami con lui!" gridò Stella.
"Mi dispiace" disse il principe rivolto a lei, poi aprì un portale e la trascinò molto, molto, lontano da lì.

***

"Lasciami!" gridava Stella "Torna indietro! Portami da mio fratello! Sei un codardo!" era pallidissima e fredda come un morto. Stolas aveva riassorbito la forma del demone, ed era tornato l'uomo magro e gentile di ogni giorno. La teneva ancora stretta.

"Respira. Stella. Devi calmarti!" Stella sentì una contrazione e un dolore acuto al ventre, e si piegò su sé stessa. Il suo abito rosa era macchiato di sangue.

"Stella che hai?" domandò preso dal panico "La bambina? Sta bene? Senti la nostra bambina?" le appoggiò una mano sul ventre e trattenne il fiato, sentì la bimba muoversi. Ma Stella era piegata dal dolore. "Tutta colpa di quel fottuto bastardo." la sentì gemere "Lo odio."

"Devi calmarti." disse Stolas, sentiva un nodo alla gola, e gli mancava il fiato. Ma non poteva permettersi di perdere il controllo.
"Calmarmi un cazzo!"
"Tuo fratello è forte. Se la caverà. È solo vostro padre."
"È proprio questo il problema..." disse lei, poi esitò "...ci sono tante cose che non sai."
"E allora dimmele!" Ho visto la tua vecchia stanza, a casa di tuo padre. Voleva dirglielo, ma non glielo disse.
"Sono cose mie e di Andre. Tu non c'entri niente. E comunque non lo sopporteresti."
Stolas le rivolse uno sguardo costernato. "Ora portami indietro da lui." lo supplicò Stella.
"Devi farti visitare." negli occhi di Stolas brillava un'espressione dura e severa. "Non si tratta solo di te, è nostra figlia, non ti importa?" Stella sentì una fitta al centro del petto. Gli rivolse uno sguardo ferito.
"Come puoi pensare che non mi importi?"
"Non sto dicendo questo... io..."
"Portami da un dannato dottore, Stols." si arrese lei "Ma, se succede qualcosa a mio fratello, lo giuro, ti smembro con le mie mani."

***

Non si trattava di forza, si trattava di potere e di sottomissione. Andrealphus avrebbe potuto atterrare suo padre con un niente, era giovane, ed era forte. E possedeva la magia naturale, cosa che suo padre non aveva. Il Marchese aveva avuto quell'anello, così come il bastone con la testa d'uccello, dal suocero, come dote. Era stato uno scambio vantaggioso: da un lato una famiglia in disgrazia che possedeva solo la magia e una figlia nubile, dall'altro il Marchese, privo di poteri, ma ricco di averi e di terre. Così aveva avuto l'anello e il controllo sul sigillo, e con essi il potere che la ricchezza non poteva dargli, quello di farsi temere. Con quell'oggetto, all'apparenza così insignificante, poteva togliere la vista e l'udito, e poteva confondere la mente, ma senza, non era che un vecchio senza vigore. In realtà, non aveva importanza, anche senza la magia, il demone di ghiaccio non avrebbe osato attaccarlo, neppure per difendersi. Era l'ordine naturale delle cose: ad un padre si obbedisce, una punizione impartita da un padre si subisce, senza obiezioni, senza tentare di sottrarsi.

Solo per Stella, Andrealphus, gli si era opposto. La prima volta lo aveva affrontato di petto, a tredici anni, quando aveva visto che il Marchese la picchiava, per l'ennesima volta, per farle espiare chissà quale imperdonabile errore potesse aver commesso una bambina. Ed era finita esattamente com'era finita adesso. Suo padre lo aveva colpito, e Andrealphus si era trovato per terra, col volto ferito, cieco e sordo per i maledetti effetti dell'anello magico. E il Marchese, che fino a quel momento non lo aveva mai toccato – forse perché non gli aveva mai disobbedito, o forse solo perché da lui non si aspettava niente - lo aveva colpito così forte da rompergli le costole. E comunque, quella sua intromissione, non aveva certo risparmiato a Stella la sua punizione.

Così, la volta successiva, conscio del fatto che contro suo padre non sarebbe mai stato leone, come gli avevano insegnato i libri di politica che i tutori continuavano ad ammucchiare nel suo studiolo, era dovuto diventare volpe. E aveva capito di dover assumere su di sé, almeno di facciata, l'ingrato compito di punire sua sorella.

Così, dopo l'ennesimo imperdonabile atto di banale disubbidienza, aveva schiaffeggiato Stella per primo. Suo padre ne era stato piacevolmente impressionato.

"Forse dovreste lasciare che sia io ad occuparmene, padre." aveva detto rivolto al Marchese, dissimulando le proprie intenzioni. "Sono un uomo ormai. Sarò in grado."

E suo padre non si era fatto domande, quello schiaffo era stata per lui una prova sufficiente della lealtà di suo figlio, perché anche quello era l'ordine naturale delle cose: si diventa uomini quando si hanno delle responsabilità. E lui si era preso quella di correggere i comportamenti impertinenti di sua sorella, della futura sposa del principe Stolas.

Così aveva lasciato la stanza dicendo "E sia. Fa' quello che ritieni più giusto."
Quando loro padre se ne era andato Andrealphus aveva visto negli occhi di sua sorella una scintilla di disprezzo e senso di tradimento, allora si era chinato verso di lei, le aveva messo una mano sulla spalla e le aveva detto, con una voce dolcissima e viscosa:
"Dovevo farlo, lo capisci? Ti avrebbe fatto più male di me."
Stella era rimasta in silenzio per interminabili secondi, poi aveva annuito senza parlare.
"Quando dirò a papà che devo punirti, tu verrai con me, staremo via mezz'ora, io non ti toccherò, non ti farò niente." le aveva spiegato.
"Ma lui vuole che tu..." aveva iniziato la sua sorellina.
"Lui non lo saprà. Quando tornerò da lui..." l'aveva interrotta "...gli dirò che sei stata punita, e che hai pianto, e che hai capito, e che non succederà più. Tutto chiaro?"
"Se ne accorgerà subito." aveva obiettato la piccola Stella.
"Non se ne accorgerà mai." e le aveva fatto una carezza sulla guancia su cui prima l'aveva colpita. "Concorderemo la nostra versione. Io ti dirò cosa dirgli se ti chiederà qualcosa. Devi imparare a controllarti. Devi essere meno trasparente. Non posso proteggerti se non fai esattamente quello che ti dico."
Stella aveva annuito. Mentire. Nascondersi. Dissimulare. Lui sapeva cosa fosse meglio per lei. E lei aveva bisogno di fidarsi. Andrealpus aveva dovuto, qualche altra volta, nel corso degli anni, schiaffeggiarla di fronte al Marchese. Rimproverarla, punirla in qualche misura. Essere odiato da lei. Ma era stato un piccolo prezzo da pagare, un piccolo male per un bene più grande: dal giorno di quel primo schiaffo, loro padre non aveva più toccato Stella, convinto del fatto che lui, da bravo fratello maggiore, se ne sarebbe sempre occupato al posto suo.

Ma ora Andrealphus aveva commesso un errore imperdonabile. Si era fatto prendere dall'emotività e dalla smania di proteggerla, a tal punto da tagliar fuori loro padre dalla notizia della gravidanza. Mentendo a Stella, mentendo a Paimon e, naturalmente, mentendo al Marchese. Sapeva che sarebbe venuto a saperlo, solo sperava di avere ancora tempo, di poter tenerlo lontano solo un altro po'. Dannazione, era un vecchio che a mala pena si reggeva in piedi, come faceva a trovare tutta quella forza per essere così incommensurabilmente stronzo?

Ora erano soli, nell'androne vuoto, perlomeno Stolas, questa volta, aveva avuto la prontezza di fare la cosa giusta. E Stella era al sicuro. Anche se non era merito suo. Andrealphus aveva provato a rimettersi in piedi, ma il Marchese aveva acuito ancora il senso di disorientamento dato dall'anello, così era ancora riverso per terra, tra il marmo freddo e un tappetto di filo di seta, con la vista appannata, mentre suo padre tirava fuori la lama retrattile nascosta nel suo bastone e gliela puntava alla gola.

"Non dovevi osare scavalcarmi, figlio mio." aveva detto, con quella voce roca e graffiante, e aveva vagato sul suo petto con la lama, fino a incidere la pelle qualche millimetro sotto la clavicola, e Andrealphus aveva sentito un dolore insopportabile, bruciante, e la paura gli aveva invaso le membra: era una maledetta lama sacra.

"Morto non vi servo a niente." disse Andrealphus, trattenendo un lamento, e sforzandosi di apparire calmo e fiero. "Creereste lo scandalo più grosso degli ultimi tre secoli, ammazzando vostro figlio, nonché il cognato del principe Stolas, nella sua stessa casa. Sareste bandito, e non avreste niente di tutto quello che vi garantisce il matrimonio di Stella."

"Non voglio mica ammazzarti" rispose il Marchese "Non sei il protagonista di una tragedia, marchesino."
"Se lo fossi, sareste voi ad essere morto." sputò velenoso Andrealphus.
Suo padre scoppiò in una fragorosa risata.
"Questa lama lascerà una cicatrice." riprese poi, e gli incise di nuovo la carne, un taglio più lungo, sul petto "Ogni volta che ti guarderai allo specchio, ogni volta che la sentirai al tocco dei polpastrelli, ti ricorderai che la tua vita è mia, perché ho deciso di dartela ventitré anni fa, e di risparmiartela oggi."
Andrealphus serrò la mascella ingoiando il dolore. "L'età vi ha reso più fantasioso con le punizioni, padre, ero rimasto alla cintura e al bastone." disse in tono di scherno. Ma sentiva nel petto un grumo nero di terrore. Vedeva la camicia lacera e il sangue impregnarne il tessuto, e quella vista, più del dolore, gli accresceva la paura.
"Oh, hai imparato il sarcasmo. Eri un bambino così serio." Il Marchese affondò la lama più in profondità, lentamente, e Andrealphus giurò di poter sentire ogni millimetro straziargli le membra, poi suo padre la ritrasse di scatto, strappandogli un grido "Tu e tua sorella siete miei." sibilò "Mi dovete obbedienza e rispetto."

Ma poi, d'improvviso, era successo qualcosa alle luci. Un calo di tensione del lampadario, un tremolio delle candele d'arredamento. E infine tutto si era fatto buio, l'aria era stata invasa di un fumo nero-rossastro, una voce nota, ma più profonda e tonante del solito, aveva riempito l'aria. Una sagoma mostruosa che sembrava fatta di pece e di piume incombeva di fronte al Marchese, alle spalle di Andrealphus.

"Sono costretto a chiedervi di lasciare la mia dimora, Marchese." tuonò quella voce "Non mi piacciono le armi, sono un uomo di pace. E non gradisco che mi si macchi il tappeto con il sangue della mia famiglia. Tuttavia..." qualcosa della consistenza vischiosa della pece colpì la mano del Marchese disarmandolo, la lama ricadde sul pavimento di marmo con un suono metallico. "...tuttavia per voi, illustrissimo suocero, potrei essere costretto a fare un'eccezione."

Il Marchese era sgomento, colmo di terrore, Andrealphus si era rialzato e ora stava in piedi, ferito, certo, ma fiero e forte di quell'insperato intervento, ma non osava proferire parola.

"Ora mi scuso, ma ho bisogno che vostro figlio mi segua, ci aspettano altre faccende più nobili che riguardano il sangue." concluse la creatura "Se al mio ritorno sarete ancora qui, finirà che dovrò fare lavare il tappeto, e forse anche le tende."

Il principe avvolse Andrealphus nel fumo nero, ci fu un bagliore violetto, e poi svanì portandolo con sè. Il Marchese lasciò il palazzo gonfio di umiliazione, giurando a sé stesso che, a tempo debito, avrebbe colpito suo figlio dove avesse fatto più male. Avrebbe covato quel proposito, come un seme cattivo, per molto, moltissimo, tempo.

***

"Grazie Stolas."
"Non l'ho fatto per te. Stella non me lo avrebbe perdonato."

 

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[1]Il pomello della testa del bastone a cui si appoggia il Marchese ha l'aspetto di una testa di cicogna. Ho voluto "prendere in prestito" i poteri e il simbolismo di un altro Gran Marchese dell'Ars Goetia, il demone Shax, il quale possiede il potere di togliere la vista e l'udito e di confondere la mente. Inoltre, pare si presenti con l'aspetto di una cicogna, e parli con una voce roca ma flebile.

 

 

 

Notes:

Spazio autrice

Non so bene cosa dire... ci sono temi che mi mettono in difficoltà, ma scrivere è un po' affrontare anche questo. Non sono sicura di come sia venuto fuori, l'ho riletto tante volte, ho edulcorato per poi tornare a esplicitare, ho cancellato e riscritto.

Stella, Andrealphus, perdonatemi. Non siete dei santi, e non siete miei, ma odio comunque farvi del male.

E voi che mi leggete perdonate me, per tutte le fisime che mi faccio: ma anch'io, come Stolas, odio la violenza, e sono una donna di pace.

È vero che non c'è mai fine al peggio, ma anche il meglio, prima o poi, dovrà arrivare. Abbiate pazienza.

A presto.

- Armilla Lunastorta

Chapter 18: Confessioni, allusioni, intromissioni

Summary:

Andrealphus rivela a Stolas parte del loro torbido passato col Marchese.
Paimon fa visita a Stella per assicurarsi lealtà.

Cosa faranno i nostri eroi?

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Confessioni, allusioni, intromissioni
 

Stella si era addormentata, quando dormiva la sua espressione – di solito così dura e accigliata - si rilassava e assumeva dei tratti infantili e un aspetto insolitamente vulnerabile. Era di nuovo a palazzo da qualche giorno. L'avevano stabilizzata e la bambina stava bene. Doveva solo riposare e non fare sforzi. Completo riposo, fino a termine.

Stolas stava seduto accanto a lei sul letto col cuore in gola e la sensazione di voler piangere. Aveva avuto paura di perdere la sua bambina e, anche se non lo capiva fino in fondo, aveva avuto paura di perdere lei. E ora, anche se erano passati giorni, e non facevano altro che rassicurarlo, una morsa bruciante gli stringeva lo stomaco, e non trovava il coraggio di allontanarsi dalla stanza nemmeno quando lei era addormentata.

Andrealphus ci aveva messo ore a convincersi ad andare nelle loro stanze. Che fosse un'invasione dell'intimità matrimoniale poco gli importava, dopotutto si trattava di sua sorella. Più volte aveva percorso il corridoio che lo separava dalla porta della loro camera da letto, e più volte era tornato indietro. La ferita al petto gli bruciava ancora ad ogni movimento, e aveva la sensazione che un pensiero latente gli si stesse annidando alla base del cranio, ma non riusciva a focalizzarsi su di esso, o a capire di cosa si trattasse. Infine, in un moto di coraggio, aveva raggiunto la porta socchiusa, e ora se ne stava sulla soglia e li guardava.

No, Stolas non avrebbe mai potuto amarla, lo vedeva da modo in cui le sfiorava la mano. Era un gesto di gentilezza, forse di affetto o più di affezione, un legame forzato dal tempo e dalle circostanze. Era la madre del suo bambino, e questo smuoveva qualcosa in Stolas, ma non quello che dovrebbe smuovere una moglie. Ma, in fondo, andava bene così, era più di quanto potesse aspettarsi per sua sorella da quel matrimonio.

Stolas lo infastidiva, era troppo buono, troppo trasparente. Era senza peccato, qualsiasi cosa volesse dire all'inferno. Era migliore di lui. Quella consapevolezza lo irritava, avrebbe davvero potuto fare meglio quello che lui aveva provato a fare per tutta la vita: proteggerla, tenerla al sicuro. E lo aveva davvero fatto, l'aveva portata via, quando lui era riuscito solo a starsene per terra senza reagire. Promise a sé stesso che se fosse accaduto di nuovo, sarebbe stato lui a proteggerla, a fare in modo che fosse al sicuro, per sempre.

Poteva morire. Mia sorella poteva morire.

Il pensiero gli attraversò la mente. Era quello il pensiero intrusivo che non era riuscito ad afferrare per tempo, e ora gli era entrato in testa e gli si era radicato così in profondità che aveva la sensazione che gli stesse fagocitando il cervello. E sentì che stava per succedergli. Sudore freddo. La sensazione di non riuscire a respirare. Il cuore gli batteva all'impazzata e sembrava volergli sfondare il torace. No! No! No! Non lì! Stolas se ne sarebbe accorto.

Iniziò a fare lunghi respiri profondi.

Uno. Inspirare. Espirare. Due. Inspirare. Espirare. Tre. Inspirare. Espirare. Quattro...

"Non ne abbiamo mai parlato, di quello che è successo." la voce di Stolas lo raggiunse ovattata, attraverso i battiti che gli rimbombavano nelle orecchie.

Andrealphus sussultò. Inspirare. Espirare. Cinque...

"Lo so che sei lì da mezz'ora." continuò il principe. "Ma non capisco se sei qui per lei, o qui per me."

Andrealphus realizzò che era lì per lui. Aveva ragione. Non ne avevano parlato. E sapeva che non ne avrebbero parlato davvero. Stella non glielo avrebbe perdonato: era qualcosa di cui si vergognava profondamente. Ma alludere non è confessare.

Inspirare. Espirare. Sei...Inspirare. Espirare. Sette...

Fece cenno a Stolas di seguirlo fuori. E lui lo fece. Attraversarono il lungo corridoio in silenzio, a passi lenti, in un andamento cerimonioso.

"Volevi parlare? Parliamo." aveva detto Andrealphus, "Che vuoi sapere?"
"Perché non hai detto a vostro padre della gravidanza?"
"Non volevo le succedesse quello che, alla fine, è successo."
Stolas rimase in silenzio, meditabondo.
"Quello che è successo a Stella, lo sai anche tu, non ha a che fare con tuo padre. È stata...sfortuna." Sospirò, e abbassò gli occhi. "Comunque, lei sta bene, e anche la bambina."
Andrealphus sentì irradiarsi nel petto una piccola scintilla di calore: "È una femmina?" domandò spalancando gli occhi.
"Già." fece Stolas, e sorrise. Ma Andrealphus si era già rabbuiato di nuovo. Così il principe riprese a parlare: "Lei mi ha detto poco di vostro padre. Dice che sono cose vostre, ma io ho bisogno di capire."
"Non essere ingenuo, lo hai visto l'altro giorno, non c'è certo bisogno che lei, o io, ti raccontiamo tutta la storia." Fece Andrealphus con una punta di fastidio nella voce. O era imbarazzo? "Puoi arrivarci da solo."

Le parole della notte dell'equinozio riaffiorarono alla sua mente come una rivelazione.

«... mi avrebbe presa davvero a schiaffi.»
«...mi avrebbe fatto il culo a strisce...»

Aveva creduto che fosse un'iperbole, un'esagerazione, una di quelle cose che i figli dicono riguardo ai genitori senza intenderlo veramente, non fino in fondo almeno. Andrealphus, con quella allusione gli aveva fatto crollare ogni certezza, e il fatto che non glielo avesse detto, non davvero, che lo lasciasse in sospeso a immaginare, non faceva che accrescere in lui un senso di angoscia e di impotenza.

"Lui vi... lui era..." balbettò Stolas, non sapendo come formulare la frase senza...senza ferirlo.
"Puoi dirlo Stolas, non piangerò." lo schernì Andrealphus, con un tono di falsa sicurezza.
"Era violento?" farfugliò il principe a mezza bocca.
"Solo con lei." mormorò Andrealphus abbassando gli occhi, e le sue guance si fecero rosse come non lo aveva visto mai. "Con me, solo una volta." esitò "Beh, adesso due."
Stolas ebbe la sensazione che a quella confessione tutto il peso del mondo gli ricadesse sulle spalle. Glielo aveva chiesto, è vero. Ma adesso si sentiva sopraffatto, con un macigno sul cuore, e provava vergogna. Perché provava vergogna?
"E vostra madre non -?" stava per chiedere con voce tremante. E di tutte le domande che poteva aspettarsi Andrealphus, quella non se l'aspettava per niente. Serrò gli occhi in una fessura sottile.
"Stai sconfinando." Lo interruppe "Questa è un'altra storia."
"Come può essere un'altra storia?" protestò Stolas. "È tutta la stessa storia, è la vostra famiglia." Non poteva dargli le briciole e poi ritrarsi. Non poteva renderlo partecipe di quel peso e poi non dargli tutti i pezzi per sorreggerlo.
Andrealphus scosse la testa "Tuo padre è un cazzo di santo, pronto ad essere sparato lassù, se lo metti di fianco al mio." Affermò, senza rispondere alla domanda. Stolas sapeva che non era del tutto vero.
"Non puoi lanciare il sasso e-"
"Devi farti bastare questo." Tagliò corto il demone di ghiaccio "E non devi dire a Stella che te l'ho detto. Mi ammazzerebbe."

***

Stella era sveglia. O forse stava ancora sognando. Vedeva un'ombra scura incombere su di lei, due occhi luminosi sbucare da un viso indurito dall'età.

"Sono lieto stiate bene, principessa."
Lei si rese conto che quella cosa che aveva l'aspetto di un terrore notturno era invece lì con lei, accanto al suo letto.
"Vostra Maestà" disse allora, con una voce flebile e stanca "Quale onore vedervi di persona. Non dovevate disturbarvi."
E al re parve di cogliere una punta di sarcasmo.
"Onori che si devono alla madre del futuro erede."
"Di vostro nipote." Lo corresse lei.
"Anche." convenne Paimon, come se fosse una cosa da niente.

Stella si era spinta a sedere, e ora stava con la schiena appoggiata ai cuscini, nell'ampio letto vuoto, con le lenzuola bianche, con la vestaglia bianca, coi fiori bianchi sul comodino accanto al letto. Non sono morta. Perché sembra una maledetta camera mortuaria? E con Paimon che incombeva davvero come l'ombra di una paralisi del sonno: tutto vestito di scuro, col mantello, e i guanti, e la camicia accollata, che non lasciavano intravedere nemmeno un lembo di pelle. Così aveva l'impressione che il volto attaccato a quel corpo fosse una strana maschera teatrale, e quello sotto solo una statua o un manichino ben realizzato.

"Sono esausta, Maestà." disse lei, e aveva avvolto il ventre con le braccia come a volerlo schermare da un cattivo influsso. "Ve lo chiedo per favore, ditemi quello che dovete dirmi, e lasciatemi riposare." Sentiva un freddo leggero attraversarle la schiena, ma non avrebbe mai dato a Paimon la soddisfazione di vederla spaventata.
"Vostro fratello farebbe qualsiasi cosa per voi." Disse il Re, con un tono a metà tra una domanda, e una sicura affermazione. Lei sussultò e lo guardò confusa, aggrottando la fronte.
"Perché vi ammutolite così? Non è forse vero?"
Stella annuì, senza parlare.
"Me ne ricorderò." fece Paimon "Siete fortunata, la lealtà è un grande valore. Chi mi è leale ottiene tanto da me."

Lei ora muoveva gli occhi nervosamente verso la porta. Perché non arrivava nessuno? Dov'erano Stolas e Andrealphus? Sentì le mani gelate, la circolazione nel suo corpo rallentare, anche i battiti del cuore sembravano più fiacchi.
"Mio Signore, vi prego, sono stanca. Non riposare farà male a... all'erede." la sua voce era calma e composta, degna di una principessa. Degna di una bambina ben educata. Paimon parve non sentire affatto la richiesta.
"Mio figlio non mi è leale. Non come lo si dovrebbe a un padre. Voi lo sarete?"
Stella lo guardò negli occhi, mantenendo un'espressione serena e sicura. Sperando che Paimon non notasse la patina di sudore freddo che le stava velando la fronte.
"Come lo si deve a un Re." rispose con reverenza. Mentire. Dissimulare. Andrealphus glielo aveva insegnato.
"Bene. Sono il vostro Re, prima di essere vostro suocero, e la mia volontà viene prima di qualsiasi altra cosa."
Stella si morse la lingua, serrò la mascella, provò a tacere, ma la sua natura era troppo forte per non prorompere.
"Mio Signore." disse, con lo stesso tono calmo e riverente "Con tutto il rispetto ma...la creatura che porto in grembo... verrà sempre prima di voi."
Paimon fece una smorfia che lei non riuscì a decifrare.
"Ah, le madri. Non vi ho mai capite." disse. "Sono certo saprete comunque come comportarvi, principessa Stella." concluse "Riposate, adesso." e – com'era comparso – era scomparso.

Stella si chiese se quell'uomo non avrebbe davvero abitato i suoi incubi per lungo tempo.

***

Passò un tempo indefinito, che Stella trascorse in una vigile attesa, temendo che, se avesse chiuso gli occhi, la sagoma di Paimon si sarebbe proiettata sulle sue palpebre chiuse. Poi, finalmente, li vide tornare: Stolas era pallido come un cencio, la guardava in modo diverso, con uno sguardo di compassione che lei detestava da profondo; Andrealphus, dietro di lui, era rosso in viso e non osava nemmeno guardarla in faccia. Come due bambini. Due stupidi bambini colpevoli che pensavano di poterle nascondere qualcosa.

"Glielo hai detto, non è vero?" fece lei rivolta a suo fratello, nella voce flebile e stanca spiccava una punta di contrarietà. "Non sei riuscito a trattenerti nemmeno una settimana." Ma non era arrabbiata, non le importava più. Certo, Stolas doveva togliersi dalla faccia quell'espressione di pietà, o lo avrebbe riempito di schiaffi. Ma, in quel momento, era solo felice che Paimon se ne fosse andato, e che loro fossero lì, e di non essere più sola.

"Gliel'ho chiesto io" fece Stolas "e comunque non so niente di più di quello che tu stessa mi hai concesso di sapere con le tue allusioni. Tuo fratello ti è leale."

Gli occhi di Stella furono attraversati da un lampo di inquietudine.

"Perché tutti quanti, oggi, continuate a dirmi questa dannata cosa?" mormorò, rompendo il contatto visivo con Stolas. Lui si guardò intorno nella stanza, non c'era niente che facesse pensare che qualcuno, oltre lei, fosse stato lì. Non c'erano pieghe ai piedi del letto, nessun segno che qualcuno si fosse seduto sulla poltrona, gli specchi erano ancora tutti coperti, non c'erano tracce di impronte sul tappeto, e nell'aria non c'era alcun odore. L'assenza della presenza era tutto quello che gli serviva per capire che Paimon era stato lì.

Sospirò "Mio padre."
"Già." fece lei
"Che ti ha detto?"
"Niente di nuovo, suppongo." ora Stella sentiva di nuovo quel freddo insopportabile invaderle le membra "Qualcosa sul fare la sua volontà, o giù di lì."
"E tu che gli hai risposto?" domandò Andrealphus colmo di preoccupazione.
"Che mia figlia sarà sempre più importante di lui."
Andrealphus sgranò gli occhi ed ebbe la sensazione di dover vomitare: "Ma che ti salta in mente?"
Stolas si era fatto più pallido di quanto già non fosse, ma aveva sentito una piccola punta di calore invadergli il petto.
"Stella...sono cose che puoi pensare, che puoi provare, anzi, che è giusto che tu senta..." le disse il principe, aggrottando la fronte "... È un pensiero che condivido, e lo sai. Ma non lo puoi dire. Non a lui. Questo genere di sincerità..." esitò.
"...porta solo guai." completò Andrealphus al suo posto.

"Tanto lo avrebbe capito" provò a giustificarsi lei "Non sono mai stata una bambina ubbidiente, e tu lo sai." Lanciò uno sguardo tagliente a suo fratello. "Sai anche che so sopportare."

Loro stavano in piedi, erano in piena salute, erano due uomini forti. Eppure, lei, nella fragilità della sua condizione, costretta al letto e al riposo, fiaccata dalle preoccupazioni, sembrava avere il controllo, sembrava essere al di sopra di loro, più forte, più caparbia. Più irriverente, certo, più sfrontata. Ma perché dovere rispetto a chi ti vede solo come una pedina? E Paimon era così che la vedeva, era così che vedeva tutti loro. Era così che vedeva il suo regno intero. Una scacchiera. E giocava per ritardare più possibile, per evitare all'infinito, lo scacco al re.

Adesso c'era troppo silenzio, il silenzio non le piaceva, le faceva sentire i suoi pensieri troppo forte, la faceva concentrare troppo sull'interno e troppo poco sull'esterno. E l'interno di sé stessa non era qualcosa su cui voleva porre l'attenzione per troppo tempo, guardarsi dentro era per lei spaventoso e oscuro, e perdersi, annegare, era il rischio che sentiva di correre ogni volta che ci metteva piede.

"Potete mettere della musica? E portare via i fiori? C'è troppo silenzio. Mi sento al mio funerale." disse. "Fatelo voi, per favore, non fate entrare la servitù." esitò un momento e li guardò con occhi grandi e imploranti "E poi potremmo... Stare un po' insieme... chiacchierare."

"Tutti insieme?" domandarono all'unisono Stolas e Andrealphus.

"Beh, che c'è di male?" fece lei, fingendo di non cogliere quale fosse il problema.

"Ma io e lui non ci sopportiamo." Qualcuno doveva pur dirlo, e suo fratello l'aveva detto.

"Farete uno sforzo." Disse lei facendo spallucce. "Ora su! Via i fiori, e mettete la musica."

Stolas si fiondò a eliminare ogni traccia di fiori nella stanza. Andrealphus era già al giradischi in fondo alla sala. A lei, in quel momento, ogni onore era dovuto.

"Che cosa vuoi ascoltare?"
"Gershwin, diamo un po' di brio a questa giornata."

Le note frizzanti di Rhapsody in Blue iniziarono a riempire la stanza, Stolas sedette accanto a lei, sul lato del letto, Andrealphus si accomodò sulla poltroncina, e in quella ritrovata normalità la ferita sembrò fargli meno male del solito. Era come se l'odio per i loro padri avesse generato una strana armonia. Come se il fatto che Paimon fosse stato lì poco prima, che il Marchese avesse fatto irruzione a palazzo, avesse creato in loro un legame, se pur temporaneo, volto alla mutua protezione. Come se il fatto che anche Stolas sapesse, se non tutto, almeno qualcosa, al posto di farla sentire debole, la facesse sentire un po' più forte, e sorrise di questa consapevolezza.

"Dai, raccontatemi una storia felice." Domandò impaziente. Un capriccio infantile. Il racconto della buonanotte.

"Felice? Che richiesta semplice" commentò Andrealphus sarcastico.

Stolas si sfregò la nuca "Non riesco a credere di essere d'accordo con lui." disse. "Non troverò mai niente da raccontare."

"Il bello delle storie è che non devono per forza essere vere." fece lei, prendendogli le mani "Vi prego, una fiaba, ho davvero bisogno di un lieto fine." E li guardò con gli occhi vispi della bambina che era stata e che – in fondo, da qualche parte – era ancora.

"Quindi? Chi inizia?"

Notes:

Prima le cose importanti, dato che ormai vi linko la musica, linkiamo anche questa!
Qui trovate Rhapsody in blue di Gershwin, diamo un po' di brio anche noi a questa giornata:
https://youtu.be/ynEOo28lsbc?si=8Nu7Rx0Cq9syBTPM

 

E Andrealphus ha confessato... almeno un po', ma d'altronde come si può tenere al sicuro chi si ama, se chi dovrebbe proteggerla non sa da cosa la sta proteggendo?
Stolas forse non era pronto ad avere queste conferme, ma sappiamo che saprà gestirle.

E poteva mancare Paimon? Certo che no, perché i problemi non arrivano mai da soli, e le vessazioni psicologiche possono essere tanto cruente quanto quelle fisiche.
Non auguro a nessuno di trovarsi davanti l'ombra scura del Re dei Goetia che chiede lealtà.

Ma, adesso, raccontiamo a Stella una storia felice, inizio io!
"C'era una volta la principessa Rabbiolina..." no, Stella, scherzavo! Non lanciarmi quel piattino da dessert!

Ci vediamo al prossimo capitolo, sperando in tempi migliori.

- Armilla Lunastorta

Chapter 19: Due metà fanno un intero

Summary:

Nasce Octavia!

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Due metà fanno un intero

 

Erano nell'orangerie e quello aveva il rassicurante aspetto di un giorno come gli altri. I due sposi passeggiavano nella luce tiepida del giorno e litigavano, come sempre, per qualcosa di insignificante.

Andrealphus era chissà dove, si era fatto taciturno e si faceva vedere poco; anche se l'ombra del Marchese si era ormai dissipata, le ferite della carne e dell'anima non erano del tutto guarite.

Stella, dal canto suo, sembrava non pensarci più, e non pensava più nemmeno a Paimon: li aveva relegati dove gettava tutte le preoccupazioni, chiuse a chiave in una camera nascosta nel retro della sua mente. Litigare con Stolas era per lei un rito di affermazione di sé, e per Stolas, vederla così, era solo segno che si sentiva bene, e perciò le dava corda in quel battibecco infinito che altro non era che un'abitudinaria rivendicazione di normalità.

Ad un tratto, però, lei si era fatta silenziosa, come se la fiamma del litigio si fosse improvvisamente spenta, aveva stretto il braccio di Stolas e gli aveva rivolto un'espressione confusa e incerta.

"Che ti prende adesso?" aveva domandato il principe "Mi prendevi a parolacce un secondo fa."

"Giura di non dare di matto..." aveva detto Stella, e lo aveva guardato con due occhi umidi e colmi di preoccupazione. Stolas la vedeva controllare il respiro come se si stesse imponendo di stare calma "...se dai di matto in questo momento, Stols, ti meno."

Stolas si era ammutolito, la guardava interrogativo. "Ma che stai –"

"Giura. Veloce." fece lei, serissima, trattenendo il fiato.
"Lo giuro." si affrettò a rispondere lui.
"Bene." lei espirò, e lanciò un gemito strozzato. "Perché, Stols, o mi sono fatta pipì addosso, o si sono rotte le acque."
Il principe impallidì, e sentì che gli tremava il cuore. "È troppo presto." disse stridulo "Non può essere." esitò, si guardò intorno spaesato "Chiamo il medico di corte." decise infine.

"No!" implorò lei "Chiama la mia ostetrica."
"Lo sai che non è a palazzo. Sei all'ottavo mese, non potevamo immaginare che -" le disse Stolas.
"A che cazzo ti serve guardare le stelle se non sai prevedere una cosa del genere?" piagnucolò lei, rossa in viso.
"Stella io... ti prego... so che il medico di corte non ti piace ma-"

"È un fottuto schifoso." la sensazione fredda dello speculum e delle dita guantate dopo la loro prima notte la tormentava, e la faceva rabbrividire.

"Sii ragionevole."

"No. Lui non mi toccherà di nuovo."

"E come vorresti fare?" il principe si sentiva sopraffatto, tremava leggermente "Io non so come comportarmi." confessò.

"Tu sì che sai come rassicurare una partoriente, razza di idiota." ringhiò lei "Almeno portami su un maledettissimo letto. E dove diavolo è quell'inutile di mio fratello?"

Beh, perlomeno lanciare insulti la aiuta a distrarsi. Pensò Stolas, e aprì un portale per la camera da letto, non aveva la forza di portarcela di peso, e probabilmente nemmeno il tempo. Bene. Poteva farcela. Doveva farcela. Ma cosa fare per prima cosa?

"Chiamate tutti medici liberi e qualsiasi ostetrica disposta a presentarsi immediatamente." ordinò alla servitù. "Andate a cercare il marchese Andrealphus e – " la guardò, e lesse nei suoi occhi che non voleva altri che loro. "- e nessun altro." Concluse.

"Ma il padrone...il Re Paimon..." azzardò una domestica troppo zelante. "...la nascita del futuro erede dovrebbe –"

"Lo saprà, come tutti, a cose fatte." fece Stolas freddamente "Ora fate quello che vi ho ordinato, non è lui il padrone in questa casa."

Il cuore gli esplodeva nel petto. Lui non era così... autoritario. Ma doveva, non c'era altro modo. Stella non gli avrebbe perdonato nessuna debolezza. E poi, lui, non voleva essere debole, non in quel momento, non se si trattava della sua bambina.

***

"È tutta. Fottutamente. Colpa. Tua." urlò Stella; il travaglio era iniziato e l'unica cosa che riusciva a pensare era quanto avrebbe voluto far provare a Stolas un millesimo del dolore che stava provando lei.

Stolas provò farle una carezza di conforto, e Stella gli schiaffeggiò la mano.

"Non toccarmi! Va vià! Sparisci!"

Lui la guardò confuso e guardò l'ostetrica.

"Forse, dovreste andare, se è quello che vuole..." osò suggerire.

Il principe indietreggiò di qualche passo, titubante.

"No!" fece Stella quando lo vide allontanarsi "Non lasciarmi da sola!"

"Ma tu hai detto-"

"Non devi ascoltarmi, fottuto idiota." piagnucolò "Sei un maledetto stupido. Ti prego, dammi la mano."

Stolas sobbalzò quando lei gli strinse le dita in una morsa. "Ahia!"

"Oh, scusa, ti faccio male? Vuoi partorire al posto mio?"

"Devi rilassarti, controllare il respiro, prendere il controllo di -"

"Fottiti Stolas! Sta' zitto, per Satana!" E continuò a stritolargli la mano nella sua.

Voleva sembrare, anzi, voleva essere, la solita petulante ragazzina, ma la verità è che era colma di paura. Il respiro le moriva in gola, aveva la sensazione di non riuscire a controllarsi. Avrebbe dovuto essere una cosa naturale, automatica, avrebbe dovuto saperlo fare. Perché aveva la sensazione di non sapere che cosa stava succedendo al suo dannatissimo corpo? Perché si sentiva in preda agli eventi, spettatrice, come tutti gli altri in quella stanza?

"Stella, respira." sussurrò Stolas, in un moto d'apprensione.

"Oh, sì, respira! Com'è che non ci ho pensato?" le parole furono mozzate da una contrazione "Sparala tu fuori questa cosa, e poi dimmi ancora di respirare."

Lei aveva il viso chiazzato di rosso, gli occhi lucidi, piccole perle di sudore le attaccavano i capelli alla fronte. Con le labbra piegate nel suo solito broncio, e le ciglia aggrottate. E Stolas riconobbe quella Stella, così potente e terrena, della notte dell'equinozio, delle richieste sussurrate per la figlia non ancora nata, del giorno del suo esame di Guardiano. E di tanti altri piccoli, innumerevoli, momenti in cui aveva riconosciuto la sua forza. Questi pensieri gli attraversarono la mente e sorrise.

"Che diavolo hai da ridere, Stols?" fece lei e lanciò un altro lamento.

Lui le posò un bacio leggero sulla fronte. "Non rido. Sorrido. Perché sei bella. E sei forte." Le accarezzò il dorso della mano con il pollice.

Le guance di lei bruciarono di imbarazzo. "Ma tu sei tutto scemo! Sta' zitto!" ma ricambiò la carezza sulle dita di lui.

***

Quando Andrealphus lo aveva saputo si era precipitato nelle loro stanze così com'era, in accappatoio, coi capelli bagnati, con le ciabatte da camera di pelo azzurro. Trafelato e senza dignità alcuna. Beh, almeno era profumato.

Mia sorella.
Mia sorella è in travaglio.
Mia sorella sta per avere un bambino.
Oh Satana!
Quell'inetto  di Stolas!
Nel migliore dei casi, sarà nel panico da qualche parte;
nel peggiore, sarà svenuto per terra.
Come farà senza di me?
La mia povera, povera, sorellina.
Tutta sola con  quell'incapace  di marito.
Come si sentirà perduta!
Avrà di certo bisogno di me.
Io so come gestirla.
Io so come comportarmi.

Questi pensieri gli attraversavano la mente mentre saliva di corsa le scale, accompagnato dal "ciaff ciaff" delle pantofole da camera ad ogni gradino.

Stella. Sto arrivando.

"La... principessa...Mia...sorella...il bambino" disse affannato rivolto ai due imp che stavano davanti alla camera da letto. "Lasciatemi passare!" Poi spalancò la porta in un gesto plateale.

"Ci sono io, adesso!" esclamò.

"Eccoti, maledettissimo stronzo!" fece Stella.

E Andrealphus la vide lì, sudata, rossa in viso, con i capelli arruffati e gli occhi molli e umidi. E realizzò che stava succedendo davvero. Sentì un nodo alla gola, e il cuore gonfiarsi nel petto.

Mia sorella...oh...mia nipote... Oh... sarò zio.

Si fece pallido, sentì la testa leggera, un inusuale senso di calma invaderlo.

"Potevo mancare, sorellina?" disse, con un sorriso sicuro stampato in faccia.

E cadde svenuto sul pavimento.

Stolas sbatté le palpebre per la sorpresa, Stella spalancò gli occhi di disapprovazione.

"Lasciatelo lì, ben gli sta'!"

"Stella!"

"Sto scherzando! Quante storie!"

"Sdraiatelo da qualche parte e mandategli un medico." Ordinò Stolas, piatto. "Che tempismo, tuo fratello..."

"Che ti devo dire Stols? Sono circondata da uomini idioti." disse lei, e il principe fece una smorfia di disappunto.

Un gruppetto di imp trascinò via Andrealphus, avrebbe conosciuto sua nipote in elegante ritardo.

***

Stella era esausta, inzuppata di sudore, c'era quasi, lo sapeva, lo sentiva. Ricadde sfinita contro i cuscini per un momento, ed ebbe l'impressione di veder comparire qualcosa sul dorso della spazzola d'argento che stava sul comodino, una sagoma scura. Sussultò.

"Che cos'era quello?" domandò, turbata. Chi era. Questa è la fottuta domanda. Si disse tra sé e sé. "Stolas! Porta via quella maledetta spazzola!"

"La spazzola?"

"C'era... qualcosa, qualcuno sopra... O dentro... Non lo so..."

Stolas rabbrividì, la gettò in fondo al cassetto del comodino.

"Fatto. Più tranquilla?" Non poteva essere lui... Lui può farlo solo con gli specchi. Pensò.

"Si..." Esitò "Però... Stols... Puoi... Puoi toglierti anche quel medaglione?"

***

Quando il travaglio era iniziato era mattina, una mattina luminosa e tiepida per la stagione. Ma quando la bambina era venuta al mondo, un'eclissi infernale aveva oscurato il cielo per qualche secondo. La stanza dove stavano i neogenitori, prima inondata di luce, era stata avvolta dalla penombra violetta di una notte artificiale, e Stolas aveva avuto la sensazione che tutta la luce del giorno si stesse riversando in quella nuova vita, come un dono.

Credeva di conoscere l'universo intero, ogni luna, ogni stella, ogni galassia. Credeva che quella conoscenza immensa comportasse il fatto che nulla sarebbe più riuscito a sorprenderlo; ma il primo vagito di sua figlia gli rivelò mille altre lune e mille altri mondi, nascosti in un universo che non aveva saputo esplorare ancora, quello del suo cuore.

Era dunque quello il sentimento che tanto aveva inseguito, che tanto aveva agognato? Questa sensazione di pienezza, questo calore quasi doloroso che gli sbocciava nel petto con irruenza e si ancorava con radici profonde in un istante e per sempre? Era un padre ora. Stella era già una madre prima, ma lui padre lo stava diventando solo adesso. Si chiese se anche lei, nel vedere quella creatura piccola e rosa stesse provando, con altrettanta intensità, quello che provava lui.

La stretta di lei nella sua mano si era fatta più molle, lui la guardò. Stava piangendo, non il pianto disperato di dolore di poco prima, un pianto sereno, un pianto che nutre e disseta.

E Stella vide la sua bambina, per la prima volta, fuori da sé, e la riconobbe. Era davvero la parte buona di lei. Aveva ancora nel cuore un'immensa paura, ma era anche colma di un sentimento nuovo e così potente da poter fronteggiare ogni timore. Era quindi questa la magia che né Stolas, né Paimon, né suo fratello, né nessun uomo potevano compiere? Ed era questo il legame di cui tutti parlavano?

Lei non era più dentro il suo ventre, ma sarebbe stata con lei per sempre, indissolubilmente, legata da un filo invisibile e inviolabile. E se prima aveva sentito solo dolore, solo fatica, ora la invadeva una calma irreale, e negli occhi luminosi della sua bambina ritrovava sé stessa, e tutte le cose buone che credeva di avere perduto: la gioia, l'innocenza, la speranza.

E anche Stella, come Stolas, sentì il petto pervaso da un calore profondo, quasi doloroso, potente e impossibile da descrivere a parole. Era dunque quello, l'amore?

"Datemela...la mia bambina..." sussurrò Stella "...mettetemela qui... vicino al cuore."

Gliela misero in braccio, sul petto, lei la avvolse. Cercò la mano di Stolas e la trascinò con sé in quel primo abbraccio. Un singhiozzo liberatorio invase la stanza.

"Stols" gli disse allora con un tono morbido e commosso che lui non le aveva sentito mai "Guardala. È perfetta."
"Sì, lo è." rispose lui, la sua voce era appena un sussurro.
"Stols... l'abbiamo fatta noi. Come può essere così perfetta?" Emise un altro piccolo singhiozzo strozzato "Noi siamo così imperfetti... così incompleti."
"Lo sai, Stella, due metà fanno un intero." le baciò di nuovo la fronte e poi le si mise accanto nel letto, e lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Sospirò. La bimba ancora sul suo petto, la mano di Stolas sulla sua, ad avvolgere quella creatura piccola e fragile, e preziosa.

Qualcosa di bello, qualcosa di buono, è una magia, e l'ho fatta io. Pensò Stella, sentendo quel calore nuovo riempirle il cuore. Ho ancora paura, ma per te sarò coraggiosa, piccola mia.

"Hai già in mente un nome?" le domandò il principe.

"Octavia." disse Stella senza esitazione.

"Oh." fece Stolas inclinando la testa, come a volerne scrutare il motivo.

Lei si ammutolì e abbassò gli occhi "Hai ragione, Stols, forse è sciocco."

Lui le fece una carezza. "Non è sciocco... mi chiedevo come ti fosse venuto."

"Sai..." Stella esitò, soppesò le parole per provare a spiegarglielo "...lei è voluta nascere adesso, all'ottavo mese. Non voleva aspettare, era impaziente di vedere il mondo, impaziente di vivere la sua vita. Voglio che il suo nome ricordi in qualche modo la sua nascita, che sia legato al momento in cui è venuta alla luce. Voglio che il suo nome le appartenga, pienamente, così che il suo futuro sia una pagina bianca, così che lei possa scegliersi il cammino che desidera... che sia libera, curiosa, impaziente, affamata della vita, come ha dimostrato di essere nascendo "troppo presto"."

Le labbra di Stolas si piegarono in un sorriso. Lei arrossì violentemente.

"Vedi? È sciocco." disse.

"No. Non lo è. È meraviglioso."

"Allora, Octavia?"

"Oc-ta-via." Stolas scandì il nome a fior di labbra. "Ciao, Octavia" sussurrò poi rivolto alla bimba "Sarai la nostra Via."

***

Andrealphus si risvegliò sul divano del salotto.

"Stella! Dov'è? Mia nipote! È nata?"

La servitù lo informò che la principessa Octavia era nata qualche ora prima, che era in piena salute e che era in stanza coi neogenitori.

Lui percorse il breve corridoio che lo separava dalle loro stanze e si affacciò alla loro camera: li vide così, con Stolas vestito di tutto punto sopra la coperta, e Stella sotto le coperte, nella vestaglia coi fiori di campo ricamati sopra, con la testa appoggiata sulla spalla del principe; e lui con la testa inclinata su quella di lei, e la loro bambina avvolta in una copertina rosa tra le braccia di Stella, addormentati.

Sentì una punta di calore invadergli il petto, e una punta di malinconia. Non era il suo posto e non era il momento. Richiuse la porta senza fare rumore e andò via.

Notes:

Lo avevo detto, niente uova qui, solo il classico pancione con parto annesso. Spero non li abbiate immaginati come pennuti in queste scene, in tal caso chiedo scusa per il trauma xD

Eh sì, finalmente è nata Octavia! "Troppo presto", ma forte e in piena salute, e i due sposi, ora genitori, hanno scoperto qualcosa di nuovo, qualcosa di potente e meraviglioso: l'amore incondizionato.
E Andrealphus, per una volta, ha saputo rimanere al suo posto, lasciando questo prezioso momento a coloro i quali appartiene davvero.

L'eclissi infernale nel momento in cui Via viene alla luce e le sensazioni provate da Stolas sono un libero adattamento della versione estesa di "You Will Be Okay":

«The day that you arrived the sun went black
An artificial night
You came and stole away the light
And put it in your eyes
[...]
I thought that I knew all the moons
But then you pulled me back to one»

Perdonate l'ovvietà "ottavo mese-Octavia", ma ho un piccolo debole per i nomi parlanti, e non ho resistito.

Octavia arriva, con la sua perfezione di bambina, da questi due imperfetti e "incompleti" genitori, e gli equilibri, già fragili e conquistati con fatica, andranno ripensati ancora una volta. Tanto lavoro attende questa famiglia, ma per ora, come Andrealphus, allontaniamoci in punta di piedi e lasciamoli riposare.

Ci vediamo al prossimo capitolo!

- Armilla Lunastorta.

Chapter 20: Crescere insieme

Summary:

Avere dei figli significa vederli crescere, ma significa anche imparare a crescere insieme a loro.
Tante cose hanno da insegnare i genitori e altrettante devono impararne.
Come a capire perché un figlio piange, o che cosa lo fa sorridere.

E crescere insieme significa anche imparare ad essere coppia dopo l'arrivo dei figli. Ma chi, come loro, coppia non lo era già prima, ha forse un sentiero più tortuoso da percorrere.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Crescere insieme

 

Stella stava in piedi al centro della nuova cameretta, in un abito morbido, con un seno scoperto e con Via in braccio che non accennava a smettere di piangere, la dondolava leggermente spostando il peso da un piede all'altro.

Anche lei, in verità, avrebbe voluto piangere; si sentiva un'incapace, e quasi rimpiangeva di aver detto alle balie e alle cameriere di "stare lontane da sua figlia" e che "ci avrebbe pensato lei". Ma adesso era lì, con la bimba che piangeva inconsolabile, che non dava segno di volersi attaccare per la poppata.

"Via tesoro... Ti prego, ti prego... fallo per la mamma..." sussurrava in un lamento.

Era nel panico. Lo ammetteva candidamente a sé stessa e lo avrebbe ammesso a chiunque, tanto era evidente. Ma poi la bambina aveva fame davvero? O piangeva perché aveva sonno, o perché aveva freddo? Oh, non riusciva a capirlo. Non ci capiva niente. Perché era così difficile? Sedette sul tappeto, con la bimba ancora tra le braccia, e si mise a piangere anche lei. EccoLo sapevo. Non sono fatta per essere madre. Non capisco nemmeno cosa vuole la mia bambina.

"Stella ma che-" Stolas aveva sentito la bimba piangere ed era accorso. A dire il vero era appena tornato dall'Accademia. C'era stato tutta la notte: qualcosa su un insolito allineamento delle stelle, o una variazione dei punti fissi per una profezia, Stella non ne aveva idea, non ci aveva capito niente. Ma così, a passare da sola la notte intera e l'intera mattina, aveva avuto il tutto tempo per sentirsi una madre inetta e farsi fagocitare il cervello dalle paranoie.

Lei rivolse il viso verso Stolas, e lui la vide con le guance rigate di lacrime e gli occhi cerchiati di nero. Si chinò a prendere la bambina tra le braccia e sedette con le gambe incrociate accanto a lei. Via piangeva ancora.

"Non si attacca. Non mangia. E piange. Non fa che piangere qualsiasi cosa faccia. Il problema sono io. Oh, sono io di sicuro." disse lei, e nascose il viso tra le mani, emettendo piccoli singhiozzi disperati.

A dire la verità nemmeno Stolas ci stava capendo nulla, forse ancora meno di quanto ci stesse capendo lei. E poi, ogni volta che teneva in braccio la bimba, aveva il costante timore di romperla. Gli sembrava troppo fragile, troppo piccola, e lui si sentiva un totale imbranato. Anche adesso, mentre la reggeva, era in allerta, come ad impedire al suo corpo di perdere la presa, o di fare troppo forte.

Vedere così Stella lo riempiva di preoccupazione, perché era sempre stata lei quella che sapeva cosa fare. La loro prima volta, così come la loro volta più bella aveva preso il controllo e lo aveva guidato. Lo aveva curato quando si era ferito con frammenti dello specchio. Lo aveva risvegliato dal torpore quando credeva di non farcela. E se lei, che sapeva sempre come gestire tutto o, se non lo sapeva, si buttava lo stesso senza paura, non sapeva come comportarsi... come avrebbe potuto saperlo lui?

"Stella... Tu non... Non devi sapere fare tutto per forza." le disse, forse anche per rassicurare sé stesso.

Stella lo guardò con due occhi colmi di disperazione, si alzò in piedi e le sfuggì un singhiozzo incontrollabile.

"Io devo saperlo fare." Gridò. Era un rantolo, una ferita aperta "Io sono qui in questo matrimonio solo per questo, lo capisci? Se non so farlo... Oh se non so farlo..." si morse le labbra per la frustrazione "Dovevo essere bella. Lo sono stata. Dovevo essere la tua dannatissima spendente moglie. Ho sprecato l'infanzia e la giovinezza a imparare milioni di cose che non importano a nessuno. La musica, il canto... Oh, e la danza... La maledettissima danza. L'ultima volta che abbiamo danzato è stato al nostro matrimonio. Ai banchetti sei voluto restare al tavolo o a fare tappezzeria, e io con te. E le costellazioni. Conosco a memoria il dannato firmamento perché avrei dovuto intrattenere con te conversazioni coltissime... e a stento ci parliamo."

Provò ad asciugarsi le lacrime col dorso della mano, ma continuavano a rigarle le guance senza sosta.

"E ora guardami. Non sono più nemmeno così bella. Guardami! Sono pallida come un morto, con le occhiaie che non riesco a coprire nemmeno con dieci strati di trucco. E il mio corpo è un disastro. E, come se non bastasse, sono coperta di vomito."

Fece un gesto plateale con le braccia per indicare il vestito macchiato.

"Abbiamo una figlia e devo fare l'unica cosa che nessuno si è mai degnato di insegnarmi. È una cosa che non si insegna e non si impara, una cosa spontanea, dicevano!" si strofinò la nuca nervosamente "E se non mi venisse spontaneo? Se non sapessi farlo?"

Non riuscì a riprende fiato tra i singhiozzi e tossi, provò ancora ad asciugarsi gli occhi, ma continuava inesorabilmente a piangere.

"Non so fare le cose più semplici. Non capisco cosa voglia la mia bambina da me... È stato tutto inutile. Tutta la mia vita per essere la moglie perfetta di un uomo a cui non importa un fico secco della perfezione..."

Stolas aveva negli occhi uno sguardo costernato. Lui non aveva chiesto che lei sapesse fare nessuna delle cose che aveva elencato, lui non aveva nemmeno chiesto quel matrimonio. Non aveva chiesto una moglie. E non aveva chiesto che fosse perfetta. Paimon lo aveva chiesto. Paimon aveva richiesto una precisa educazione. Paimon aveva deciso come voleva gli confezionassero la moglie. Perché se la prendeva con lui? E adesso cosa c'entrava tutto questo con la loro bambina?

"... se ora non so fare nemmeno la madre, Stolas, a cosa è servito tutto questo?"

"Stella...nemmeno io so come si fa."

"Da te nessuno si aspetta niente." disse lei tirando su col naso "E nonostante questo, sei comunque più bravo di me." Scosse la testa "Guardala, non piange più."

"Non è una questione di bravura... Lei...Oh Stella, per favore. Certo che sai fare la madre. Hai avuto il coraggio di dire in faccia a mio padre che questa bambina è più importante di lui o del suo potere. Quando l'ho saputo me la sono fatta sotto al tuo posto."

A lei scappò una risata tra le lacrime.

"Adesso..." disse Stolas rimettendosi i piedi lentamente, e adagiando delicatamente Via nella culla "...adesso io resto qui, e se avrà fame andrà bene un biberon. E se avrà freddo la coprirò, va bene? E ora va' a riposare, fai un bagno se ne hai bisogno, e dormi; sei stata sveglia tutta la notte, tocca a me."

"Sei stato sveglio anche tu, all'Accademia."

"Me la caverò." e le fece un sorriso accennato.

"Così mi fai sentire terribilmente in colpa." mormorò lei.

"E perché mai?"

"Ho detto delle cose che -"

"Hai detto la verità, hai imparato cose di cui non mi importa. E di questo mi dispiace, te lo dico con tutta la sincerità di cui sono capace..." abbassò gli occhi, sapeva che anche se non era colpevole, era lui la causa indiretta di tutto quel dolore "All'epoca non sapevo nemmeno parlare...non l'ho chiesto io che ti venissero insegnate." disse in un filo di voce "Ma... per quel che vale, mi importa della nostra bambina, e vorrei che tu fossi serena."

Le guance di lei si fecero rosse. Accennò un sorriso e annuì.

"Vado a dormire Stols..." disse con una voce flebile e stanca "Oh e... grazie per -"

"Lo so. Ora riposati."

***

Stolas era corso nella veranda coperta, preso da un'euforia insolita. Con Via tra le braccia e sul viso un'espressione di luminosa felicità. Stella stava al tavolino, scriveva qualcosa su uno dei suoi soliti quadernini rosa e, quando lo aveva visto arrivare, lo aveva chiuso di scatto, come un'adolescente colta in flagrante col suo diario segreto.

Ma Stolas nemmeno se ne era accorto. Era tutto preso dalla bimba, e da quella gioia incontenibile che gli scoppiava nel cuore.

"Stella! Guarda!" le aveva detto rivolgendole uno sguardo meravigliato e impaziente.

E poi aveva creato un piccolo portale che mostrava uno spicchio di cielo stellato e, a quella vista, Octavia aveva piegato la boccuccia all'insù, e i suoi occhi si erano fatti vispi, e aveva emesso quello che sembrava proprio il suono di una risata.

Stella aveva spalancato gli occhi, e si era portata una mano alla bocca, per lo stupore e per la commozione.

"Ride!" e aveva sorriso anche lei, un sorriso aperto e luminoso. "Stolas! Ride!"

Stolas aveva sul viso un'espressione gioiosa e infantile di bambino.

"Ride. Sarà una bimba felice."

E Stella si sentì stringere il cuore nel vedergli negli occhi quella luce innocente, e nel vedere il modo in cui mostrava a Via le scintille dell'universo facendole apparire come un gioco.

"Siete bellissimi" disse allora, e riempì Via di carezze e di baci, e poi senza pensarci, ne posò uno piccolo e lieve all'angolo della bocca di Stolas. Lui sussultò, e un lieve rossore gli colorò le guance.

"Oh. Scusa." Disse lei, coprendosi la bocca "Volevo... cioè... sulla guancia."

Stolas si fece solo più rosso, e annuì. "Certo, sì."

"Oh, andiamo! Dovremmo averlo superato, l'imbarazzo, non credi?" disse lei, indicando la bambina.

Stolas le sorrise. Era vero. Che imbarazzo poteva generare un bacio sulla bocca, se avevano una figlia insieme? Eppure, una barriera invisibile restava a separarli, e appariva, nei momenti peggiori, spessa e pesante come pietra o, nei migliori, sottile e labile come carta di riso.

***

"Stoooools!" la voce di lei era un grido squillante "Vieni a vedere!"

Stolas era sbucato da un portale, le tre stanze che li separavano dalla cameretta di Via erano decisamente troppe per quell' urgenza.

"Non ci crederai Stols!" fece Stella impaziente ed emozionata come una bambina. Se ne stava accucciata con le braccia aperte.

"Vieni dalla mamma amore mio!" disse poi rivolta alla bimba. E Octavia si mosse verso di lei gattonando, e la raggiunse in un baleno, era così buffa, e così vispa.

"Brava la mia bimba!" esclamò lei prendendola in braccio.

Stolas fu preso da un moto di commozione, e i suoi occhi brillarono di quella luce che solo la presenza di sua figlia sapeva accendere.

"Oh... gattona! Ci distrarremo un attimo e la vedremo correre!"

"Che corra, Stols! Che sia libera! Non vedo l'ora."

***

C'era silenzio nella penombra della cameretta di Octavia, Stella si era fatta portare una poltroncina ampia, meno formale e più comoda di quelle che c'erano nel resto del palazzo, e ora stava lì, di nuovo da sola, con Via.

Stolas continuava a girovagare tra l'Accademia, l'Osservatorio, i festival del raccolto, l'Assemblea, e mille altri posti misteriosi che lei non avrebbe dovuto conoscere. Continuava a sparire all'improvviso perché qualcosa non andava nell'asse di un pianeta, nel moto di una stella, perché il cosmo mandava un segnale che andava interpretato. E ricompariva ore dopo, o il giorno dopo, da portali aperti in qualsiasi luogo della casa. Iniziava a sentirsi sola e, in qualche misura, iniziava a sentire la mancanza di lui. Prima che fosse Guardiano era sempre intorno, e almeno, quando il silenzio si faceva troppo pesante e opprimente, aveva qualcuno con cui scambiare una parola.

Intonava a mezza bocca una melodia lieve, mentre lasciava oscillare dolcemente la culla a dondolo dove stava Octavia, sovrappensiero. Sto dimenticando la mamma. Quel pensiero le aveva inondato la mente all'improvviso, come un fluido velenoso e dolce. Cantava per me, questo lo ricordo. Ma non riesco ad afferrare il suono della sua voce, mi sfugge nel buio della memoria. Una punta di risentimento ora le attraversava il cuore, e poi paura, paura di non essere abbastanza forte, paura di non essere abbastanza madre per Via. Lei era debole. Debole. Io non posso esserlo. Poi il volto di sua madre riaffiorava ai suoi occhi come in un sogno. Lei era bella, delicata come un soffione, una folata troppo forte e si è lasciata disgregare nel vento. Chissà se si è perduta, o frammenti di lei vagano ancora per questo mondo come polvere di stelle. Ora guardava un punto fisso nel vuoto chiedendosi cosa sarebbe diventata se lei le avesse concesso solo un po' di tempo in più, solo un'altra carezza, solo un altro sorriso, solo un'altra canzone. Il cuore stretto nel petto, nel silenzio la sua stessa melodia intonata sottovoce.

"Mmm- mmm-" mormorò Via. Lei trasalì.

"Cosa c'è, amore mio?"

"Mmm- a" esclamò la bimba porgendole le braccia.

Stella trattenne il fiato. "Vuoi la mamma, amore?" sussurrò, ma era un sussurro squillante, colmo di trepidazione.

"Mam-ma"

Stella sentì il petto gonfiarsi di un'emozione incontenibile, e di una punta di dolce malinconia. Si guardò intorno cercando di capire se fosse sola, se avesse solo capito male, se lo avesse solo immaginato.

"Hai detto mamma, amore mio?" domandò alla bimba. La prese in braccio, le accarezzò la fronte con due dita.

"Mamma" ripeté Via.

Oh. Aveva sentito bene. Sentì le lacrime riempirle gli occhi.

"Sì amore, amore, sono la mamma!" era una gioia così intensa da farle quasi male. Le riempì le guance di baci, non avrebbe mai creduto che una parola potesse essere un regalo così grande e prezioso.

Oh, quando lo dirò a Stolas! Pensò, e si immaginò già quel sorriso innocente comparirgli sul viso, e gli occhi grandi brillare di emozione. E il risentimento per l'assenza di lui si mitigò pian piano, fino a scomparire, nell'eco di quel "mamma" pronunciato con tanta insistenza dalla vocina squillante della loro bambina.

***

Stolas si era sfilato la camicia e stava in piedi, chinato sul comò a rovistare nei cassetti alla ricerca di un pigiama pulito. Ormai si erano visti svestiti milioni di volte, e quasi non ci faceva più caso, ma quella sera, quando Stella lo vide spogliarsi nella penombra, distratto, e girare per la camera; anche se era goffo e così magro da sembrare una canna di giunco, sentì le guance avvampare e un noto calore accumularsi alla base dello stomaco.

Lui le si infilò accanto nel letto, e sentire il tepore del suo corpo le diede un brivido. Stolas le accarezzò un braccio per attirare la sua attenzione, e quel tocco lieve irrorò quel calore dallo stomaco al petto e alle guance.

"Ti disturbo, se leggo?" domandò lui, accendendo la piccola lampada sul comodino.

Stella trasalì.

"Eh? Ah... no. Fa' pure."

Serrò gli occhi per scacciare i pensieri che iniziavano a invaderle la mente. Si girò su un fianco, dandogli la schiena, e provò a prendere sonno. Ma quando chiuse le palpebre rivide Stolas, mezzo svestito, nella penombra. E Stolas illuminato dalla luce delle stelle sulla collina, e Stolas con le guance arrossate, sotto di lei, sul divanetto del salotto da tè, e le sue dita sottili, e il suo tocco lieve, e le sue labbra calde sulla pelle e... Maledizione. Maledizione. Riaprì gli occhi di scatto. Sospirò. Si rannicchiò di più su sé stessa.

"Stols...?"
"Mh?"
"A te non manca mai?"
"Che cosa?"
"Sai..." Non sapeva come dirlo, e non voleva dirlo così."...fare l'amore. Insomma. Il sesso. Quello che è." mormorò infine a mezza voce.
Lui arrossì, e si sentì invaso da un profondo disagio.
"Io... Non... Non credo di averci pensato."
"Oh."
"Pensavo che non... insomma... dopo Via..."
"Sì. Hai ragione." fece lei facendosi rossa "Lasciamo stare."
"Oh. Sì. Già."
"Notte Stols."
"Notte."

Notes:

Poco altro ho da dire, se non che, in qualsiasi momento della vita, con figli o senza, da soli o in coppia, nei piccoli e nei grandi cambiamenti, siamo solo noi a scegliere chi e cosa vogliamo diventare.

Un abbraccio a tutti voi che mi leggete. E sempre grazie.
La bonaccia non dura per sempre, all'orizzonte c'è vento di tempesta.

- Armilla Lunastorta

Chapter 21: Una bambolina per la mia bambina

Summary:

Al compleanno di Octavia vecchi nemici bussano alla porta. Tra i doni d'amore, arrivano doni macabri e inquietanti. Scopriamo cosa è successo alla madre di Andrealphus e Stella.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Una bambolina per la mia bambina

 

 

"Si può sapere dove diavolo ti eri cacciato?" Stella trascinò Stolas per un braccio verso le loro stanze. "Sì può sapere che cosa c'era di più importante del primo compleanno di tua figlia?"

"Sono arrivato in tempo. Non capisco perché ti agiti così." provò a giustificarsi lui, mentre si toglieva la stupida toga che indossava agli incontri dell'Accademia.

"Se non vi mascheraste per giocare a fare gli intellettuali saresti già stato pronto." Si lamentò Stella.

"Non è una maschera è una..." le vide negli occhi un lampo d'ira "...lasciamo stare, vuoi solo litigare."

"Vestiti. Voglio solo sapere dov'eri finito."

"Lo sai che non posso parlartene, sono-"

"-i segreti dei Guardiani. Fottiti Stolas. Ti giustificherai così anche quando avrai un'amante?"

"Io non avrò un - " si massaggio le palpebre con il pollice e l'indice "Lo vedi che vuoi litigare?"

"Ho detto che non voglio litigare. È il compleanno di Octavia." Fece lei, nella voce una punta di irritazione. "Solo...sei in ritardo. Mi hai lasciata da sola. E Via era agitata. Lo sai che non le piacciono gli sconosciuti. Mi sono anche macchiata il vestito per mandare in giro i camerieri a ubriacare i nostri ospiti. Dovrò cambiarmi."

Stolas aveva finito di abbottonarsi la camicia bianca e il gilet blu-violetto. Ora si stava sistemando i gemelli sul polsino destro.

"Mi dispiace. Va bene? Ti basta?"

"Devo farmelo bastare a quanto sembra." rispose Stella, sdegnosa, mentre si infilava un abito malva, dall'ampia gonna di tulle, col corpetto che le alzava i seni e ne adornava la schiena in un intreccio di nastri. "Ora allacciami il vestito, per favore."

"Non dovresti farlo fare a - "

"Maledizione Stols, è tardi. Allacciami il dannato vestito."

***

In verità la festa, a parte la falsa partenza dovuta al ritardo di Stolas e al non-litigio che avevano avuto, sembrava stare andando bene. Gran parte degli invitati erano genuinamente felici di festeggiare la piccola principessa, e questo, per un evento di Goetia, era perlopiù una novità. Paimon non si era presentato e, contrariamente a ciò che avevano pensato gli ospiti, per Stella era stato un sollievo. Che non si curasse di sua figlia era il regalo più grande che potesse farle, delle apparenze, in quella circostanza, non le importava nulla.

Il salone era adornato in modo semplice e allegro, con i fiori dai colori vivaci che aveva scelto Stolas, e le tovaglie di seta i cui ricami ne richiamavano le tonalità variopinte. La trovata dei colori era stata di Stella, non sopportava l'idea di quei compleanni impomatati in cui tutto era fatto più per il compiacimento degli adulti, che per la gioia dei bambini.

Se prima se l'era presa con Stolas era solo perché quel traguardo della loro bambina la riempiva di emozione e, in qualche modo, aveva sperato di poterlo vivere come una famiglia felice. E non era un autoinganno, in qualche modo che non avrebbe saputo spiegare, lo erano davvero. Sì, forse erano una coppia infelice, ma quando c'era Via si illuminava tutto di una luce diversa e, magari, nel tempo, avrebbe saputo tollerare quell' infelicità coniugale, in cambio di quei momenti di armonia familiare che la loro bambina riusciva a regalarle.

Un anno. Stentava a crederci. Era cresciuta. Gli occhietti vispi che esploravano il mondo, una curiosità naturale che le brillava dentro le pupille. Era una bimba intelligente e vivace, e questo la riempiva di gioia. Era tutta uguale a Stolas, ma aveva i suoi occhi, e anche questo era motivo di orgoglio per lei.

Ora Stella teneva in braccio Via, la avvicinava ai fiori che sembravano incuriosirla. Chiacchierava con gli ospiti con una naturalezza che mai aveva avuto. Non doveva fingere, era sinceramente felice di essere lì. E l'unica cosa che aveva nel cuore era una gioia semplice, e la riversava nei discorsi che echeggiavano nel salone. Ora era Stolas a tenere Via, a giocare con lei, a intrattenere discorsi con gli ospiti.

Solo un evento aveva rischiato di turbare la serata, ma era caduto nel vuoto come qualcosa di insignificante.

Mentre Stolas chiacchierava con un paio di cugini, nell'aria era echeggiato un "ciaff" e la voce di Stella, colma di disprezzo, aveva ordinato:

"Portate via questa feccia da casa mia."

Un visconte, con cinque dita stampate in faccia, era stato scortato fuori nell'imbarazzo generale.

"Che- che è successo?"

"Niente. Solo un uomo inutile." Aveva risposto Stella riacquistando compostezza "Non vale la pena perderci tempo."

A Stolas era parso di cogliere negli occhi di lei una punta di amarezza, ma Stella era già tornata a sorridere e aveva fatto approntare un angolo in cui avrebbero potuto scartare i regali con Via.

Desiderava ardentemente che fosse un momento gioioso. Anche se Octavia non lo avrebbe ricordato, lo avrebbero ricordato loro, e avrebbero potuto raccontarglielo. Lei non aveva che qualche memoria spezzata e frammentaria della bimba che era stata, e molti non erano ricordi felici, e voleva poter dire a sua figlia, quando fosse stata più grande, qualcosa come: Lo sai, al tuo primo compleanno c'erano tutti coloro che ti vogliono bene, ed erano felici di festeggiarti." O ancora "Tu non lo ricordi, ma tuo padre ha scelto per te i fiori più belli, e tu indossavi un vestito sbarazzino che rendeva i tuoi occhi più luminosi di quanto già non fossero."

Perciò non c'era stata cerimoniosità nel momento dei regali, solo un momento condiviso di infantile curiosità, con Stella che teneva Via sulle ginocchia e Stolas che scartava i pacchetti elegantemente incartati. O con Via che stava in braccio a Stolas, e provava a staccargli la catenella del gilet, e Stella che apriva i cofanetti intarsiati. E si alternavano doni leggeri, fatti per far giocare la bimba, a doni preziosi, che avrebbero custodito e che sarebbero entrati a far parte della sua storia.

"Perdonate il ritardo."

Una voce flebile e roca si levò dalla folla. E gli ospiti si voltarono a guardare l'ingresso del salone, adesso un silenzio carico di tensione invadeva l'aria, rotto solo dal ticchettio di un bastone sul marmo e dal rumore di passi trascinati.

Stella si fece pallida, strinse a sé Octavia, guardò Stolas con due occhi grandi colmi di smarrimento. "Chi lo ha invitato?" le sussurrò il principe "Perché tuo padre è qui?"

"Il mio invito dev'essere andato smarrito." continuò il Marchese "Ma non mi sarei mai perso il primo compleanno di mia nipote."

Andrealphus si sentì percorso da un fremito lungo la spina dorsale ed ebbe la sensazione che quella ferita ormai vecchia e guarita, di cui restava solo un lembo di pelle inspessita, tornasse a bruciargli senza ragione. Un anno, e qualche mese. Non ne avevano notizie da allora. Si era ritirato dalle loro vite, e decideva di presentarsi quel giorno.

"Padre."

"Andrealphus." Il Marchese strinse gli occhi in una fessura.

"E...Vostra Altezza, e... Stella, figlia mia." il Marchese esitò. "E mia nipote, la mia bambina."

"Octavia. Principessa Octavia." lo corresse Stella. La mascella rigida, la bambina stretta al petto, il cuore che le batteva all'impazzata. Erano in pubblico. C'era gente. Non avrebbe fatto del male a lei, né a nessun altro. E poi... era passato un anno. E lei non aveva fatto niente che potesse averlo fatto arrabbiare.

"Octavia." Ripeté suo padre in quella voce roca "Ho portato un regalo."

Camminava a fatica. Doveva essere in uno dei suoi momenti di particolare debolezza.

"Non mi porgi il braccio, figlio mio?" disse il Marchese guardando Andrealphus e lui, come un automa, avanzò verso il suo vecchio padre, e gli porse il braccio per reggerlo. Stella gli lanciò un'occhiata di disapprovazione.

Il Marchese appoggiò sul tavolo una scatola rosa, con un nastrino bianco. Stella passò a Stolas la bambina, e lui la prese in braccio e la strinse a sé. Aveva il fiato che gli moriva in gola.

Con tutti gli occhi puntati addosso ora aveva il timore che un gesto, una parola, uno sguardo di troppo potessero generare nel Marchese una reazione inopportuna, o qualcosa di peggio.

Stella sentiva i palmi delle mani sudati, ed era percorsa da un leggero tremore; odiava l'idea che qualcuno tra gli ospiti potesse accorgersi che una sottile paura le stava invadendo le membra. Sciolse esitante il fiocco che teneva insieme il nastro bianco, e sollevò il coperchio della scatola rosa, e là, dentro la scatola, stava una bambola di stoffa. Con la lana al posto dei capelli, e un piccolo cuore ricamato sul petto. Aveva un aspetto familiare, ma non riusciva a riportare alla memoria di cosa si trattasse. Sentiva l'animo pervaso da una sensazione dolce e inquietante insieme. La prese tra le mani e la estrasse dalla scatola per guardarla meglio, si accigliò: era qualcosa di noto che non riconosceva.

Andrealphus vide sua sorella, con quella bambola di stoffa tra le mani, e fu colto da un fremito incontrollato.

Le bambole della mamma.

E rivide il profilo giovane, quasi adolescente, di sua madre, seduta alla finestra, con la luce del giorno che irrorava le stanze di lei. E le sue mani piccole, quasi di bambina, dalle dita magre, che ora ricamavano un cuore sul petto della bambola, ora le dipingevano gli occhi con un pennello dalla punta sottile. E sua madre con la bambola in grembo e lo sguardo perduto a guardare il mondo fuori, a ricercare chissà quale infinito oltre i giardini e i cancelli del loro palazzo. E, di tutte le bambole che aveva cucito, non ne aveva più vista nessuna dopo la sua morte. Loro padre aveva deciso che averle intorno non avrebbe giovato all'umore dei bambini. E lo stesso destino avevano avuto tutti i frammenti di lei. Aveva fatto chiudere le sue stanze, sbarrare le finestre così che non entrasse più la luce, coperto il divano e la sedia a dondolo. Aveva fatto ammucchiare i suoi vestiti in grossi bauli di legno, dimenticati anch'essi in quelle stanze ormai buie e disabitate. Così, piano piano, la presenza di lei aveva lasciato il resto della casa, relegata nell'oscurità dell'ala chiusa del palazzo.

Andrealphus sentì le mani gelate e percorse da un formicolio, e un grumo di bile gli salì per la gola bruciando come veleno. Aveva la sensazione di poter perdere i sensi da un momento all'altro.

Perché Stella non dice niente?

Guardò sua sorella, e lei cercò negli occhi di lui una risposta che non seppe trovare.

Non la riconosce. Era piccola. Troppo piccola. E papà le ha fatte sparire dopo che la mamma... Ma perché portarla qui? Perché adesso? Lei nemmeno lo ricorda.

Era una minaccia? Un avvertimento? E per chi? Per Stella o per lui? E cosa avrebbe dovuto significare?

Stella teneva ancora in mano la bambola, indecisa su cosa dire o cosa fare. La attanagliava il pensiero che fosse qualcosa proveniente da un tempo e un luogo lontano, un tempo e un luogo felice, e che portasse con sé l'ombra di una maledizione.

Tutti stavano zitti, la guardavano aspettandosi una reazione, un ringraziamento, almeno una parola.

"Grazie...papà." disse infine, cercando di nascondere il tremore nella voce.

"Sì, sì, grazie!" Intervenne Andrealphus, incurante di sembrare invadente e inopportuno. Strappò via la bambola dalle mani di Stella, e la ripose nella scatola, rimettendoci sopra il coperchio. "Bene, era l'ultimo regalo. Portate la torta!" ordinò come fosse casa sua.

"Ma che diavolo ti prende?" sussurrò Stella, col cuore ancora gonfio di inquietudine.

"Niente. Solo...non mi aspettavo di vedere papà.".

***

"Maledizione Stolas! Ti ho detto che non ne sapevo niente."

La festa era finita, gran parte degli ospiti era andata via, Andrealphus era sparito come al solito con la conquista della notte. Stolas teneva in braccio Via, addormentata. Percorrevano il corridoio e bisbigliavano nervosamente per non svegliare la bambina.

"Lo sai che non voglio tuo padre intorno a Via."

"Pensi che io lo voglia vicino a mia figlia? Vuoi le prove delle cose che ho passato, così sarai convinto?" Disse lei spalancando gli occhi di rabbia, ma la voce era un sussurro. "Beh, purtroppo, e per tua fortuna" aggiunse "è stato attento a non lasciare segni, non poteva rovinare la merce."

Stolas si zittì per un momento, e abbassò gli occhi pieno di vergogna. "Ma forse, tuo fratello-"

"Non osare. Mio fratello non mi farebbe mai una cosa del genere."

"Ma l'ha preso sottobraccio come-"

"- come uno che non ha una cazzo di scelta. Dovevamo dare scandalo in pubblico? Al compleanno di nostra figlia? O peggio, dovevamo farlo innervosire? Si è comportato come doveva. E anche io. E se non lo volevi, potevi cacciarlo da solo."

"Sai che non l'ho fatto per-" esitò.

"-per le stesse ragioni che ho appena detto." Completò lei al suo posto.

Ora erano nella cameretta di Via, quel litigio fatto di bisbigli continuava senza sosta, quando notarono, di fronte alla culla, una cassettiera di legno intarsiato, con i pomelli d'oro a forma di stella, e sopra, un enorme specchiera tonda, che richiamava la forma di un sole. Sulla specchiera stava appuntato un biglietto:

«Così che abbia sempre qualcuno che vegli su di lei.»

E sotto, nessuna firma, solo il sigillo di Paimon.

Stella guardò Stolas colma d'ira e di risentimento.

"Ah! E poi sarebbe mio padre il problema? Una dannata bambola contro... beh... questo. Che diavolo significa?"

"Io non ne sapevo niente!"

"Oh, beh Stols, te lo meriti, guarda quanto è bello essere accusati di cose di cui non si sa nulla!"

Stella si affrettò a trascinare Stolas al di fuori del campo visivo dello specchio, e lo guardò amareggiata e colma di paura.

"Domani questa cosa sparisce da qui." gli disse in un sussurro "E Via, questa notte, dorme nel letto con noi."

Stolas annuì. Forse avevano già fatto pace.

***

"Tesoro mio, piccolo mio, non preoccuparti per la mamma. Non è niente." Andrealphus vedeva sua madre piangere nel vestito sgualcito, coi capelli arruffati, con i lividi bluastri che le chiazzavano la pelle bianca dei polsi e delle braccia. "Tu sei un ometto ormai. Lo capisci? Non devi piangere. Non devi avere paura." e gli accarezzava le guance e i capelli con una dolcezza quasi smaniosa "Va tutto bene. Andrà tutto bene. Tu devi pensare alla tua sorellina. Devi sempre tenerla d'occhio. Lo farai? Lo farai per la mamma?" e lo baciava sulla fronte e sulle guance con baci bagnati di lacrime. E lui vedeva i suoi occhi grandi e violetti, profondi e molli, implorarlo nella penombra della sua cameretta. "Lo farai, amore mio? Me lo prometti? Sarai grande? Sarai il mio ometto? Ti occuperai della tua sorellina?" E ancora quelle carezze smaniose sui capelli, sulle guance, e quegli occhi grandissimi, pozzi di disperazione, che lo guardavano con amore, con apprensione, per l'ultima volta...

Quando Andrealphus aprì gli occhi capì che stava sognando. Il cuscino era inzuppato di lacrime, e le lenzuola sotto lui erano madide di sudore. Solo un incubo, o qualcosa di più, ricalcava il ricordo di quella notte maledetta, marchiato a fuoco nella sua mente. E così, tutto quello che aveva provato a soffocare, gli riaffiorò di nuovo alla memoria:

Era tarda sera. Ma lui non dormiva. Stella doveva essere già a letto da ore, a lei non permettevano di fare tardi. Perché era più piccola, e perché la carenza di sonno deturpa la bellezza. Il corridoio era buio e silenzioso, e lontano, nelle stanze di sua madre, si sentivano delle grida confuse, e il rumore di qualcosa che andava in frantumi. E poi quella voce roca, così nota e spaventosa, alterata dalla rabbia e dalla disapprovazione.

"Pensi che non sappia cosa sia questa roba?"

Un singhiozzare lieve riempiva l'aria in risposta. E l'eco di un sommesso "Mi dispiace." ripetuto ossessivamente come un mantra.

"Pensi che non riconosca un'erba abortiva?"
"Mi dispiace."
"Lo hai già fatto? Dimmelo!" tuonava la voce.
"Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace..."
"Parla! Rispondi."
"Mi dispiace." diceva quella voce flebile, troppo lieve "Non l'ho fatto! Era... per... per sicurezza... mi dispiace."

Aborto. Conosceva quella parola. L'aveva letta su un libro del suo maestro di scienze. Sentì echeggiare il rumore di uno schiaffo. Un lamento sommesso. E si avvicinò alla porta socchiusa. E lì, di fronte al grande letto a baldacchino, vide sua madre, pallida, in ginocchio, in lacrime, che si schermava il viso con le braccia. E suo padre in piedi, che incombeva su di lei. Per terra giacevano i frammenti di un'ampolla o un barattolo, e sparsa sul pavimento stava qualcosa di simile a fiori secchi e foglie di tè.

"Ti prego. I bambini dormono. Ti prego. Abbassa la voce." e ancora quel sommesso "Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace..."

E poi aveva visto suo padre afferrarla per i capelli e colpirla ancora sul viso, e spingerla di peso sul materasso.

E Andrealphus aveva sentito il sudore coprirgli la schiena, e il respiro mozzarsi a metà della gola, e le lacrime riempirgli gli occhi.

"Se ti chiedo un figlio." Aveva detto in un ringhio il Marchese "Tu mi dai un figlio."

E l'ultima cosa che lui aveva udito, prima di essere troppo lontano, era stata la voce flebile, così adulta e infantile insieme di sua madre che implorava tra i singhiozzi: "Ti prego. Non lo voglio. Non ci riesco."

E lui non era riuscito a fare niente, era solo fuggito via, tremante e col respiro affannato. E sua madre lo aveva trovato chissà quanto tempo dopo, rannicchiato lontano sul pavimento del corridoio, e lo aveva riportato in camera. E gli aveva detto quelle cose che continuavano a fargli eco nei sogni. E poi, quella stessa notte, si era tolta la vita, e non aveva potuto parlarle mai più.

Era riuscito a soffocare quel ricordo. A impedire che lo tormentasse in tutti quegli anni. Ma quella sera, l'aver visto Stella con quella bambola in mano, lo aveva fatto riemergere con una violenza inaudita. E con le immagini di quella notte era tornato a tormentarlo un bruciante senso di colpa.
Se fosse intervenuto, le cose sarebbero andate diversamente? Se non fosse stato solo un bambino spaventato, se avesse affrontato suo padre, se fosse stato un uomo? Se sua madre avesse pensato, per un solo momento, di non essere sola...

Ora se ne stava con la testa fra le mani, seduto sul letto, cercando di scacciare quelle immagini dalla memoria.

"Un sogno vi ha turbato?" una voce interruppe il flusso dei suoi pensieri. Ah. Già. E questo cos'era? Un barone? Cugino di terzo grado da parte della famiglia di Stolas?

"Non sono affari che vi riguardano." rispose "Mi pare che abbiamo fatto, no? Perché siete ancora qui?"

"Io... Credevo che stanotte..."

"Tornatevene a casa, Barone."

"Se permettete... sembrate piuttosto scosso, stavate piangendo, vi lamentavate nel sonno e –"

Andrealphus si voltò di scatto e gli lanciò uno sguardo tagliente.

"Chiudete quella bocca, o riempitela con altro." ringhiò "L'importante è che la smettiate di parlare."



Notes:

Va bene, la lunghezza di questo capitolo mi è decisamente sfuggita di mano! Chiedo umilmente perdono.
Mi sono quasi forzata a scriverlo, ce lo avevo in mente, c'erano cose che dovevano emergere, ma il modo o le parole non mi sembravano mai giusti.

Non si può stare tranquilli un secondo in questo dannato palazzo senza che i suoceri (ora nonni) si presentino con macabri o inquietanti regali a turbare la quiete di questa famiglia.

Qualcuno reagisca, qualcuno faccia qualcosa! Ma hanno solo vent'anni, e per il momento perdoniamo e comprendiamo la loro debolezza.

Nelle fiabe c'è un solo antagonista, qui ce ne sono tre: Paimon, il Marchese e loro stessi.

Facciamo tutti insieme gli auguri a Via, che ha proprio bisogno di un po' di serenità e protezione!

A presto. E grazie sempre di leggermi.
Vi mando tanto affetto.

- Armilla Lunastorta

Ps: Andrealphus, perdonami, sei il mio sacco da boxe letterario, e mi dispiace che sia toccato a te.

Chapter 22: Giorni buoni, giorni cattivi

Summary:

Stella aveva imparato presto che la vita con Stolas sarebbe stata scandita in giorni buoni e giorni cattivi. I giorni cattivi erano sempre uguali, quelli buoni mutavano sempre...

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Giorni buoni, giorni cattivi.

 

Stella aveva imparato presto che la vita con Stolas sarebbe stata scandita in giorni buoni e giorni cattivi. I giorni cattivi erano sempre uguali, quelli buoni mutavano sempre.

Nei giorni cattivi non c'erano parole, solo pasti condivisi, e tre baci sulla guancia: uno al mattino, al tavolo della colazione; uno a metà giornata all'ora di pranzo, e uno la sera prima di dormire. In quei giorni Stolas si chiudeva in biblioteca o nell'osservatorio per ore, e pure se andava a cercarlo, se provava a parlargli, ad attirare la sua attenzione, lo trovava assente e distante, tutto dentro sé stesso e incapace di aprirsi al mondo fuori. Nei giorni cattivi, Stolas, se lei gli chiedeva cosa avesse, rispondeva di non saperglielo spiegare e dava la colpa alla sua tendenza alla malinconia; i giorni cattivi erano pieni di incomprensioni e di non detti, pieni del peso soffocante della solitudine e delle lacrime nascoste dietro le porte chiuse. Nei giorni cattivi Stella si sentiva invasa da una rabbia sottile che l'arrendevolezza di lui non faceva che alimentare. Nei giorni cattivi non dormivano insieme, Stolas restava a leggere per tutta la notte nel salottino da tè e, siccome era già sveglio, era lui ad occuparsi dei risvegli di Via.

Nei giorni buoni, invece, ci finivano tutte le parole che non si erano scambiati in quelli cattivi. C'erano speranze e sogni per Octavia, c'era una carezza spontanea che non fosse un automatismo, c'era qualche risata per una sciocchezza sussurrata a bassa voce. C'era qualcosa di simile all'affetto e qualcosa che somigliava ad una singolare amicizia. Nei giorni buoni c'erano le uscite al parco con Via. C'erano i giochi improvvisati seduti sul tappeto nella sua cameretta. C'erano le gonnelline con le stelle, le mollettine per capelli. Nei giorni buoni c'era qualche complimento e una casta intimità dettata dall'abitudine. Nei giorni buoni non c'erano rabbia né malinconia. Nei giorni buoni dormivano insieme, e lei si alzava di buon grado se sentiva piangere Octavia, perché sapeva che poi non sarebbe tornata in un letto vuoto.

Dopo il primo compleanno di Octavia si erano susseguiti un insolito numero di giorni buoni.

Forse perché Via aveva dormito per un po' nel letto con loro. Forse perché Stolas aveva sviluppato un istinto di protezione per sua figlia che, di riflesso, faceva sentire protetta anche lei. Forse perché la bambola, alla fine, non aveva portato nessuna maledizione, o forse perché lo specchio era stato da tempo coperto e gettato in cantina. Stella non lo sapeva, e comunque non le importava, voleva solo che a un giorno buono ne seguisse un altro e un altro, e che quella tregua durasse il più possibile.

E così ora riusciva a godersi i momenti con Stolas e quasi non si annoiava nemmeno più nell'ascoltarlo parlare di una rara specie di pianta carnivora che era riuscito a coltivare nella serra; e aveva addirittura rispolverato qualche vecchia conoscenza di astronomia, per poter stare dietro ai suoi discorsi sul moto delle stelle.

E poi, nei momenti che passavano tutti e tre insieme, aveva riscoperto un piacere che le era stato tolto troppo presto: quello del gioco e della fantasia.

Così le favole non erano state più solo appannaggio della sera, non più solo conciliatrici del sonno, ma le stanze del palazzo si riempivano di storie, e delle loro voci che ora imitavano una strega, ora una fata, ora un mago, ora un cavaliere; e di toni ora colmi di pathos e trepidazione, ora distesi e pieni di gioia.

E risuonava la voce di Stella che diceva, imitando il tono impavido dell'eroina:

"Puoi anche imprigionarmi, malvagio Re, ma chi è davvero libero lo rimane anche in catene!"

"Ma... non era così la battuta!" si lamentava Stolas.

"Ah no? E com'era?"

"Era: chi è davvero innamorato lo rimane anche in catene!"

"Bah, ma così è una stronzata!"

"Stella! Il linguaggio! C'è Via!"

E Stella rideva e si voltava verso Via e le diceva con una vocina buffa: "Non pensi anche tu che sia una stronzata, amore mio?" e Via rispondeva a sua volta ridendo.

E bastava che Octavia facesse un cenno o una risata, che Stella rivendicava ragione.

"Vedi? La pensa come me! Quindi procediamo con la libertà!"

"Ma così dobbiamo inventarci daccapo tutta la storia."

"E allora Stols? Con tutto il tempo che passi a leggere perso nel tuo mondo, avrai un bel repertorio da cui attingere."

E dopo ogni lieto fine restava il suono delle loro risa e della vocina di Via che ogni tanto ripeteva una parola nuova, come "tontata" per esempio.

Dunque, giocavano, e si raccontavano storie. E sognavano, nei modi più disparati. E c'erano storie d'amore e storie di libertà, e mille avventure in mondi lontani. C'erano mostri e c'erano draghi, e c'era sempre, alla fine, il modo per sconfiggerli. C'erano viaggi che portavano lontano, e c'era sempre la strada del ritorno a casa. E, quanto a loro, erano più bambini allora, insieme alla loro figlia, di quanto non lo fossero mai stati quand'erano piccoli davvero. Anche per questo il gioco era un momento sacro e prezioso, una seconda possibilità, da trattare con cura.

Ma nei giorni buoni c'erano anche le uscite tutti assieme. Avevano promesso a loro stessi, ognuno tacitamente e senza rivelarlo all'altro, che Via non sarebbe cresciuta confinata tra le pareti del palazzo, come era accaduto a loro. E, anche se non se lo erano rivelato, avevano finito per capirsi. Così, nei giorni buoni, portavano Via nel mondo. E ad Octavia sembrava piacere, perché guardava ogni cosa curiosa e attenta.

Stolas aveva questo ricordo di bambino: era in una serra fiorita, immerso nel tepore e in una varietà di piante esotiche e misteriose, e sopra la sua testa turbinavano una miriade di farfalle. Desiderava tanto tornare in quel luogo e, cosa più importante, voleva mostrarlo a sua figlia.

Così era andato a bussare alla porta dell'unica persona che avrebbe potuto attribuire a quel ricordo un luogo specifico. Si trattava del vecchio imp che lo aveva cresciuto, con cui aveva condiviso i momenti più spensierati e felici dell'infanzia.

Il vecchio aveva aperto la porta e si era trovato davanti un principe adulto, vestito di tutto punto, coi guanti e il mantello, al posto del bimbo impacciato che ricordava. "S-signorino? Siete voi?"
E Stolas aveva esitato, realizzando solo in quel momento che era piombato lì senza avvisare.

"Sì... io... scusa se compaio senza- " ma era stato interrotto da un abbraccio stretto e sincero, e quel contatto gli aveva riempito il petto di un dolce calore.

"Oh, sono così felice di vedervi! Vi prego, entrate! Raccontatemi di voi!"

Era stato un incontro fugace, in cui quell'uomo vecchio aveva voluto sapere tutto quello che era accaduto in quegli anni, e Stolas aveva provato a condensare il tempo trascorso con brevi parole, stupendosi della naturalezza con cui riusciva a parlargli di tutto, delle cose importanti e dei dettagli insignificanti.

"E così avete una bambina."

"Già." Stolas gli aveva rivolto un sorriso morbido e timido.

"Siete fortunato" il vecchio gli aveva stretto le mani in modo affettuoso "conoscerete una forma d'amore che non si può spiegare a parole."

Poi l'imp si fermò a pensare un momento, esitante, sul viso gli era comparsa l'ombra di un sorriso.

"Se permettete, non vorrei risultare impertinente o inopportuno ma, forse... a vostra figlia piacerebbe quella serra con le farfalle dove vi ho portato al vostro terzo compleanno. Eravate così curioso, correvate dappertutto che quasi faticavo a starvi dietro."

Stolas spalancò gli occhi e li sentì pizzicare di lacrime di commozione. E pensò, in cuor suo, che forse lui gli aveva insegnato ad essere padre più di quanto Paimon avesse mai fatto.

"In verità..." il principe era arrossito, ma era un rossore di stupore e gratitudine "...ero venuto proprio a domandarvi di quel posto."

Così l'imp gli aveva indicato il luogo, e Stolas si era congedato; e lui lo aveva guardato allontanarsi, cercando di nascondere una punta di commozione nel rivedere, in quel giovane uomo che spariva in fondo alla via, il bambino goffo e timido che aveva cresciuto, come un figlio, tra i corridoi e le stanze desolate del palazzo di Paimon.

***

Il principe lo sapeva che la serra sarebbe stata una buona idea. C'era tutto quello che Octavia amava, e c'era anche tutto quello che amava lui. C'erano una miriade di piante e di fiori, un odore dolce nell'aria, e lì turbinavano migliaia di farfalle dai mille colori. Anche Stella sembrava sorpresa dalla magia di quel luogo, e riconosceva le farfalle blu che abitavano i giardini dei loro incontri nelle estati del loro corteggiamento.

"Stols! Le riconosci?" gli aveva domandato "Ce n'erano mille nella tenuta estiva di tuo padre. Ricordo ancora la prima volta che sono venuta lì, ero così..."

"Furiosa?" domandò Stolas, ricordando lo sguardo torvo della prima volta che si erano visti.

Lei aveva riso di gusto e gli aveva lanciato uno sguardo sorpreso.

"Ti sono sembrata arrabbiata?"

"Mi hai rivolto uno sguardo spaventoso e tenevi le braccia incrociate sul petto." Aveva detto Stolas "E tuo fratello ha letteralmente dovuto spingerti in avanti verso di me."

Stella ora era arrossita ma non smetteva di ridere.

"Stols ero... terrorizzata. Ero anche furiosa, sì. Ma ero spaventata a morte."

Ora era Stolas che rideva.

"Lo ero anch'io..."

"Oh, me lo ricordo, tremavi come una foglia e hai balbettato per i primi venti minuti. Ma-archesi-sina St-tella." Lo prese in giro lei.

"Ehi! Ero solo un ragazzo!"

"Sei ancora un ragazzo." Disse Stella "E lo sono anch'io." E poi baciò sua figlia sulla fronte. "Ma cresciamo insieme."

Un paio di farfalle iniziarono a svolazzare attorno al viso di lei.

"Ff-alle" la voce di Via risuonò nella serra.

"Far-fal-le" disse Stolas provando a farglielo ripetere.

"Fafalle." Disse Via sicura, allungando le mani verso l'alto.

"Fafalle" fece eco Stella divertita trattenendo una risatina di soddisfazione "Beh Stols, le piacciono le parole come a te!" e Stolas tese le braccia per prendere in braccio Via.

Quel giorno nella serra non c'era molta gente e, quella che c'era, evidentemente non si curava di chi fossero, e questo era un bene. Passeggiavano nel verde, in quel tepore che serviva a mantenere rigogliose le piante, nei colori. Andavano dove voleva Octavia, che glielo faceva sapere allungandosi verso una direzione o verso un'altra, o formulando parole abbozzate che giocavano a interpretare.

E poi Stella aveva visto qualcuno che non si aspettava di vedere, che non voleva vedere e che non avrebbe dovuto essere lì. Stava in fondo alla serra, seduto, da solo. Con gli occhi incappucciati e la pelle grinzosa, in attesa.

"Stols..." sussurrò bloccandosi di scatto "Dimmi che sono solo paranoica e quello non è mio..." non fece in tempo a finire la frase che una voce si levò dal fondo della serra.

"Oh, che coincidenza" fece il Marchese voltandosi nella loro direzione "Anche voi qui?"

"Non c'è nessuna coincidenza!" Sbottò Stella lanciandosi contro di lui "Stai perseguitando la mia famiglia? Maledetto bast-"

"Ce ne stavamo giusto andando." disse Stolas afferrandola per il polso e trascinandola lontano verso l'uscita.

"Io lo ammazzo. Lo ammazzo." Borbottava Stella mentre Stolas faceva comparire un portale aperto sulla loro casa.

"Che cazzo Stols, perché non mi hai -"

"Non stava facendo niente, attaccandolo saresti stata nel torto. E poi..." disse Stolas serio, serrando la mascella "...non devi fare cose azzardate quando c'è la bambina."

"Tu non mi dici cosa fare." Ringhiò lei.

"Lo faccio, se metti in pericolo nostra figlia."

Stella abbassò gli occhi e si fece rossa d'ira e di imbarazzo.

"Allora? Farai tu qualcosa a riguardo?" domandò lei rivolgendogli uno sguardo misto di rancore e paura.

"Io..." Disse Stolas. "... dovrò parlare con mio padre."

***

La cantina era buia e polverosa, semivuota, era raro che qualcosa rimanesse accatastato. Di solito le cose rotte o sgradite si gettavano via. Ma non avevano potuto farlo con la specchiera a forma di sole. Così ora era relegata lì, e Stolas l'aveva scoperta e ci si era posto davanti. Poi, aveva mormorato in tono incerto un flebile:

"Padre?"

Silenzio. Solo il suo riflesso nella penombra.

"Padre!" ripeté, e colpì la cornice nervosamente con il lato del pugno chiuso.

"Lo so che mi sentite." incalzò "Devo parlarvi."

La sagoma di Paimon affiorò scura e pesante sulla superficie dello specchio.

"Ti degni di cercarmi solo quando hai bisogno, vedo."

"Ho imparato da voi." Fece Stolas, sarcastico.

"Oh. Più insolente che mai, lo avevo detto che quella ragazza non era giusta."

"Non è di lei che voglio parlare, ma di suo padre."

Paimon rimase impassibile, in attesa. E Stolas continuò, cercando le parole.

"So che vi lega quella che potrei definire una... amicizia."

"Alleanza." Corresse Paimon "È un ottimo uomo di guerra. Ha avuto più volte il comando in seconda delle mie legioni."

"Ma non è un brav'uomo. Sapete come trattava i suoi figli?"

"Credi che ci sia qualcosa che non so?" Disse Paimon con noncuranza "Oppure me lo dici perchè hai delle curiosità, sulla famiglia di tua moglie, che vuoi che io ti riveli?"

Stolas sbiancò. E poi fu pervaso da una vena di morboso desiderio di sapere, dalla tentazione di domandare dalle più innocenti curiosità ai più indicibili segreti. Ma sapeva che non sarebbe stato giusto, e sapeva anche che Paimon stava solo giocando con lui.

"No. Non voglio sapere niente. Di sicuro non da voi." Rispose, sostenendo lo sguardo di suo padre "Voglio solo che teniate lontano mio suocero."

Paimon parve non sentire nemmeno quello che Stolas gli aveva chiesto.

"Il Marchese era l'unico disposto a costruire su misura la donna che volevo per te." Disse invece, come se stesse pensando ad alta voce "Nessuno sarebbe stato così pazzo da educare una figlia appositamente per un uomo solo."

Stolas rabbrividì, e il cuore gli si strinse nel petto.

"Che c'è? Lo sapevi. Perché quella faccia di finta sorpresa?" lo schernì suo padre "Stella è bella, è colta, sa fare tutto quello che deve saper fare una dama e, cosa più importante, ti ha dato una figlia in salute. E magari in futuro potrebbe darti anche un altro figlio, o molti altri."

Stolas abbassò gli occhi e serrò la mascella.

"Questo non c'entra nulla con quello che vi ho detto."

"C'entra. Non fare l'ingrato. Senza di me, e senza quell'uomo che mi ha ceduto sua figlia, saresti ancora solo con le tue piante o a piagnucolare in biblioteca."

Il modo in cui Paimon parlava di Stella lo turbava profondamente. Una figlia ceduta per dargli dei figli. Lo faceva sentire come se lei fosse solo una cosa, e come se lui fosse colpevole.

"Padre io..." Stolas fece un ampio respiro cercando di camuffare lo scompiglio dell'anima "Io non mi fido di quell'uomo. Non voglio che si avvicini ad Octavia. È violento, irascibile, imprevedibile. Sono certo che sapete quello che ha fatto a mio cognato solo l'anno scorso. Sono certo che sapete che si è presentato non invitato al compleanno di mia figlia. Sono certo che sapete anche che ce lo siamo trovati davanti all'improvviso nei luoghi che frequentiamo."

"Come ti ho detto, non c'è cosa che io non sappia."

"Dunque, cosa farete?"

"Nulla."

"Nulla?"

"Sei un padre adesso, sei un uomo, sei un principe. Non puoi chiedere al tuo re di occuparsi delle tue questioni personali."

"Vi sto parlando come figlio, non come principe."

"Come padre posso solo dirti di non frignare come un bambino riguardo ai difetti di tuo suocero. Come re, di non fare sciocchezze o creare scandali istituzionali. Ora, se hai finito, ho cose più importanti di cui occuparmi."

E, detto questo, scomparve; e Stolas si trovò davanti solo il proprio riflesso, e notò che aveva negli occhi un lampo di velenoso disprezzo.

"Padre!" colpì di nuovo la cornice col pugno chiuso, e ancora, e ancora, fino a ferirsi le nocche "Padre!" Silenzio. Solo silenzio.

"Non vi importa niente di me? Di vostra nipote? Della vostra famiglia?"

Ma Paimon aveva deciso che la conversazione era finita, e non riapparve più.




 

 

Notes:

Partiamo dalle cose brutte e finiamo alle cose belle.

Paimon si sta proprio impegnando per vincere il titolo di padre dell'anno, ma il titolo di nonno dell'anno mi sa che lo vince il Marchese.

E tu Stolas, in fondo, un padre ce lo hai avuto. Solo che non è quell'essere che giudica la tua vita dagli specchi e vede tua moglie come un mezzo per un fine.

Stella, non insegnare le parolacce a Via! Ops... forse è troppo tardi.

Li lasciamo così, a raccontarsi storie, a ridere, a godere dei giorni buoni, a gioire del lieto fine delle fiabe e del turbinare delle farfalle.

I giorni cattivi sono subdoli, e si insinuano nelle albe più luminose per portare scompiglio, chissà che tipo di giorno sarà il prossimo.

A presto!

- Armilla Lunastorta

Chapter 23: Mandare tutto in cenere

Summary:

Il giovane Stolas crede, da un articolo di giornale, che il suo amico d'infanzia sia morto nell'incendio al circo.
Lo shock emotivo lo porta a compiere un gesto apparentemente insensato che crea delle crepe profonde nel rapporto con Stella.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Mandare tutto in cenere
 

Quel mattino il palazzo era particolarmente silenzioso, i domestici gli avevano portato la colazione ed erano andati via. Octavia dormiva, Stella dormiva, era solo, nel silenzio. Stolas si crogiolò nella sensazione della solitudine e il cuore gli si velò di una lieve tristezza. Quello rischiava di essere un giorno cattivo. Diede un morso al toast e sfogliò pigramente il quotidiano che ogni mattina la servitù gli portava assieme alla colazione, ma era uno strazio. 

Politica, di cui sapeva anche troppo. I titoli di punta della stagione teatrale. Una loro foto con Via, scattata da qualche paparazzo durante un'apparizione pubblica. Le solite speculazioni sul vuoto di potere lasciato da Lucifero. Le pubblicità coloratissime dei sex toys di Ozzie. Un trafiletto di tre righe su un incendio ad un circo itinerante in Greed.

Il cuore di Stolas saltò un battito. Lasciò cadere il toast sul piattino. Fissò il trafiletto con la vista annebbiata dall'angoscia.

«Fiamme e paura la scorsa notte in Greed...
...un devastante incendio distrugge il circo Buckzo...
...forse un incidente...
...corpi dei circensi... carbonizzati...
...ancora in fase di identificazione...
... per il momento non si contano superstiti.»

Il circo. Il circo dov'era stato da bambino. Il circo dove si esibiva il suo primo amico. Il circo che gli aveva dato tanta gioia. Speranza. Il suo primo amico. Il suo unico amico.

Non si contano superstiti.

Il cuore gli faceva così male che aveva la sensazione che glielo stessero strappando dal petto.

Nessun superstite.

Il suo primo amico. Il suo unico amico. Aveva vissuto tutti quegli anni nella speranza di rivederlo. E ora il circo era bruciato. Il numero delle vittime era sconosciuto. Era stato un incidente. Un incidente confuso. E non era nemmeno in prima pagina. Nessuno si cura di un circo itinerante di imp. Era un piccolo riquadro a fondo pagina. Ma lui l'aveva riconosciuto, aveva riconosciuto il tendone, e aveva provato orrore nell'immagine di quei brandelli di stoffa con le stecche della tenda ancora in piedi come lo scheletro di una creatura un tempo esistita e ormai estinta. Un mondo perduto, i suoi abitanti tutti morti.

Era sempre stato solo, ma adesso lo era di più. Ora il bottoncino d'oro non era più un pegno, una promessa, l'altro capo d'un filo che poteva ricondurlo a lui. Era una reliquia. E il filo conduceva alla terra.

Ora l'unica persona con cui avesse mai condiviso qualcosa restava Stella, dunque.

Lei lo trovò nella sala da pranzo, turbato e meditabondo, non aveva finito la colazione, c'era un toast mezzo mangiato sul piattino di porcellana, e la tazzina di tè era quasi piena. I giorni buoni erano finiti, quello era certo uno dei giorni cattivi. Lui fissava un punto nel vuoto e non parlava, le lacrime gli scorrevano sul viso come se non se ne accorgesse. Stella non capì cosa potesse avergli fatto tremare il cuore così tanto, e lui non glielo disse, perché non poteva dirglielo. Perché non sapeva nemmeno come avrebbe dovuto spiegarle che era rimasto aggrappato all'immagine dell'amico di un giorno.

"Che cosa c'è adesso?" domandò lei. Stolas era scostante, il suo umore cambiava così in fretta che la sua instabilità emotiva iniziava ad essere opprimente e insopportabile. Le faceva male e la soffocava, perché la bimba era piccola e lei non era felice, e non sopportava che lui stesse cadendo a pezzi così velocemente da rischiare di non avere nessuno a cui appoggiarsi quando anche lei sarebbe, inevitabilmente, crollata.

"Perché diavolo piangi adesso, Stols?"

Lui trasalì. E poi la guardò, e la vide, col viso accigliato così noto e familiare, e sentì il bisogno di lei; per la prima volta dopo tempo e per tutti i motivi sbagliati. Perché si sentiva triste, perché si sentiva solo. Perché lei era l'unica rimasta a ricordarselo ragazzo e senza doveri. Perché lei era l'unica rimasta ad avere condiviso qualcosa di bello con lui. E per più di un giorno, per giunta. Perché era l'unica persona in vita alla quale si fosse mostrato, per qualche momento, sé stesso. E un po' perché era anche l'unica persona ad essere lì in quel momento. Forse anche perché era la madre di sua figlia, ma a questo, in quell'istante, non ci pensò. Perché era l'unico corpo che avesse conosciuto, e gli era semplice ripetere una cosa nota. E anche perché il vuoto che aveva sempre sentito nel cuore si era allargato e sfaldato e ora era un abisso e aveva paura di annegarci dentro, e a qualcosa, a qualunque cosa, doveva aggrapparsi.

Ruppe in singhiozzi e le cadde tra le braccia, il viso affondato nel petto di Stella. Una stretta profonda e disperata. Poi rivolse il viso verso di lei, e la guardò con due occhi perduti. Le posò un bacio lieve sulla bocca. Un singhiozzo gli uscì dalle labbra. Un altro bacio, piccolo, casto. Poi l'abbraccio si fece più stretto e sicuro, una mano su un fianco, l'altra sulla schiena, e il suo corpo più vicino, che cercava un conforto, un contatto, che cercava di più.

Lei non sapeva che fare. Sembrava intimo, troppo intimo. Era sbagliato. Lui era sconvolto e lei non ne riusciva a comprendere il motivo.

"Stols... che cosa-"

Sono solo. Pensò lui. Non ho nessun altro che lei.

"Ho solo te." Mormorò allora nascondendo il viso tra il collo e la spalla di Stella. E lei sentì le lacrime di lui bagnarle il tessuto della camicia da notte.

Lui le accarezzò la nuca e lei si sentì rabbrividire. Strinse leggermente in quel punto maledetto che la immobilizzava, ma lui non lo sapeva, non poteva saperlo. Lei si sentì spaventata e perduta: lui non lo stava facendo apposta, ma gli stava impedendo di pensare lucidamente, con quella stretta gentile alla base del collo, e per questo lo odiò per un momento.

Stolas la guardò con occhi vuoti, specchio della voragine che si era aperta nel suo cuore, e lei non riconobbe l'uomo che aveva di fronte. Così lui posò ancora le sue labbra su quelle di lei e spinse piano per fargliele aprire e lei non poté che cedere all'intrusione della sua lingua nella bocca. Era un bacio diverso: disordinato, violento, disperato, che non aveva a che fare con l'eccitazione o con il desiderio. Quasi due anni di distanze, e tutto quello che otteneva era questa cosa confusa, che non capiva, a cui il suo corpo non riusciva a ribellarsi. La solitudine la stava inaridendo lentamente e inesorabilmente, e quel bacio le sembrò acqua nel deserto. Un'acqua torbida e scura, che l'avrebbe avvelenata più che dissetata, ma non riusciva a reagire. Aveva sete d'amore, di contatto, di intimità.

Lui le percorse con il palmo della mano la linea dal seno ai fianchi, senza staccarsi da lei, spingendola sulla la schiena contro la superficie fredda del tavolo da colazione. Lei sentì il marmo gelido sulle spalle scoperte, e una sensazione di disagio le invase le membra.

Basta. Fermati. Fermalo razza di stupida. Tu, così, non lo vuoi. Ma lei era sopraffatta. Ora sentiva una fitta al petto lancinante, e un groviglio caldo nel basso ventre. Fermalo, sciocca. Lo odierai solo di più. Rabbrividiva alle sue dita affondate nella carne, e allo stesso tempo la sua mente si ribellava disperatamente. Non vuole te. Vuole una distrazione. Un escamotage. Tu sei il suo diversivo.

Riconosceva il sapore di Stolas della volta che lo aveva baciato dopo l'incidente dello specchio, sapeva di tè amaro e del sale delle lacrime. E i suoi sensi ingannevoli la riportarono lì, a quando per un momento lo aveva voluto, e le fecero credere di poterlo volere ancora.
Ma è lui che non ti vuole. Altrimenti ti avrebbe toccata, qualche volta, in questi anni.

No! No! No! Era tutto sbagliato. Con lui sopra di lei, così silenzioso e distratto, distante. Che non la guardava neppureEra lì, così presente e più opprimente che mai, ma con la testa era altrove, anzi, non c'era. Era assente a sé stesso. E le ammucchiava il tessuto della gonna al lato dei fianchi, e le schiudeva le gambe facendo leva con un ginocchio. E le assaggiava la pelle del collo senza grazia e senza cura. E lei sentì le lacrime salirle alla gola.

"Stols...fermati..." mormorò.

Ma Stolas riportò la bocca sulla sua in quel bacio soffocante che non si fermava, che non le dava il tempo di riprendere fiato, di parlare, di opporsi. E la pressione del suo corpo sul suo, e la sensazione delle gambe di lui tra le sue cosce. E le mani strette sui fianchi. E quell'uomo sconosciuto e vuoto, senza gentilezza o attenzione, che aveva il volto di Stolas ma non era più lui.

"Stols...davvero...smettila..."

Ma Stolas non la sentiva, non la ascoltava?

"Ho solo te." Mormorò ancora lui a fior di labbra.

E lei sentì che le mancava l'aria. Sentì che le veniva da piangere. Sentì la sensazione di angoscia della loro prima volta, ma quella volta era peggio, perché sentiva che in quella situazione, per lui, che fosse lei o un'altra, un altro o una tristissima sega non avrebbero fatto alcuna differenza.

"Stols...non mi va... per favore." la sua voce era flebile e incerta. Perché mentiva. Le andava, quasi ne aveva bisogno. Ma non così, così era umiliante, svilente, l'avrebbe consumata nel disamore.

Non era altro che la prima cosa che si era trovato davanti. Cercava solo qualcosa o qualcuno in cui soffocare quel dolore che le era ignoto. Che non aveva voluto spiegarle. Sentì il cuore accelerare, e la sensazione di soffocamento farsi più intensa. Sentì la mano di lui percorrerle l'interno della coscia e scostarle le mutandine di seta.

"Basta!" gridò. Si dimenò. La tazza di tè si rovesciò sul quotidiano aperto. "Smettila! Fermati!". Premette le mani sul suo petto e lo spinse via con tutta la forza che aveva in corpo "Merda Stolas, non mi senti? Ma che cazzo di problemi hai?" gli disse con voce rotta.

Lui spalancò gli occhi come se si fosse svegliato da uno stato di trance, tornò in sé e si sentì colpevole. Come la prima notte, più della prima notte. La vide così, disordinata e spaventata sotto di lui, con uno sguardo di disprezzo che non le aveva visto rivolgergli mai.

"Stella, io non... Oh Lucifero! Io... mi dispiace... io... non so... io..." ora Stolas aveva gli occhi lucidi e perduti e sentiva un nodo inestricabile nel petto.

Lei si rimise in piedi e si sistemò la gonna e i capelli e andò via senza parlare, senza nemmeno guardarlo, trattenendo il fiato e sperando di riuscire non piangere prima di uscire dal suo campo visivo.

"...non volevo." completò lui, ma lei aveva già lasciato la stanza.

Stolas riprese il giornale e andò verso il mobiletto degli alcolici, si versò due dita della prima cosa che trovò e tornò a fissare il trafiletto con la foto del circo, ormai inzuppato di tè. Non sapeva nemmeno il perché lo avesse fatto. Solo, aveva bisogno di sentire qualcosa, qualcosa di bello. E quella cosa gli era sembrata... semplice? Nota?

Stella aveva percorso in fretta il corridoio che portava alle sue stanze, rossa in viso, trattenendo il fiato, a passo deciso, senza voltarsi e senza fermarsi.

"Oh, Stella, cercavo proprio..." Andrealphus aveva iniziato a parlarle, ma poi aveva visto il suo viso sconvolto e rosso"...che cazzo è successo?"

"Lasciami in pace." fece lei, e lo superò senza guardarlo.

Entrò nel salotto da tè e richiuse la porta alle sue spalle, girando la chiave.
Poi si accasciò contro la porta, scivolò fino a sedere per terra e, solo allora, si concesse il lusso di piangere, senza controllo, come una bambina.

***

"Stella, per favore, lasciami entrare!"

La voce di Stolas arrivò ovattata da dietro la porta. Quanto tempo era passato? Non lo sapeva nemmeno lei, aveva fame, doveva già essere ora di pranzo.

"Per favore... Dobbiamo far mangiare Via. E dobbiamo parlarne."

"Vattene." gridò Stella "Non abbiamo niente da dirci."

Stolas provò a ruotare il pomello, trovando la porta chiusa.

"Aprimi. Mi sono già scusato."
"Va' via."
"Ti prego. Ti chiedo scusa. Lo sai che non... non sono così."
"Ti ho detto di sparire."

Ma se lo vide sbucare davanti da un portale violetto. Balzò in piedi.

"Cosa cazzo non hai capito di "non voglio parlarti" Stols?" disse lei.

Lui si avvicinò mesto.

"Ti prego, ho bisogno di spiegarti."

Provò a posarle le mani sulle spalle, ma lei lo spintonò, un gesto aggressivo, esasperato.

"Non toccarmi. Non conosci il limite personale."

Gli voltò le spalle per andarsene di nuovo, ma Stolas l'afferrò per un polso.

"Non devi toccarmi!" urlò lei.

Uno schiaffo lo colpì in pieno viso. Stolas barcollò per lo shock e si ritrovò per terra.

"Cos'è una porta chiusa?" incalzò Stella. "Niente! Certo. Tanto puoi fare il cazzo che ti pare."

"Dovevo parlarti e non volevi aprirmi..." disse lui, tenendosi la guancia, mentre stava riverso sul pavimento.

"Aspettavi. Senza usare la tua maledetta magia."

"Ma... io volevo parlarti, volevo spiegare..."

Merda. Parlavano due lingue diverse e lui non riusciva a capire. Non la stava ascoltando?

"Voglio. Voglio. Voglio. Non sei migliore di tuo padre." fece lei, sprezzante, sapendo che lo avrebbe ferito. "Tutto è tuo, anche il mio sacrosanto diritto alla solitudine."

Lei lo guardava dall'alto in basso, con occhi colmi di un sentimento misto di ira e disperazione.

"Anche tu non sei migliore del tuo." gli rispose lui. "D'altronde, sono io quello per terra."

Lei si sentì trafitta da una lama. Attraversata da parte a parte. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma le ricacciò dentro. Piegò le labbra in un'espressione dura.

"Non hai il diritto di dirlo. Sei tu che hai aggredito me, poco fa."

"...è stato un malinteso... te l'ho detto!"

Lei spalancò gli occhi in una fiamma di incredula rabbia.

"Cercare di scoparmi contro la mia volontà è stato un malinteso?"

"No! Non è quello che volevo fare!"

"E che cazzo volevi, Stols? Ti ho detto basta e hai continuato. Come cazzo dovevo interpretarlo?"

Lui ammutolì. Non lo sapeva. Nemmeno si ricordava esattamente che cosa avesse fatto. Si ricordava che si era sentito solo e perduto. Che aveva bisogno di spegnere i pensieri. Che lei era lì, e aveva il sapore noto del caramello.

"Non ero in me. Stella. Ti prego. Non so che cosa mi sia preso. Mi conosci."

Ora Stolas era sulle ginocchia. Implorante. Aveva provato ad afferrarle una mano ma lei si era ritratta. "Non ti ho mai toccato quando non hai voluto. Tutti quei mesi dopo il matrimonio non contano niente?"

"Anch'io non ti ho mai toccato quando non hai voluto. E sono state così tante volte che nemmeno le conto più. Sono due anni che mi rifiuti, che a stento mi guardi, e decidi che l'approccio migliore per riaccendere la scintilla sia tentare di violentami sul tavolo della colazione?"

"Ti ho già detto che non era... Oh. È inutile."

"Già. Lo è. Lo sei."

"Mi dispiace Stella. Ti prego. Solo...puoi perdonarmi?"

"Come ti pare. Sono stanca." Si arrese lei, era ovvio che quell'uomo che la guardava così, implorante, dal pavimento, non le avrebbe mai fatto niente. Ora non urlava più, era una voce flebile e svuotata. "Mi hai spaventata."

"Non ti avrei fatto del male."

"Pensi davvero che ti saresti fermato? Non eri tu, non eri in te. E non era me che volevi. Volevi uno sfogo! E te lo saresti preso e basta, come ogni cazzo di cosa che fai quando vuoi soffocare il dolore."

Stolas sospirò, si passò una mano sugli occhi. In qualche modo sapeva che aveva ragione. Si tirò in piedi, riuscì ad afferrarle una mano e, questa volta, lei non si ritrasse.

"Possiamo andare da Via, per favore?"

"Andiamo. Lei non si merita questa merda."

"È piccola, non se ne ricorderà."

"Ma lo saprà, Stols. Credimi. Io lo sapevo."

***

Quella notte lei non c'era nella loro camera da letto. La cercò nelle sue stanze ma non la trovò. La trovò invece rannicchiata alla buona nel lettino della cameretta di Via, con la bimba tra le braccia, addormentata. L'espressione dura, questa volta, non l'aveva abbandonata nemmeno nel sonno. Tremava leggermente, per il freddo? O sognava?

Le sistemò le coperte facendo attenzione a non svegliarla, in cuor suo sapeva che non era un'accortezza gentile, solo... non aveva la forza di affrontarla di nuovo. E poi tornò nella camera vuota.

Sei un padre adesso, sei un uomo, sei un principe.

La voce di suo padre gli invase la mente come a tormentarlo. Già, forse Paimon aveva ragione. Era il momento di crescere.

Estrasse dal taschino del gilet il bottoncino d'oro e lo guardò per un po', in silenzio, facendolo ruotare tra l'indice e il pollice e poi lo abbandonò, come se fosse solo una cosa, in fondo al cassetto del comodino.

Notes:

Mi rendo conto che sia un capitolo ambiguo e controverso. Non è mia intenzione, con l'episodio narrato, far pendere l'ago della bilancia da un lato piuttosto che dall'altro.

A volte può succedere di fare qualcosa di brutto o sbagliato senza che questo ci connoti in toto come cattivi. O che determini per sempre la visione che l'altro ha di noi.

Nella mia visione loro due sono due ragazzi giovani e che nessuno ha guidato attraverso una chiara lettura dell'affettività, della gestione del dolore o dell'appagamento di un bisogno.

Perdonate lo spiegone, ma ci tengo davvero che non venga fraintesa l'intenzione narrativa dietro.

Non mi resta che augurarvi Buone Feste!
Buon Natale, Happy Sinsmas, o qualsiasi cosa vogliate o stiate festeggiando in questo momento!

Gli aggiornamenti futuri potrebbero subire qualche ritardo, vi prego di avere pazienza.

Con tutto l'affetto che meritate.

- Armilla Lunastorta

Chapter 24: E fu sera, e fu mattina

Summary:

Fare pace è un percorso lungo, ma il tempo guarisce le ferite! Che resti la cicatrice è, forse, il male minore.
Stella e Stolas trovano un nuovo equilibrio. Andrealphus riceve un inaspettato invito.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

E fu sera, e fu mattina

 

"Sorellina...?" Andrealphus la guardò col sorriso melenso che le faceva sempre quando voleva sapere qualcosa che non aveva alcun diritto di chiedere né di conoscere.

"Che vuoi?"

"Perché tu e Stolas non dormite insieme da due settimane?" domandò poi, con noncuranza, percorrendo con l'indice il bordo della tazza da tè.

Lei gli lanciò un'occhiata torva ed esasperata. Quella avrebbe dovuto essere la loro piacevole colazione della domenica e suo fratello era riuscito egregiamente a rovinarla.

"Mi controlli Andrealphus? Sai anche quante volte scopiamo?" rispose lei, nella speranza di metterlo a disagio, ma non ci riuscì.

"A giudicare dal tuo umore, zero."

"Ti sei svegliato con un desiderio di morte?"

"Sono solo curioso..." fece lui, con il solito tono accondiscendente. "...stavate andando così bene, una famigliola così felice, che cosa ha turbato la quiete?"

"Non sono cose che ti riguardano."

Stella ora aveva la fronte aggrottata, e la bocca serrata in una linea sottile; i suoi occhi fiammeggiavano di disappunto. E poi, non poteva dirglielo. Non ci teneva affatto ad avere un fratello assassino e un marito morto. O peggio, ad essere messa in mezzo a qualcosa di stupido e barbaro come un duello per difendere il suo onore.

"Tutto, di te, mi riguarda." fece lui, come se fosse ovvio, inclinando il capo.

Lei spalancò gli occhi, fu come se al suono di quelle parole un fulmine l'avesse colpita.

"NO!" sbottò, sbattendo una mano sul tavolo. "No, maledizione! Metti becco su ogni cazzo di cosa che mi appartiene. I miei vestiti, i ricevimenti a cui devo presiedere, le cose che posso e non posso dire, l'intimità con l'uomo che ho sposato, pardon che mi avete fatto sposare, la mia gravidanza, mia figlia... devo continuare, Andrealphus? O posso avere una cosa che sia mia, per una volta?"

Andrealphus sbiancò, questo gli era decisamente nuovo. "Ma che diavolo ti prende?"

"Finiscilo tu." Stella gli lanciò addosso un pain au chocolat mezzo mangiato. "Mi è passato l'appetito." Poi lasciò la stanza.

***

Per un po' di notti Stolas era rimasto sveglio, ma non come al solito, a leggere nel salotto da tè; stava nella loro camera, sdraiato sul letto a guardare il soffitto e ad ascoltare i passi di lei avvicinarsi così tanto alla porta e poi andare oltre, per raggiungere la cameretta di Via, o le sue stanze. Per un po' di notti aveva vagato nei corridoi, cercando il coraggio di bussare alla sua porta per dirle qualcosa, qualsiasi cosa che non suonasse stupido o banale.
E in quelle notti Stella era rimasta vigile, in ascolto, per cogliere il frusciare della sua vestaglia da camera o l'ombra di lui comparire dalla lama di luce sotto la porta chiusa, sperando che Stolas bussasse, e che trovasse una cosa qualunque da dirle che, se non giusta, suonasse almeno non troppo sbagliata.

Poi, una notte, quando Stolas era andato a dormire, l'aveva trovata nella loro camera, seduta sul letto. Si era fermato sulla porta, esitante.

"Che...che cosa ci fai qui?"

"Come sarebbe a dire? È anche camera mia."

"È che... Non hai dormito qui per diciotto notti."

"Scusami? Le hai contate?"

"Non ho avuto di meglio da fare."

Un silenzio pesante aveva invaso la stanza.

"Ascolta,io..." Stolas si guardava i piedi tormentando nervosamente il tessuto della vestaglia da camera "...ti devo chiedere scusa, di nuovo. Sono stato... irrispettoso ed egoista. Avevi ragione, cercavo uno sfogo e tu eri lì... Io non volevo... ferirti, spaventarti, approfittarmi di te. Ma l'ho fatto. E me ne pento. Speravo avrei avuto un discorso migliore del mio solito farfugliare, ma non ce l'ho, non mi aspettavo saresti venuta. Mi sono tormentato notte dopo notte su qualcosa da dirti che non suonasse solo patetico e costruito, che non suonasse detto solo per ricucire. Io... posso aspettare. Posso stare cento notti dietro una porta chiusa. Mille notti. Tutto il tempo che ti serve per - "

"Smettila di blaterare." fece Stella "Se sono qui, vuol dire che mi è passata."

"Oh."

"Già."

"..."

"Mi sento sola, Stolas." disse poi all'improvviso. "Sola come non mi sono mai sentita prima. Sola mille volte di più di quanto non mi sia sentita da bambina nelle mie stanze vuote, lasciata lì ad eseguire qualche maledetto esercizio di solfeggio o a ripassare le basi del galateo. Allora, almeno, quando tutto era troppo silenzioso, troppo vuoto, c'era Andre, ed era ancora mio fratello, e non... qualsiasi cosa creda di essere adesso."

Stolas avrebbe voluto dirle qualcosa per rassicurarla, qualcosa di ovvio che si dice in quelle circostanze. Ma non poteva pronunciare parole come: "Non sei sola, hai me.perché sapeva che non era vero. Lei non aveva lui. E lui non aveva lei. Non era la presenza fisica in una stanza, non era fare colazione insieme o vedersi per cena, non erano le passeggiate nei giardini soleggiati, non era condividere la casa, c'era qualcosa di più che non riuscivano a darsi.

"Anch'io mi sento così." rispose allora, perché gli sembrava l'unica cosa vera da dire "È per questo che l'altro giorno... Io...mi sono sentito solo e ho pensato che se noi avessimo...Oh Satana... Più provo a spiegarti il perché più sembra peggiore."

"Ho detto che mi è passata Stols, perché continui a tornarci su?"

"Come puoi perdonarmi qualcosa che io non riesco nemmeno a razionalizzare?"

"Sto affogando, Stolas. Nel silenzio. Nell'enorme spazio vuoto che separa le mie stanze dalle tue. Non riesco a parlare nemmeno con Andre, non posso spiegargli perché abbiamo litigato. E, in tutta onestà, non voglio nemmeno. Sono cose nostre."

Stolas si fece rosso. "Posso sedermi accanto a te?"

Stella annuì. E lui le si sedette accanto.

"Posso prenderti la mano?"

"Dannazione Stols, mi chiederai il permesso pure per respirare da oggi in poi?" sbottò lei, e poi abbassò gli occhi e fece un ampio sospiro.

Lui fece scivolare una mano sul dorso di quella di Stella, e lei lasciò che le loro dita si intrecciassero.

"Dormi qui, stanotte? Solo qualche parola, solo un po' di compagnia. Non voglio altro." disse lui.

"Lo so che non vuoi altro." Rispose Stella, aveva una punta di risentimento nella voce. E lui non ne comprese fino in fondo il motivo.

"Ti ho fatta arrabbiare?"

Lei scosse la testa, poi si alzò in piedi lentamente, come a misurare i movimenti. Percorse il perimetro del letto e si infilò sotto le coperte. Si sdraiò di fianco dandogli le spalle, a guardare un punto indefinito tra le tende violette e il comò e, solo allora, riprese a parlare:

"Quanto ci metteremo, Stols?"

"A fare cosa?"

"A non tornare più."

"Non credo di capire..."

"A un certo punto, uno di noi, non busserà più alla porta dell'altro. Ci sarà un momento in cui ci arrenderemo. Non sapremo più chiederci scusa, e forse nemmeno lo vorremo più."

"Perché dici così?"

"Lo sappiamo perché ci sentiamo soli. Non mentire a te stesso, io non lo faccio."

"Abbiamo Via."

"Metti sempre in mezzo Via quando provo a parlartene."

Stolas rimase in silenzio per un po', a tormentarsi la fede sull'anulare. Poi si infilò nel letto e si sdraiò di fianco, dandogli le spalle a sua volta; non aveva la forza di guardarla.

"Per lei dovremmo perlomeno provarci."

"Vedi? È qui che sbagli, non dovremmo provarci per lei, farlo per lei è un fallimento certo."

"E per cosa, allora?"

"Al più, se proprio credi, dovremmo farlo per noi."

Lui non seppe cosa rispondere. Quelle affermazioni lo confondevano, lei lo confondeva. Perché sembrava capire delle cose che lui non arrivava nemmeno a pensare. E si chiedeva come fosse possibile se avevano vissuto la stessa vita, se avevano gli stessi anni, se avevano conosciuto solo l'altro. Si chiedeva perché lei riuscisse a decifrare il mondo, quando lui a stento riusciva a comprendersi.

E si chiedeva se provarci fosse la scelta giusta, e si rispondeva che era l'unica scelta possibile. Perché non c'era una via di fuga, c'era solo un modo migliore di un altro per dividere la prigione. Ma quello che non si chiedeva, era chi possedesse davvero le chiavi di quella gabbia dorata; quello che non si confessava era che forse a lui sarebbe stato concesso aprire la porticina della gabbia e volare via. Anzi la porta, per lui, era sempre stata aperta, ma la gabbia era troppo in alto e lui credeva di non saper volare, non che ci avesse mai provato, dopotutto.

La gabbia di Stella era uguale alla sua, aveva le stesse scintillanti sbarre dorate, ma lei non possedeva la chiave. Lei sapeva volare, per lei era istintivo e innato, così continuava a spiccare il volo e sbattere disperatamente contro le sbarre. Ma tutto questo non se lo chiedeva e non se lo diceva, perché dirselo avrebbe cambiato le cose. Gli sembrava più semplice condividere con lei la parvenza della prigionia, nella volontaria ignoranza della propria libertà.

E così Stolas era rimasto in silenzio a pensare alle parole di lei, a controllare il respiro come se da un momento all'altro potesse scoppiare a piangere senza comprenderne il motivo, a sentire la presenza di lei senza osare voltarsi, a sentire il leggero calore irradiarsi, a sentirsi davvero uno stupido perché gli sfuggiva qualcosa che per lei era ovvio e naturale.

"Stols, non tormentarti. Non dobbiamo risolvere tutto in una notte."

Stolas mormorò qualcosa di indefinito, affondando il viso nel cuscino.

"Dai, andiamo a dormire." Disse lei "Spegni la luce."

"Sì."

***

E così lasciarono che passassero i giorni. E Via imparò a camminare e a correre. La videro ribellarsi la prima volta, dire di no a qualcosa, rifiutarsi di fare merenda o di indossare una gonna a fiori. La videro scegliere i giochi. La videro innamorarsi delle stelle. E la videro anche comprendere, in qualche modo, che le cose non andavano, e ridere meno, e scrutarli in silenzio in cerca di risposte. E Stolas capì cosa intendesse Stella quando diceva che Octavia, se pur piccola, lo avrebbe saputo. E la udirono pronunciare le prime frasi, e fare le prime domande. Con la sua parlantina spigliata e la sua attitudine curiosa. Dunque, la videro crescere, e portare una flebile fiamma di luce in quei giorni velati da un sordo distacco.

E con i giorni lasciarono passare le notti. Ci furono le notti dei silenzi, degli occhi bassi che non osavano incrociarsi: con Stolas da un lato del letto che le dava le spalle e fissava la porta, e lei sdraiata su un fianco dall'altro lato, che ormai conosceva a memoria i ricami della tenda e i ghirigori dei pomelli del comò.

Ci furono le notti in cui, sdraiati sulla schiena, uno accanto all'altra e ancora distanti, tornarono a guardare le costellazioni dipinte sul soffitto, e i cristalli del lampadario riverberare nella luce che filtrava dalle finestre. Notti in cui ascoltare il respiro dell'altro era straniante e opprimente, e notti in cui i loro respiri si armonizzavano fino a confondersi.

Ci furono le notti senza parole, in cui la mano di lui o di lei scivolava al centro del letto, cercando timidamente quella dell'altro, senza chiedersi il come o il perché, arrivando a sfiorarla appena. E ci furono le notti in cui le dita iniziarono a intrecciarsi in una stretta gentile.

E a quelle seguirono notti in cui tornarono a dormire sul fianco senza darsi le spalle ma con gli occhi sfuggenti, e quelle in cui, sdraiati uno di fronte all'altra trovarono la forza di guardarsi di nuovo.

Ci furono notti in cui riuscirono a dirsi almeno "Buonanotte" prima di spegnere la luce, e notti in cui risultò naturale scambiare qualche parola prima di dormire.

E con le notti ci furono i risvegli. I risvegli in cui lui si trovava da solo nel letto, o i risvegli in cui Stella gli dava ancora le spalle, i risvegli uno accanto all'altro con le dita intrecciate.

E poi, a un certo punto, da qualche parte tra il secondo e il terzo compleanno di Via, ci fu un risveglio diverso. Stavano al centro del letto, la fronte contro la fronte, e la mano di lei sul fianco di lui, e lui che con la sua le sfiorava la spalla, e le ginocchia intrecciate, e le caviglie che si toccavano. Un risveglio in cui la vicinanza dell'altro non suonava più come un ingombro o un'imposizione, ma come tacito ritrovarsi. Un risveglio in cui riuscirono a dirsi "Buongiorno" e a tornare a fare colazione insieme.

Erano stati lunghi mesi di giorni cattivi e adesso, nel profumo dei pancakes ai mirtilli e della marmellata di fragole, con Via che rideva e afferrava con le manine un cucchiaio e impiastricciava la camicia di Stolas, sperarono che i giorni buoni volessero concedere loro altrettanto tempo.

***

Un giorno qualsiasi, tra il secondo e il terzo compleanno di Via, Andrealphus trovò, sulla scrivania del suo studiolo, una busta color crema in carta pregiata, chiusa sul davanti con un sigillo in ceralacca che portava il simbolo di Paimon.

Corrugò la fronte e la prese tra le mani, la soppesò e notò che doveva contenere al più un biglietto grande quanto la busta stessa. Così ruppe il sigillo e ne estrasse il contenuto.

Sul rettangolo di carta in pergamena stavano scritte brevi parole:

Marchese Andrealphus,
Vi invito a presiedere in Assemblea, all'incontro previsto nel pomeriggio.
Confido in una vostra risposta positiva.

E sotto, come sempre, nessuna firma, solo il sigillo tondo di Paimon.

Andrealphus sentì una leggera preoccupazione percorrergli le membra, e pensò che forse, presentarsi, sarebbe stato un errore. Ma sapeva anche che dietro quell'invito, presentato in carta pregiata e formulato con parole gentili, non c'era altro che un ordine che non poteva essere disatteso.

Così, quel pomeriggio, indossò l'abito formale e infilò l'invito nervosamente in una tasca. E si presentò, smarrito e fuori posto, al palazzo dell'Assemblea. E lì, nella grande sala ad anfiteatro, vide Stolas sedere alla destra di Paimon, con indosso l'alta uniforme che così poco gli si addiceva, che discuteva con un quello che, dall'abito, doveva essere un altro principe, con una naturalezza e dignità che gli risultò straniante.

"Marchese Andrealphus?" domandò un imp in livrea, vedendolo confuso ed esitante sulla soglia.

"Eh? Oh. Sì."

"Seguitemi, vi mostro il vostro posto."

E Andrealphus lo seguì, e non poté che provare una profonda inquietudine quando fu fatto accomodare, con tutti gli onori, sul posto di suo padre.

"Vogliate scusarmi ma... Credo ci sia un errore. Questo posto non è -"

"Non siete il Marchese Andrealphus?"

"Sì, ma-"

"Allora nessun errore. Il Sovrano ha indicato questo come posto per voi."

Andrealphus annuì, e lo congedò con un grazie. Cercò allora suo padre tra gli altri banchi dell'Assemblea, ma non lo trovò.

Guardò in direzione di Paimon in cerca di risposte, e tutto quello che riuscì ad ottenere, dal suo viso impassibile di cera, fu un cenno di compiacimento.

Un freddo leggero gli attraversò la spina dorsale, ma non ebbe tempo di pensare oltre. Il Sovrano decretò l'inizio dell'incontro.

Notes:

Questa volta sono stata buona e il capitolo di Capodanno non è angosciante quanto quello uscito a Natale!

Pare che il tempo guarisca le ferite, che restino le cicatrici è forse il male minore.

Ed è bello svegliarsi un mattino con meno polvere sul cuore, con la presenza dell'altro che rassicura al posto di turbare.
Via sta crescendo, e i giorni buoni sono tornati a far respirare un po' questi genitori, che sanno a istinto come essere famiglia senza aver mai imparato ad essere coppia.
Ma a che gioco sta giocando Paimon? Andrealphus, tesoro mio, qualcuno venga a salvarti perché da solo non ce la fai proprio!

Che l'anno nuovo vi porti tanti giorni buoni! (E nessun giorno cattivo!)
Che per voi ci siano risvegli felici, e sorrisi e il profumo dei pancakes.

Con tanto affetto,

- Armilla Lunastorta

Chapter 25: In cima al mondo

Summary:

Capitolo zuccheroso, la famiglia va al parco divertimenti!

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

In cima al mondo

 

Era un mattino luminoso, l'estate era arrivata senza preavviso, portando con sé il rosso delle rose e il loro profumo. Da quattro anni non saltavano una fioritura. Lei credeva che Stolas avesse compiuto un miracolo, e lui pensava che Stella, in qualche modo, avesse fatto una magia. O forse era stata la semplice presenza di Via nell'universo, e le rose ne erano divenute manifestazione.

Stella teneva Octavia sulle ginocchia, le pettinava i capelli con la sua spazzola d'argento, districava le ciocche delicatamente, dalle punte alle lunghezze, per non farle male. E pensava che fosse incredibile come sua figlia avesse gli stessi capelli di Stolas, non solo nel colore, ma nella sensazione al tocco quando lasciava scorrere in mezzo le dita.

"Mamma?" la voce di Via aveva riempito l'aria. "Dov'è papà?"

Stella trasalì, come svegliata da un torpore. Non riusciva ad abituarsi, ogni volta che sentiva la voce di sua figlia chiamarla le si riempiva il petto di un calore dolce, e il mondo intorno a lei appariva più vivido e chiaro. Passò la spazzola sulle ultime ciocche, e le tolse i capelli dagli occhi con un fermaglio violetto.

"È in Accademia." rispose "ma ha detto che ha una sorpresa per te, e la sapremo quando tornerà."

"E quando torna?"

"Presto, amore."

"Presto quanto?"

"Non appena avrà finito il suo dovere."

"Cos'è un dovere?"

Stella esitò. Poi le accarezzò i capelli "Una cosa molto brutta" le rispose, le diede un buffetto sulla guancia "Spero che tu ne avrai il minor numero possibile."

"Stella!" una risata squillante risuonò alle sue spalle "Che discorsi fai alla bambina?"

"Papà!"

Stolas non ebbe nemmeno il tempo di sfilarsi la toga che Octavia gli corse in contro e gli saltò tra le braccia.

"Qual è la sorpresa?" domandò Via impaziente, guardandolo con due occhi vispi e violetti che del tutto appartenevano a Stella. "Qual è? Qual è?"

"Quanta impazienza!" Stolas baciò sua figlia sulla fronte e le scompigliò i capelli. Stella fece una smorfia di disappunto, aveva appena finito di pettinarla! Ma poi vide sul volto di lui l'espressione di bambino che aveva sempre quando programmava qualcosa di sciocco e divertente, e non riuscì ad arrabbiarsi.

"Andiamo Stols!" disse allora "Sono curiosa anch'io!" perché anche lei, da qualche parte, aveva ancora un animo di bambina.

"Va bene, va bene..." si arrese lui, che non vedeva l'ora di spifferare tutto "... oggi qualsiasi emergenza, che si tratti dell'Accademia o dell'Assemblea, non mi compete. Che chiamino qualcun altro!"

"Un giorno intero? E tuo padre che-" domandò Stella un po' perplessa.

"Ho detto a mio padre che ho intenzione di godermi la compagnia di mia figlia" Stolas rivolse a Via un ampio sorriso, poi guardò Stella "Non che mio padre possa capirlo..."

"Già Stols, proprio no."

"Beh, l'importante è che oggi sono tutto per te!" disse Stolas rivolto a sua figlia.

"Vuol dire che resti a giocare?" domandò Via piena di entusiasmo.

"Vuol dire che andiamo al parco divertimenti!"

"Davvero?!" Via strinse forte Stolas e iniziò fare mille programmi. "Possiamo mangiare lo zucchero filato? Le mele caramellate? Andare sulle montagne russe? Posso mettere il vestito viola che mi ha comprato mamma? Sta bene col fermaglio! Possiamo fare le giostre per i grandi? Sono più alta ormai!"

Stella fece un mezzo sorriso nel vedere sua figlia così entusiasta e piena di gioia, e poi la invase una malinconia lieve.

"Quindi... non vi aspetto per cena?" domandò abbassando gli occhi.

Stolas la guardò perplesso. "Perché? Tu non vieni?"

"Vuoi che venga?"

"Non avevo nemmeno ventilato l'ipotesi che tu non venissi." disse serio, rivolgendole uno sguardo dolceamaro.

Lei si sentì avvampare di imbarazzo. "Certo. Ovvio. Io... solo... non avevo capito." Balbettò.

Il principe le baciò la guancia "Lo sai, Stella..." Le disse in tono affettuoso "...a volte mi sembra di non essere l'unico stupido in questo matrimonio."

Le guance di Stella si fecero rosse, e un calore diffuso le invase il petto e la gola. Sentì una punta di sincera felicità e una gioia semplice stringerle il cuore, e lo baciò sulla bocca senza pensarci.

"Stupido ci sarai tu, io sono solo distratta." Rispose poi in tono di finto disappunto, non riuscendo a dissimulare il sorriso che le stava comparendo sul viso.

Mentre Octavia se ne stava lì, tra le braccia di Stolas, e li guardava battibeccare in quel modo naturale e scanzonato, aveva l'impressione che i suoi genitori fossero la coppia più unita dell'inferno.

***

Octavia avrebbe ricordato quel giorno come un giorno pieno di luce e coloratissimo, come un giorno in cui tutto sembrava immensamente grande e colmo di meraviglia. L'ingresso del parco divertimenti altro non era stato che l'inizio di un mondo tutto da esplorare, un mondo che poteva appartenerle pienamente solo guardandolo. Un mondo in cui ogni desiderio era realizzato l'istante dopo averlo espresso.

E così ora camminava guardandosi intorno, non sapendo cosa scegliere prima, se le montagne russe, o il carosello, o la casa degli specchi...

"No! Niente casa degli specchi!" fece Stella cercando di dissimulare il panico nella voce.

"Ma perché?" si lamentò Octavia "Papà? Possiamo andare?"

"La mamma ha ragione tesoro, ci sono giostre più divertenti... oppure possiamo..."

"...giocare al tiro a segno!" esclamò Via correndo verso un banchetto in cui erano ordinati su tre file parallele nove piattelli. I premi in palio erano di tanti tipi, così colorati da non poter fare a meno di attirare l'attenzione di una bambina. Il primo premio era un peluche grande quasi quanto lei.

"Lo vinci per me?" domandò Via, rivolgendo uno sguardo speranzoso e colmo di fiducia verso Stolas, e lui acconsentì.

Le regole erano semplici: una pallina da ping-pong e tanti tiri quanti erano i piattelli, più uno di recupero. Facendo nove su nove si vinceva il primo premio: un peluche a forma di mela rossa, con grandi occhioni dolci e le guanciotte rosa.

Stolas ne prese due al primo colpo, ma mancò il terzo, e il quarto. Buttò giù il quinto a fatica, e il sesto aprendo un piccolo portale per farlo cadere con un dito.

"Stols? Hai mica appena barato?" gli sussurrò Stella all'orecchio.

"Hey! Ho solo sfruttato i miei punti di forza..."

Alla fine, ne aveva presi soltanto cinque su nove, e aveva vinto per Via una coroncina a fiori che lei aveva indossato come fosse una tiara, in un moto di infantile vanità. Ma continuava a fissare l'enorme peluche esposto con occhi grandi e sognanti.

"Lo vinco io." Esclamò Stella all'improvviso. "Un altro giro."

Il primo piattello cadde senza difficoltà, così il secondo, e il terzo e così via. Solo l'ottavo sembrò porre una flebile resistenza, ma alla fine cadde anche quello. Il nono si rovesciò al primo colpo senza esitazione. Alla fine, non aveva avuto bisogno di usare nemmeno il tiro di recupero.

Stella rivolse a Stolas un sorriso canzonatorio ed esclamò divertita: "Immagino dovrei ringraziarti, per tutte le volte che mi hai fatta arrabbiare!"

Così ora Octavia gironzolava con il gigantesco peluche a forma di mela, tenendolo tra le braccia, con un sorriso enorme stampato in faccia.

"Papà, sei bravo, ma mamma è bravissima." Aveva esclamato senza un velo di malizia "E comunque mi piace anche la coroncina di fiori." Aveva aggiunto poi, quasi a volerlo consolare.

E Stolas aveva sorriso a quel goffo tentativo di risollevarlo per qualcosa per cui non prova alcuna tristezza; anzi, provava per Stella un'ammirazione profonda, lei conosceva i suoi punti di forza, e agiva senza esitazione. Era così nel gioco perché così era nella vita, avrebbe tanto voluto che glielo insegnasse, ad essere sicuro e senza paure. Ma non era certo fosse qualcosa che si impara, forse era qualcosa che si aveva nel sangue. Sperò, in cuor suo, che Via lo avesse ereditato.

A metà pomeriggio Octavia aveva insistito tanto per avere una mela caramellata o dello zucchero filato. Stella era rimasta seduta su una panchina ombreggiata, con il peluche in grembo, ad aspettarli, mentre facevano la fila ad un chioschetto poco distante. Vedeva Via indicare con entusiasmo i disegni dei vari dolciumi sul cartellone esposto in alto, e Stolas accovacciato accanto a lei che sembrava attentissimo e coinvolto in qualsiasi cosa la loro bambina gli stesse raccontando.

"Molto bello il vostro peluche. E anche voi lo siete."

Un giovane, a giudicare dall'aspetto, di rango poco più basso del loro, gli si era seduto accanto, non invitato e non richiesto.

"Vi conosco?" aveva risposto lei, con una punta di disappunto nella voce.

"No. Ma io conosco voi. E le foto non vi rendono giustizia, insomma, guardatevi. Un visino così bello."

"Smettete di importunarmi. Sono qui con la mia famiglia."

"Sapete, non è raro che delle signore in situazioni come la vostra cerchino una... distrazione. Io potrei essere la vostra."

Stella si sentì ribollire il sangue di rabbia.

"E in che situazione sarei? Sentiamo."

"Voci dicono che vostro marito non -"

Stella gli afferrò un braccio e gli affondò le unghie nella carne.

"Sapete dove potete ficcarvele le vostre voci?" gli rivolse uno sguardo tagliente "Sparite dalla mia vista o farò in modo che il mio bel visino sarà l'ultima cosa che vedrete."

Il giovane sussultò, e si dileguò senza rispondere.

"Chi era il ragazzo che parlava con te?" domandò Stolas di ritorno.

"Uno di cui non vale la pena di parlare. E comunque dobbiamo stare più attenti a quello che va a spifferare in giro la servitù. Dovrò far volare qualche testa."

Stolas inclinò il capo. "Sono certo che non è niente di grave, e che non avremo bisogno di decapitare la servitù." Disse ridendo, cercando di farle riprendere la spensieratezza che aveva avuto fino a qualche istante prima; poi le porse una coppa di fragole affogate nel gianduia.

"Via ha voluto lo zucchero filato, e ho pensato tu preferissi queste."

Stella si addolcì a quel pensiero, e le ricordò i tempi della gravidanza, e un piccolo sorriso le affiorò sulle labbra. Stolas si sedette accanto a lei, e Via in mezzo a loro.

"Vuoi una fragola, amore di mamma?"

"Sì!"

***

Il pomeriggio era trascorso sereno, Stella aveva lasciato cadere nel dimenticatoio l'infelice incontro con il giovane, e aveva provato a soffocare tutti i pensieri collaterali a riguardo. I pensieri su Stolas, e su di lei, i pensieri su di loro come coppia, e come famiglia.

Va bene, forse Stolas non la vedeva come avrebbe voluto, lui vedeva la madre di Via, non la propria moglie, non una donna desiderabile. Ma la creatura delicata, da trattare con cura, che aveva messo al mondo la sua bambina. E, per quel giorno, poteva andare bene così. Era abbastanza. Sarebbe stato abbastanza per sempre? Il pensiero la tormentava, e lei lo soffocava nel sapore zuccherino delle fragole.

Perché lei, quando lui era così vivace, e allegro, così propositivo, vedeva sì un padre giocoso e premuroso; ma sentiva anche un moto interiore, un calore noto e frustrato da tempo, incrinato da quell'evento, ormai lontano negli anni, e soffocato da un apparente disinteresse. Quando lo vedeva così sicuro di sé, che manifestava la sua giovinezza, che rideva, che viveva, vedeva il proprio marito, il principe potente e gentile che le era stato promesso, vedeva un uomo desiderabile. E finiva per desiderarlo, e per desiderare che la guardasse, che la vedesse in un modo diverso, in quel modo in cui lei lo vedeva, e che la desiderasse anche lui.

"Stella?" Stolas le aveva toccato il braccio per attirare la sua attenzione, e lei era sobbalzata.

"Eh? Oh... scusa ero... sovrappensiero." Gli aveva rivolto un sorriso impacciato, e aveva ricacciato nell'angolo più profondo della mente i pensieri che l'avevano portata a estraniarsi dal mondo. Poi si era rivolta verso Via, e nel vederla così felice, nell'abito viola che le aveva comprato, ogni turbamento del suo animo si era ricomposto.

"Allora, amore, cosa vuoi fare adesso? Sta quasi tramontando il sole."

"La ruota panoramica." Aveva detto Via senza esitazione "Possiamo vedere tutto il mondo da lassù!"

In qualche modo era vero, il mondo forse non era così grande come poteva sembrare, il mondo poteva essere visto tutto in un solo sguardo dalla cabina di legno dipinto della ruota panoramica.

O il mondo, forse, era tutto dentro la cabina, il mondo intero erano loro, cristallizzati in quel momento felice, con Via appiccicata al vetro della ruota panoramica, a stupirsi di come gli abitanti dell'inferno apparissero piccoli come formiche, di come le montagne russe, o il trenino panoramico, prima così grandi e imponenti, sembrassero piccoli quanto i giocattoli che stavano a casa sul tappeto della sua cameretta.

E Stella pensò che forse, tutte le preoccupazioni gigantesche che le facevano paura, tutto il peso della sua insoddisfazione o l'enorme fantasma della loro solitudine, non erano molto diversi da tutte quelle attrazioni: così grandi quando ci camminavano in mezzo, e così piccole quando riuscivano a guardarle dall'alto, dal mondo protetto e superiore racchiuso dentro la cabina della ruota panoramica: quello della loro bambina, quello della loro famiglia.

"È stata una giornata bellissima!" esclamò Via con entusiasmo. "Anche se non ho potuto fare tutte le giostre le farò quando sarò più alta." Aggiunse con convinzione. "Farò anche quelle montagne russe là!" e indicò la ripidissima giostra su cui persino Stolas avrebbe avuto il timore di salire. "Lo zucchero filato sapeva di nuvole dolci. Papà, lo zucchero filato può essere solo rosa?"

"No, si può colorare di tanti colori."

"La prossima volta lo voglio...uhmmm.... azzuro, e viola, e arancione..." affermò poi, e continuò a raccontare la sua versione della giornata "Il parco è graaaandissimo, ma lo abbiamo fatto quasi tutto. E la prossima volta, papà, mamma ti insegnerà a vincere le cose."

A Stella scappò una risata, e Stolas si fece contagiare. Risero come non ridevano da tempo, abbandonandosi all'inganno dolce della felicità.

"Torneremo, vero? Tutti insieme." domandò Via poi. "Anche quando sarò grande?"

"Certo, tesoro mio." Rispose Stolas, e avvolse il fianco di Stella con un braccio, e posò una mano protettiva sulla spalla di Via.

E così, uniti in quell'abbraccio, grati della tregua che gli stava concedendo il mondo di fuori, guardarono il sole sparire oltre le colline rossastre del cerchio di Pride.

Notes:

Ho iniziato le feste in modo pessimo pubblicando un capitolo pesante e controverso, e mi faccio perdonare chiudendole così, con uno spaccato di serenità.

Sono stata così zuccherosa che stento persino a crederci. Sono stata così zuccherosa che mi sono auto-indotta la ship, e questo è un grande male! Sono l'autrice, perdindirindina! Non posso lasciarmi piegare e ingannare dalla fugace felicità dei giorni buoni!

Però per ora me li godo anch'io, e anch'io guardo tramontare il sole dopo questo giorno felice, non sulle colline del cerchio di Pride, ma sui tetti di una città come tante del nord d'Italia.

Mi piacerebbe dire a voi, e a Via, che i giorni felici dureranno per sempre, ma purtroppo sappiamo che molte cose sono in agguato a turbare la quiete apparente di questa famiglia.

Godiamoci il sapore dello zucchero filato, d'altronde sa di nuvole dolci.

A presto,

- Armilla Lunastorta

Chapter 26: Il sonno della ragione genera mostri

Summary:

Il ritorno di un grande problema, l'inizio di una tempesta che si trascinerà negli anni.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Il sonno della ragione genera mostri

 

"Possiamo rivedere la bambina delle altalene?" Via teneva una manina stretta in quella di Stella, e camminava guardandola mentre le parlava "Non le ho chiesto il nome. Mi sono dimenticata. Ma mi ha detto che ci va sempre il martedì pomeriggio."

"Allora torneremo al parco martedì" le aveva risposto Stella facendole un sorriso "E se la rincontreremo le chiederemo anche come si chiama!"

Via prese allora un andamento a saltelli, senza lasciare la mano di Stella. Era stato un pomeriggio sereno, e stavano rientrando a palazzo passeggiando nella luce tiepida delle ultime ore del giorno.

"Papà è a casa?"

"Non lo so amore mio, più tardi sicuramente."

"Mi ha promesso che mi avrebbe fatto vedere i cerchi di Sarno, una cosa così."

"Gli anelli Saturno?" Domandò Stella, divertita.

"Sisi! Quelli!" fece Via, annuendo con entusiasmo.

"Allora vedrai che tornerà in tempo e te li mostrerà!"

Stella aveva attraversato l'ampio cancello, e il vialetto lastricato e, solo allora, davanti al portone, aveva visto una figura immobile, leggermente curva su sé stessa, avvolta da un ampio mantello marrone, che sembrava attendere qualcuno. E quel qualcuno era lei.

"Tu e il tuo ingrato fratello state forse cercando di fregarmi?"

Nemmeno un saluto. Solo un'accusa lanciata con la solita voce roca, con la luce tagliente che filtrava da quegli occhi incappucciati.

Stella rimase distante dieci passi, sollevò Via e se la strinse al petto.

"Padre. Dovreste andare via."

"Andrò via quando saprò che cosa hai detto al tuo insulso sposo per farmi sostituire da tuo fratello in Assemblea. Qual è stato l'accordo? Prima una volta ogni tanto, così non me ne sarei accorto, e poi sempre più spesso fino a rimpiazzarmi? O è un caso che nell'ultimo anno io non sia più stato chiamato agli incontri?"

"Mamma? Chi è?"

"Uno che non è il benvenuto." rispose Stella, avvolgendola con le braccia.

"Perché non glielo dici? Perché non le dici che sono suo nonno?"

"Perché a stento posso considerarvi mio padre." Sputò lei. "E adesso andate via."

"È così che mi ripaghi? Dopo che ti ho crescita, che ti ho nutrita, che ti ho educata? Che ti ho resa quello che sei? Mi ripaghi facendomi tagliare fuori da tutto?"

Il cuore di Stella le martellava nel petto come se stesse per sfondarle lo sterno. Guardò verso la casa ed ebbe il sospetto che Stolas non fosse ancora tornato. Era sola con Via, e con la servitù. Era certa non ci fosse neppure Andrealphus.

"Toglietevi di mezzo e fatemi passare." Disse, ingoiando la paura che le invadeva la gola "Consegnerò la bambina alle balie, e poi potremo parlare."

Il Marchese si spostò di tre passi e lei entrò nell'androne. Richiuse la porta dietro di sé e consegnò Via a una delle balie di corte.

"Mamma, cosa vuole?"

Stella era accovacciata davanti ad Octavia, che la guardava con occhi colmi di preoccupazione e confusione.

"Non lo so amore mio, ma non è niente. Tu devi stare tranquilla. Ora la balia ti porta in camera. Se torna papà da un portale devi dirgli che c'è il Marchese e che io sono con lui all'ingresso. E che deve venire."

Via continuava a fissarla con due occhi grandissimi e perduti.

"Ripetilo, tesoro."

"C'è il Marchese all'ingresso con mamma. Devi andarci anche tu."

"Brava la mia bambina."

Poi si rivolse alla balia "Vale anche per voi, se il Principe Stolas torna dovete dirgli che il Marchese è qui, e di venire subito."

"Sì, mia Signora" la balia annuì, e condusse Via per mano per le scale del palazzo. E Octavia ogni tanto si voltava, a scrutare sua madre in fondo ai gradini, che le faceva cenno di stare tranquilla e le rivolgeva il più rassicurante dei sorrisi.

Quando fu fuori dal campo visivo della bambina, Stella si guardò intorno pervasa da una sottile sensazione di panico, notò il tagliacarte di vetro sul tavolo dell'ingresso. Prendilo. Sei da sola. Non è sicuro. Lo afferrò e lo nascose nelle pieghe del vestito. È una cosa davvero stupida. Pensò fra sé e sé. E comunque non mi servirebbe a niente. Ma la voce nel retro della sua testa aggiunse: Fargli male non è "niente".

Inspirò. Espirò. E promise a sé stessa che non lo avrebbe attaccato se non per difendersi. Poi aprì il portone d'ingresso e uscì.

"Non mi fai entrare?"

"No. Parliamo fuori. Non vi voglio in casa mia."

Il Marchese l'afferrò per un braccio e strinse forte, abbastanza da farle sentire un dolore sordo là dove affondavano le dita.

"Sei stata tu. Non mentirmi."

Stella serrò le labbra in una linea sottile. "Causarvi un danno sarebbe per me la più grande delle soddisfazioni...Se solo sapessi di cosa state parlando."

"Tu! Hai usato l'influenza che hai sul tuo maledettissimo sposo per portare tuo fratello a sostituirmi in Assemblea."

Gli occhi di Stella lampeggiarono di soddisfazione. Oh, dunque era così, Paimon lo stava pian piano tagliando fuori. Che le parole di Stolas avessero smosso nel sovrano qualcosa? O c'era forse dell'altro, e sotto la parvenza di una vittoria li attendeva un male peggiore?

"Non è compito di Stolas scegliere chi siede o meno in Assemblea. Evidentemente anche agli occhi del Re ormai apparite come un inutile vecchio."

"È impossibile. Sono il suo miglior generale. Ho guidato le sue legioni. Ho vinto le sue guerre. Gli ho consegnato te. Per il Re ho ancora valore."

La morsa sul suo braccio si fece più stretta, e suo padre la strattonò. Stella ingoiò un gemito; non voleva dargli nessuna soddisfazione.

"Potete continuare a stringere e strattonarmi quanto vi pare, tanto non farà mai male quanto ha fatto male a voi vedervi sostituito da un ventenne alle prime armi." Sputò, sprezzante "Evidentemente non siete più all'altezza, Andrealphus, invece, lo è."

"E cosa vuoi saperne di politica tu? Di chi è o non è all'altezza? Sei nata e cresciuta solo per aprire le gambe e figliare. E non sei buona nemmeno per quello, a giudicare dall'unica femmina che sei riuscita a partorire. Se il Re Paimon ha qualcosa da rimproverarmi, è solo la qualità della merce che gli ho dato." poi la spinse per terra sui gradini dell'ingresso "Forse non ti ho raddrizzata abbastanza, da piccola."

Lei vide l'anello brillare, e sentì gli occhi appannarsi e coprirsi di un velo biancastro, le orecchie le fischiavano e la mente sembrava annebbiata da una confusione sottile. Così, privata della vista, estrasse il tagliacarte di vetro e si scagliò contro suo padre sperando di colpirlo, ferendogli una mano. Sentì il sangue bagnarle le dita senza poterlo vedere.

"Andatevene!" urlò, ricadendo in ginocchio accecata dall'anello.

Poi la porta alle sue spalle si aprì. E Stolas comparve, i suoi occhi rosseggiavano di potere e di ira.

"Non vi avevo già detto che in casa mia non si usa la violenza, Marchese? È il secondo avvertimento. Al terzo dovrò tagliarvi la mano. E, non temete, mio padre vi tiene ancora in alta considerazione, in caso contrario Andrealphus avrebbe già ereditato il titolo."

Il principe raccolse Stella e la sorresse per rimetterla in piedi, poi la prese per mano e la condusse con sé di fronte a suo padre.

"Vi ricordo che adesso Stella è una Principessa, e voi solo un Marchese, o tutti questi anni di fedeltà alla corona vi hanno fatto dimenticare le gerarchie?"

Il Marchese rimase in silenzio, e Stolas incalzò.

"Lo avete forse scordato? Rispondete."

"No."

"No, cosa?"

"No, Vostra Altezza."

"Bene." Disse Stolas "Dunque, rivolgetele gli onori che si devono a una principessa."

L'uomo guardò Stolas colmo di umiliazione, e non riuscì a processare immediatamente la richiesta.

"In ginocchio." Chiarì il principe. Il Marchese esitò, ma sapeva che avrebbe dovuto, perché, in realtà, non aveva affatto dimenticato le gerarchie. Così si inginocchiò gonfio di vergogna e di rabbia.

"Ottimo." lodò Stolas, più morbido, e poi riprese nuovamente un tono duro "Non dovete osare toccarla, Marchese. Mi sono spiegato?"

Quando il Marchese andò via, rientrarono in casa, e si ritrovarono soli nel grande androne vuoto. Stolas la fece sedere sulle scale e le si sedette accanto. Stella stringeva ancora saldamente il tagliacarte di vetro nella mano destra. Il sangue di suo padre le chiazzava le dita sottili.

"Stella... è andato via... puoi lasciarlo adesso." Le diceva, forzandole delicatamente le dita. "Dai, dallo a me..." La mano di lei si fece molle e lasciò scivolare via l'oggetto. Stella guardava un punto fisso nel vuoto, era fredda al tocco e non parlava.

"Stella... Ti prego... dì qualcosa." fece lui, prendendole delicatamente il viso tra le mani. "Ci sono io. Sei al sicuro." E, solo allora, lei ruppe in singhiozzi e gli si accasciò sul petto, lo strinse forte come a volerci sparire dentro, e lui l'avvolse accarezzandole i capelli. Poteva sentirla tremare leggermente tra le sue braccia.

"Ho paura." Mormorò lei tra i singhiozzi "Di nuovo, o ancora. Come quand'ero bambina."

***

Aver avuto il mondo in mano ed esserne privato aveva reso il Marchese più instabile che mai. E, se l'istinto di conservazione – come lo chiamava lui – o semplice codardia – come l'avrebbero chiamata gli altri – l'avevano portato ad allontanarsi, umiliato e sconfitto, dal palazzo di Stolas, lo stesso istinto non aveva impedito che tornasse a tormentare Andrealphus.

Per qualche giorno era rimasto al suo palazzo, a trattenere l'impulso di presentarsi in Assemblea, alla fine di un incontro qualsiasi, ed affrontare suo figlio. E, per qualche tempo, ci era riuscito. Ma la smania di controllo era tornata ad accendersi col passare dei giorni, l'incredulità per essere stato sostituito era alimentata dall'assenza di risposte. Paimon non lo avrebbe mai fatto. Era questo che continuava a ripetersi. E dunque, se non era del sovrano la responsabilità della sua rovina, e se non era sua, perché non avrebbe potuto esserlo, doveva essere di quell'ingrato di suo figlio che, di certo, da tutta la vita aspirava a portagli via il suo ruolo.

Contrariamente a Stella, Andrealphus sapeva perfettamente che cosa ci facesse suo padre, a tarda sera, seduto su una delle panche di legno dell'austero corridoio del palazzo dell'Assemblea. Aveva temuto quel momento per oltre un anno, e dopo che sua sorella gli aveva raccontato dell'imboscata a palazzo sapeva benissimo che era solo una questione di tempo prima che toccasse anche a lui affrontarlo. Sapeva anche che sarebbe successo quella sera, poiché Stolas non era presente all'incontro, e suo padre temeva il principe più di quanto non avrebbe mai ammesso.

Il Marchese si alzò in piedi quando vide suo figlio emergere dalla sala dell'incontro, seguito da una folla di duchi, conti e baroni e altri rappresentanti della piccola e grande nobiltà. Andrealphus gli si avvicinò a passo lento e controllato.

"Cerchiamo di non dare scandalo." Disse, prima che suo padre potesse proferire parola. "Parliamo civilmente, da uomo a uomo, qui." Aprì una porta che dava su uno studiolo piccolo e spoglio, illuminato dalla fioca luce di una lampada e da quella che filtrava dall'ampia finestra che dava sul chiostro interno. Quando la porta fu richiusa il Marchese squadrò suo figlio dalla testa ai piedi; Andrealphus stava dritto nell'abito azzurro polvere con la giacca di doppio filo di seta, con la camicia dai bottoni perlacei e i gemelli blu intenso che brillavano sui polsini, e al collo un Ascot damascato dello stesso colore.

"E io che pensavo che la femmina fosse tua sorella." Disse il Marchese in un sibilo di disappunto "Che diavolo ti metti addosso per presentarti in società? Sembri il pupazzo di una torta di nozze."

Andrealphus piegò le labbra in una smorfia di fastidio, poi provò a sostenere lo sguardo di suo padre senza cedere al sottile timore reverenziale che gli suscitava.

"Non penso siate qui per discutere delle mie scelte sul vestire."

"No, su un altro tipo di scelte, però, sì." Sibilò ancora suo padre "Allora? Chi hai ricattato per prendere il mio posto? Certo è che dovevi avere roba grossa per-"

"Non sono così meschino da ricattare qualcuno." Disse Andrealphus.

"Oh beh... allora davanti a quale nobile pomposo hai pensato bene di inginocchiarti?" Fece il Marchese senza alcun tentativo di nascondere l'allusione.

Andrealphus spalancò gli occhi di incredulità, ma cercò di mantenere l'espressione più neutra possibile mentre diceva:

"Di solito preferisco siano gli altri a inginocchiarsi davanti a me."

Uno schiaffo lo colpì prima che potesse accorgersene, e gli stampò cinque dita sulla guancia sinistra. Ma Andrealphus non mosse un muscolo.

"Vi siete sfogato? Avete finito?" disse invece rimanendo erto immobile, ingoiando il grumo di saliva che gli si era accumulato in bocca "Un insulto o uno schiaffo non cambieranno il fatto che siete stato tagliato fuori dal re in persona. Non c'è nessun grande complotto, non c'è nessun grande colpevole. C'è solo il volere di Paimon, e fareste meglio ad accettarlo, prima che mio cognato mantenga le sue promesse su quelle mani che vi piace tanto usare a sproposito."

***

Andrealphus tornò al palazzo di Stolas con la sensazione di avere guadagnato e perduto qualcosa tutto in un colpo. Attraversò l'androne silenzioso e salì le scale, udì un gran trambusto provenire dalla camera di Octavia, e la sua voce di bambina che raccontava qualcosa di semplice come fosse strabiliante. E la voce di Stella domandare "Davvero? Ma è bellissimo!" a qualsiasi cosa sua figlia le stesse raccontando. E Stolas ridere di gusto e dire "Va bene! Ma scegliamo l'ultima storia e poi si dorme!"

Si avvicinò alla cameretta, guardò dentro e li vide seduti sul tappeto con libri e bambole sparsi intorno, e con Via nel solito pigiama rosa con le stelle.

"Andre!" fece Stella notando la sua figura "Non ti ho visto per tutto il giorno!"

"Oh...io... volevo solo darti la buonanotte." rispose lui.

"Dai, vieni! Stavamo giocando." Disse sua sorella rivolgendogli un sorriso sereno.

"Io non... io... sono stanco Stella."

Octavia lo guardò in silenzio come se fosse per lei una creatura misteriosa e sfuggente.

"Resta." Disse Stella, più seria, con un tono morbido e dolce. "È l'ultima storia, poi andiamo a dormire."

Andrealphus avanzò nella camera con il passo di uno che entra in un mondo che non gli appartiene, Octavia tese le mani verso l'alto per porgergli un libro illustrato.

"Leggi tu?"

"No, piccola, io... ascolto, se va bene." Rispose in un sussurro, e sedette accanto a loro sul tappeto.

Notes:

E alla fine la tempesta è arrivata, forse non il tipo di tempesta che ci aspettavamo.

E il prezzo dei favori non richiesti di Paimon si paga con una mina vagante che si presenta non invitato in casa o in assemblea, a cercare negli altri i motivi di un fallimento che può imputare soltanto a sé stesso.

È proprio vero che, quando la ragione dorme, i mostri peggiori che ci abitano dentro prendono il sopravvento.

Ci vediamo nel prossimo capitolo, che sarà davvero duro!

A presto,

- Armilla Lunastorta

Chapter 27: Vergini e Cavalieri

Summary:

Un litigio apre le porte a risvolti inaspettati.
Andrealphus va in bianco ma per una buona causa.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Vergini e Cavalieri

 

La prima volta che qualcuno ci aveva provato con lei era stato al primo compleanno di Octavia, quando le voci malevole iniziavano a dire che il principe aveva più il feticcio dei libri che quello delle belle donne.

Certo ci voleva coraggio, da parte di un viscontino qualsiasi, per fare delle avances ad una principessa, per giunta in casa sua, al compleanno della sua bambina, ma quel tizio lo aveva fatto comunque. L'aveva invitata a danzare e poi, col suo sorriso più sfacciato e le aveva detto:

"Ho sentito che i vostri bisogni vengono trascurati, mia Signora, lasciate che vi offra i miei servigi."

E in tutta risposta si era preso uno schiaffo in piena faccia.

"Portate via questa feccia da casa mia." aveva ordinato Stella, rivolta alla servitù.

La seconda volta che qualcuno ci aveva provato con lei era stato al parco, mentre era con Octavia nel passeggino. Gli si era avvicinato un giovane avvenente poco più grande di lei. Aveva fatto i complimenti alla bambina, e poi le aveva detto:

"Siete radiosa, mia Signora, la maternità vi dona." e le aveva passato un biglietto nell'afferrarle le dita per il baciamano.

«Mi scuso per il mio ardire.
Mi piacerebbe vedervi fuori da palazzo.
Fatemi chiamare se mi ritenete degno.»

Il biglietto era finito in coriandoli nel primo cestino della spazzatura. Stupidi uomini.

Poi c'erano stati i complimenti sottili ai banchetti, le preghiere insulse e disperate nei corridoi del palazzo di Paimon, l'irruzione di un duca ubriaco nelle sue stanze durante di Solstizio d'inverno, che quell'uomo avrebbe ricordato come "quella volta in cui mi ruppero la testa con una teiera".

Poi c'era stato l'inutile giovane al parco divertimenti, e gli innumerevoli biglietti anonimi lasciati cadere nelle tasche del soprabito. E le numerose lettere di uomini sconosciuti che si struggevano per lei.

E lei, qualche volta, aveva riletto le sciocchezze che stavano scritte nelle lettere d'amore, sognando un po' come sarebbe stato se tutto quello fosse successo prima del matrimonio. Immaginandosi ragazzina, ingenua e innamorata, a rispondere con biglietti profumati lasciati in mano a qualche paggetto. Oh, se lo avesse davvero fatto a quel tempo suo padre l'avrebbe riempita di botte, o l'avrebbe chiusa in convento. C'erano i conventi all'inferno?

Al contempo quelle lettere la disturbavano per la sfacciataggine e l'ardire: si aspettavano che fosse così disperata? Che avrebbe dato scandalo? Sapeva bene che non era una questione d'amore, non che avesse comunque lasciato uno spiraglio a qualcuno di loro per permettergli di farla innamorare: era una questione di reputazione. Avrebbe passato la vita intera nella frustrazione più lancinante, ma non avrebbe rovinato l'immagine della famiglia, e la propria, per un capriccio.
Forse per questo le donne dei suoi romanzi le davano fastidio e non riusciva mai ad arrivare alla fine senza provare rabbia: l'appagamento sopra la reputazione... che sciocchezza. Solo una cosa restava a una donna in quel mondo inutile: ed era il modo in cui la vedevano gli altri.

Via compiva cinque anni, e c'erano tutti, anche il bel giovane che le aveva lasciato il biglietto nel parco. Avevano parlato e avevano riso, e lo aveva trovato tollerabile, più tollerabile della media, quasi piacevole. E poi lui le aveva chiesto, di nuovo, se potesse avere qualche speranza, se lo ritenesse degno di lei. E lei, con una punta di amarezza nella voce, gli aveva risposto di lasciarla stare.

"Sono sposata, ed è il compleanno di mia figlia."
"Ma siete una donna felice?"
"Non è questo l'importante. Ora andatevene, per favore. Siete già fortunato che non vi abbia preso a schiaffi."

E così lo aveva congedato. Ma quella domanda continuava a frullarle nel cervello.

Siete una donna felice?

La festa era finita e gli ospiti erano andati via. Aveva messo a letto Octavia. Era così bella, così tonda, con tutta la grazia timida del padre, ma aveva gli occhi luminosi di lei, e questo le accendeva il petto di un po' di orgoglio materno.

Siete una donna felice?

Quella frase non la lasciava in pace.

Tornata nelle loro stanze trovò Stolas nel salotto da tè, con un calice di rosso e una bottiglia accanto, brillo. Beh, quella sì che era una novità edificante. Non gli succedeva dal suo esame da Guardiano. Almeno aveva avuto la decenza di scegliersi qualcosa di meno deprimente dell'assenzio.
C'era la lampada accesa e in qualche modo Stolas aveva trovato la forza per leggere. Lui non alzò nemmeno la testa dal libro e le disse:"Buonanotte, non ti preoccupare, se Via si sveglia ci penso io."

"Sei ubriaco. Se Via si sveglia ci vado io."

"Non lo sono." rispose lui senza nemmeno guardarla. "Va' a dormire. Ho detto che ho tutto sotto controllo."

Fu una scintilla, e poi il fuoco. Chiuse la porta dietro di sé per non svegliare Via, e poi frantumò la stupida lampada che illuminava le sue letture.

"Non alzi nemmeno la testa ormai? Hai tutto sotto controllo dici?" urlò.

E lui alzò la testa, sgomento, per guardarla. Era... arrabbiata? No. Era...triste? Delusa?

"Ti sei almeno accorto che per tutta la sera un uomo ha provato a infilarsi nel nostro letto?"

Stolas la guardava in silenzio.

"Ti sei almeno accorto che da anni tutta la nobiltà prova a sfilarmi le mutandine perché tutti sanno che ti importano più i libri di tua moglie?"

Stolas aveva la bocca spalancata e il volto pietrificato.

"Lo sai, Stolas, quanti amanti avrei potuto avere in questi anni? Lo sai quante volte Andrealphus mi ha suggerito di trovarmi qualcuno che si occupasse dei miei bisogni?"

Stolas la fissava. Non sapeva cosa dire. Non sembrava capire.

"Te ne starai lì a fissarmi e non dire niente?"

Stolas roteò gli occhi. Bene. Quello gli era decisamente nuovo.

"Che vuoi che faccia? Che ti dia il permesso?"

Stella lo guardò stizzita. "Stai scherzando spero." ringhiò con le guance gonfie e rosse, Stolas alzò un sopracciglio e aggiunse con una punta di sarcasmo:

"Oppure vuoi che ci diamo appuntamento una volta al mese per sfogare i tuoi istinti? Oh Satana, sarebbe ridicolo..."

Lei fece schioccare la lingua e rise forte.

"Oh, andiamo, come se fossi mai stato minimamente in grado di soddisfarmi."
"Hai innescato questa discussione per insultarmi?"
"E tu Stols? Che insinui che io ti stia chiedendo il permesso di scoparmi qualcun altro?"
"Te ne esci così dal nulla con questo. Cosa vuoi che ti risponda?"

Si era fermato a pensare, massaggiandosi le palpebre. Poi aveva aggiunto provando a riprendere la calma:

"Abbiamo fatto tante cose insieme. Con Via. Io credo di essere sempre stato gentile."

"Sul 'sempre' potrei dissentire."

"Oh, andiamo, è successo anni fa. E, a parte quello sbaglio, credo di essere stato premuroso. Credo di essere stato un marito buono. Non capisco perché non... non capisco cosa vorresti di piú."

"Non mi basta, Stolas! Che tu sia gentile non mi basta. Non mi basta che tu sia un marito buono qualsiasi cosa significhi. Questa vita mi sta logorando."

"Che cosa vuoi, allora?" chiese serio.

"Oh, non lo so, non lo so. Mi sento un'ombra... voglio...voglio che tu mi veda." Strinse i pugni sui fianchi "Oh Satana, non ci credo che ti sto facendo questo discorso del cazzo."

"Io ti vedo. Sei una madre straordinaria e-"

"No Stolas. No. Non sono il fiorellino sacro che ha dato alla luce nostra figlia. Sono ancora una donna. Per quegli uomini là fuori sono una donna. Per te... non lo sono mai stata."

Stolas scosse la testa. Era solo un'altra delle sue crisi di nervi.

"Credevo fossimo d'accordo sulla questione dell'amore. Non è una cosa che potremo avere in questa vita. E mi sembrava che tu fossi la più convinta a riguardo, quando eravamo ragazzi. Io l'ho accettato. Pensavo l'amore sarebbe stato divertente, appagante. Beh. Non lo è. Lo hai detto anche tu: è insoddisfacente. Sono parole tue, non mie."

Lei sentì un lampo di sgomento attraversarle il cuore, non ci arrivava, non capiva. Pensava davvero che gli stesse chiedendo di amarla? Voleva solo essere vista. Che le parlasse, qualche volta, di qualcosa che non avesse a che fare con Via. Che si degnasse di toccarla ogni tanto. Il minimo indispensabile per non farla sentire una cosa posata ad un tavolo da tè, su un divanetto da salotto da esporre quando serve, e poi riposta e dimenticata. Esplose.

"Perché non riesci a capire? Prendo in braccio Octavia e mi vedi. La poso e *puff* Stella è sparita, dov'è? Non c'è. Perché non è più l'estensione di tua figlia. Non mi parli. Non mi racconti niente. Parliamo solo di Via. Sono da sola tutto il giorno mentre tu vai a fare qualche stupida profezia, o presiedi a qualche stupido festival del raccolto. Passo tutto il tempo a spettegolare con il mio codipendente fratello rendendolo ancora più attaccato alla mia gonnella! Così al posto di avere una bambina, ne ho due!"

"Mi accusi di non vederti? Ma se non mi rivolgi la parola! Oh, aspetta, lo fai! Ma è solo per darmi dello stupido, dell'imbranato o per recriminare qualche mia mancanza! Lo stai facendo anche adesso. Credimi Stella, il fatto che non siamo più andati a letto è l'ultimo dei nostri problemi. Abbiamo dovuto farlo finché è stato necessario, poi è arrivata Via, non abbiamo più da tempo nessun obbligo di quel tipo."

Stella ebbe l'impressione che le avessero sparato, ma accusò il colpo senza parlare. E allora Stolas continuò:

"Non ti interessi del mio lavoro. Non ti interessi delle cose che amo. Ti sei mai chiesta come mi sento io? Se mi sento un'ombra? Se mi sto logorando?"

"Ogni mattina mi dici "passa una buona giornata" e sparisci. Mi riempi di deprimenti carezze di circostanza e mi dai quei maledetti baci sulla guancia ogni giorno, alla stessa ora. E ogni notte stai a leggere nello studio. O a bere, a quanto sembra, beh almeno abbiamo una novità ogni tanto! E sì, è evidente che ti stai logorando." fece lei, indicando la bottiglia. "Quando devo chiederti le cose? Quando devo interessarmi a te? Quando siamo con Via a giocare alla famiglia felice?"

Lui, per dispetto, prese un grosso sorso di vino. Poi la guardò tagliente.

"Oh Stella, non sono io che mi nascondo, io non so nemmeno cosa fai, non so chi sei, è assurdo che la donna con cui ho una figlia sia una sconosciuta! Nascondi ancora i libri tra i cuscini così che io non sappia che leggi? O è stata una fase della giovinezza?" lo aveva detto apposta. Perché sapeva che l'avrebbe colpita.

Stella spalancò gli occhi. "Hai frugato nelle mie stanze?"

"È casa nostra, non frugo, ci sono dentro. E io non ti ho mai nascosto niente."

"Ah sì?" fece lei guardandolo di sbieco. "E allora che cazzo stai leggendo?" Gli strappò il libro dalle mani. "Oh oh. Sono io che mi nascondo? Non tu che usi la sovraccoperta di un libro di astronomia per nascondere... Che diavolo è? Ah, ma io lo so cos'è! Perché io ti guardo! È uno stupido Harmony! Sei un Principe o una casalinga annoiata Stolas?"

"Non sono affari tuoi quello che leggo."

"E quello che faccio io quando sono sola, sono affari tuoi?"

"Ridammi il libro Stella."

Ma Stella aveva iniziato a leggere.

"Ti piace questa merda quindi?

«...ma il prode cavaliere non poteva più resisterle. Le avrebbe portato via il fiore dell'innocenza quella notte, nel granaio, mentre infuriava la tempesta...»

E dimmi Stolas, sono solo fantasie erotiche o ti stai ammalando di bovarismo? Ti ha fatto così schifo la nostra prima volta che vorresti un'altra vergine per riprovare? "

"Fottiti Stella. È solo una storia d'amore! Perché mi torturi? Eravamo d'accordo..."

"Non ti sto chiedendo amore." Lo interruppe lei e gli scagliò contro il romanzetto rosa.

Stolas sussultò, e poi si alzò in piedi. Sentiva la testa leggera e il vino gli aveva donato una rinnovata sicurezza. Voleva che la vedesse? Va bene. Che glielo chiedesse ancora. Avanzò di un passo, dritto e impassibile, con lo sguardo severo e infastidito. Lei indietreggiò e colpì uno scaffale con la schiena.

"Dunque, che vuoi?" domandò.

"Hai idea di quanto sia umiliante che tutti mi pensino così disperata da sentirsi autorizzati a provarci così spudoratamente?" prese un libro a caso dalla libreria e gli lanciò anche quello "Tutti! Anche i ranghi più bassi della nobiltà!"

Stolas prese il libro al volo e lo gettò tra le carte sul tavolino. Si sentì un rumore sordo. Poi le fu davanti.

"Hai idea di quanto sia deprimente sapere che tutto quello che otterrai dal padre di tua figlia, giorno dopo giorno, sarà nulla di più che un formale bacio sulla guancia?" già che c'era ruppe un soprammobile, giusto per sottolineare il punto.

"Avrei dovuto capire che stavo sposando un'isterica." Disse lui con una voce calma. Quella pacatezza, e l'insulto così inelegante per l'immagine che aveva sempre avuto di Stolas la facevano andare fuori di testa. E la ferivano, anche se non lo avrebbe ammesso mai. Gli occhi le si riempirono di lacrime e di offesa. E lo schiaffeggiò. Voleva una reazione. Aveva bisogno di una reazione. "Sei solo un depresso del cazzo." disse a denti stretti. Lo aveva detto solo per fargli più male di quanto lui non ne avesse fatto a lei. E ci era riuscita. Stolas sentì una piccola fitta sotto lo sterno, e le afferrò i polsi, chiudendo la distanza che li separava. Lei provò a spingerlo via, ma lui era più forte. Riuscì solo a scuoterlo leggermente, e a farlo indietreggiare di un passo. "Lasciami!"

E come in una danza erano di nuovo sul divanetto. Lui accasciato tra i cuscini, lei a cavalcioni su di lui. I loro corpi non erano così vicini da prima della nascita di Via.

"Mi chiedi cosa voglio Stols? Passione. Qualcosa di fisico e reale. O mi vuoi far credere cha a te bastano le fantasie tra le pagine dei libri?"

Gli occhi di Stella erano una fiamma accesa, e Stolas sentiva il calore del corpo di lei irradiarsi e avvolgere lo spazio intorno a loro.

"Certo che voglio qualcosa di vero!" disse lui prendendole il viso, e lei sussultò al suo tocco, e un brivido caldo le percorse la spina dorsale "Certo che voglio sentire qualcosa di reale anche io." La sua voce tremava di anticipazione.

Stolas non riuscì a dire altro, pervaso da un moto interiore soffocato da tempo, mentre aveva negli occhi l'immagine di lei con le ciocche scomposte che le incorniciavano il viso, e la sua pelle bianca che riluceva come la luna nel buio della stanza. Stella gli afferrò i capelli sulla nuca e tirò forte, strappandogli un lamento.

"Se c'è una cosa che ricordo" mormorò soddisfatta "è che con te non bisogna essere troppo gentili." e catturò le sue labbra, e lo baciò, e lo morse appena sul labbro inferiore.

Stolas sentì aggrovigliarsi lo stomaco, un groviglio caldo e noto, il preludio di una catastrofe. E Stella avvertì un'inequivocabile reazione premere contro di lei. Il tavolino tremò e il calice si rovesciò macchiando irrimediabilmente le carte, e il marmo rosa.

Quella volta fu carnale e terreno, e anche se non avevano lo stesso sapore, per confondersi l'uno nella bocca dell'altra, lei lasciò che le note fruttate del vino le invadessero la bocca, e lui bevve dalle labbra di lei il dolce sentore del miele. E lei vagò con la sua bocca sul collo di lui ad assaggiargli la pelle, per ricordare la mappa di un corpo un tempo noto e dimenticato.

Lui le liberò i seni dalle coppe del vestito e lei, nell'impazienza di spogliarlo, fece saltare i bottoncini d'argento della camicia. In ogni movimento e in ogni respiro si leggeva la smania di cercarsi e l'urgenza di aversi.
E fu al tocco caldo delle labbra di lui sul suo petto che lei affondò le dita tra i suoi capelli, come a trattenerlo. E lui cercò con i palmi il lato dei suoi seni nudi, e i suoi fianchi avvolti ancora nella seta del corpetto steccato. E lei percorse il torace di lui, e gli slacciò i pantaloni con mani impazienti. Stolas si abbandonò al suo tocco con un gemito soffocato. Poi lascio che la sua mano le percorresse la linea del ventre teso, fino ad arrivare a sfiorarla, con le sue dita sottili, oltre l'orlo del vestito, strappandole un sospiro.

"Allora Stols? In questo gioco chi vuoi fare?" lo provocò lei "Il cavaliere errante o la vergine indifesa?"

E lui la afferrò tra i glutei e le cosce e la sollevò di peso. Così, prima che potesse accorgersene, Stella si ritrovo sdraiata sulla schiena tra i cuscini del divano, con Stolas sopra di lei, con la camicia aperta sul petto e gli occhi infiammati di una luce nuova.

"Oh. Hai scelto il cavaliere." Tubò, quasi a prenderlo in giro "Non me lo aspettavo."

"Chiudi quella bocca." disse lui, portando di nuovo le sue labbra su quelle di lei.

Così accadde, e tornarono a conoscersi ancora, per la terza volta in una vita. E se la prima volta era stato straziante ed ingiusto, se si erano sentiti costretti e volati; se la seconda li aveva portati a scoprirsi, timidi e incerti, per creare qualcosa dall'unione dei corpi; la terza non portava con sé costrizioni né obblighi: non c'era nessuno medico di corte ad attenderli oltre le porte delle loro stanze, non c'erano giorni fertili da contare né eredi da generare, non c'erano costellazioni né stelle, non c'erano fiori. C'erano solo loro, nella penombra del salotto da tè, e l'egoistico piacere della carne. E imparare a conoscere l'altro non era che un modo per conoscere sé stessi.
Così avrebbero lasciato che accadesse altre volte, per molti anni, per la struggente solitudine, per la fame d'amore che, lo sapevano, non potevano colmare così. Avrebbero lasciato che accadesse dopo litigi furibondi che sapevano come iniziare e non sapevano come finire, dopo essersi urlati addosso, dopo essersi feriti; o dopo i più delicati momenti di tenerezza, per cercare di mantenere vivo, almeno per un'altra notte, l'inganno dolce della felicità.

***

Octavia era sveglia. Aveva sentito la lampada rompersi. Li aveva sentiti urlare. Non aveva voglia di sentirli litigare. Era il suo compleanno. Così, prima che il litigio degenerasse ancora, si era calata giù dal letto e si era allontanata da quell'ala del castello. Aveva passeggiato per i corridoi vuoti con quel passo goffo ed energico che hanno bambini. E poi si era rannicchiata in un angolo del corridoio abbastanza lontano dalla stanza dei suoi genitori, e aveva iniziato a piangere in silenzio.

Andrealphus teneva sottobraccio, con fare civettuolo, un giovane rampollo in giacca gialla con copricapo piumato di dubbio gusto, e stava per ritirarsi per la notte, quando vide sua nipote, in fondo al corridoio, da sola e perduta. E gli parve di rivedere sé stesso, bambino, rannicchiato da solo e smarrito, in preda a una delle mille emozioni che non sapeva comprendere ancora, e fu colto da una punta di commozione nel petto. Che cazzo ha combinato adesso quella coppia di idioti?

"Senti...lordcometichiami." disse al giovane che era con lui "Stasera non se ne fa niente, vattene, fila via, sparisci!" il ragazzo fu turbato e confuso da quel cambio di atteggiamento, ma si dileguò senza fare domande.

Andrealphus si avvicinò a grandi passi alla bambina perduta.

"Via, tesoro, che succede?"

Via alzò la testa e si asciugò gli occhi col dorso della mano. Aveva proprio gli occhi grandi e luminosi di sua madre. E lo stesso modo di asciugarsi le lacrime.

"Litigano" disse "È colpa mia."

Stupidi imbecilli. Pensò Andrealphus.

"Non è colpa tua, stellina." rispose prendendola in braccio.
"Sì invece" disse la vocina, timida e lieve "Li ho sentiti dire il mio nome."

Stupidi imbecilli due volte. Si disse Andrealphus. A colazione gli avrebbe fatto il culo.
Accarezzò la testolina arruffata di Via.

"I grandi litigano a volte. Non vuol dire che non si vogliano bene. E soprattutto, i tuoi genitori tengono molto a te. I loro litigi, devi ricordartelo, non sono colpa tua." cercò di rassicurarla.

Ma Via aveva ripreso a piangere in silenzio, con le guance paffute coperte di grosse lacrime.

"Stai diventando grande." Provò a cambiare discorso "Ti è piaciuta la festa?"

Via annuì. Ma poi si fece pensosa.

"Avresti voluto qualcosa di più?" domandò lui.
"No... Solo... È inverno, volevo la neve."

Andrealphus sorrise. E fu come se Via stesse consolando lui, come se fosse lei a volergli dare uno scopo e a rassicurarlo. Che stupido era stato ad esserne geloso. Era sangue del suo sangue e... le voleva bene.

"Non è niente a cui lo zio Andre non possa rimediare." Le disse rivolgendole un sorriso ampio, un'espressione a cui era poco avvezzo, e che lo fece sentire bene. A quei due stronzi ci penserò domani. Poi se la aggiustò in braccio per liberare la mano destra:

"Va bene piccola. Facciamo un pupazzo di neve."

Notes:

Chiedo venia, gentili lettori, ma un matrimonio bianco per 17 anni io non lo auguro nemmeno al mio peggior nemico.
Ho scritto la scopata con le premesse più tossiche della storia? Forse. O forse no... d'altronde si parla di fanfiction, suvvia, chi vogliamo prendere in giro!

Per qualcuno il sesso può unire, per qualcun altro può alleggerire una situazione pesante, oppure, qualche volta, può peggiorare le cose. Chissà che cosa porterà questa novità negli equilibri già pericolosamente precari.

Andrealphus, invece, è andato in bianco, ma per una buona causa. Eh, Andre... forse Stella non è l'unica in grado di smuovere qualcosa nel tuo freddo cuoricino. Accetta il fatto di aver bisogno anche tu degli affetti, grandissimo stronzo!

Volevo chiudere insultando Andrealphus, perché ci sta sempre. Come ci sta sempre memare sul suo essere Elsa.

E niente... alla prossima!

E usate le protezioni!

- Armilla Lunastorta

Chapter 28: Incompleti complementari

Summary:

Il mattino dopo Andrealphus fa un discorsetto ai due sposini. Finisce per dire una parola di troppo. Stella e Andrealphus hanno un momento tra fratelli.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Incompleti complementari
 

Al mattino era tornata la bonaccia, non c'erano tracce della tempesta della notte, se non qualche livido sui loro corpi, nascosto dalle costose vestaglie da camera, e un piccolo taglio sotto il piede di lei, per aver calpestato i frammenti della lampada rotta.
Sembrava non esserci più nemmeno rabbia o rancore, né desiderio. Stavano per lo più in silenzio con il loro tè, e i loro muffin ai mirtilli, e si scambiavano qualche parola ogni tanto, cose da poco, senza vera intenzione di parlare:

"Fa freddo questa mattina."
"Già..."
"..."
"Dovremmo far cambiare le tende."
"Quelle che hai scelto andranno benissimo."
"..."
"..."
"Passami lo zucchero."

Non osavano guardarsi per il sottile imbarazzo, come se fossero stati l'uno per l'altra la scappatella di una notte, e ora si ritrovassero il mattino dopo in casa con uno sconosciuto.

"Via è qui?" La voce di Andrealphus echeggiò nella veranda chiusa. Ovviamente era vestito di tutto punto già a quell'ora della mattina.

"Sta dormendo. Ho controllato un minuto fa." fece Stella.
"Sta dormendo." Confermò Stolas.

Andrealphus sorrise. "Bene. Ne sono felice." Poi la sua espressione mutò, si fece serio, sbatté i palmi delle mani sul tavolo da tè. "E chi ce l'ha messa a letto secondo voi?" urlò a pieni polmoni "Perché cazzo girava in lacrime nell'ala est ieri notte?"

Stolas sussultò sulla sedia, Stella si alzò in piedi e indietreggiò tre passi.

"Che cazzo avete ancora da litigare voi maledettissimi idioti? Cosa vi porta a urlarvi contro in piena notte e spaventare quella povera bambina?"

Ci furono interminabili secondi di silenzio. I due sposi si guardarono. E lui guardò loro, e notò il loro sguardo imbarazzato e colpevole. E glielo lesse in faccia. "Non ci credo." Si passò una mano sugli occhi e trattenne un rantolo di disapprovazione "Avete scopato. Dopo quanto? Cinque anni?"

"Non sono cazzi tuoi." Gli rispose Stella livida in volto.

"Sono cazzi miei se devo raccogliere i figli che perdete in giro per il palazzo. Sono cazzi miei se vedo mia nipote piangere in corridoio di notte. Sono cazzi miei perché io lo so cosa si prova a..."

Merda. Non davanti a Stolas.

Si avvicinò a Stella pieno di rancore, la afferrò per un braccio affondando le dita, inconsapevolmente, in uno dei lividi della notte. Stella trattenne una smorfia di dolore.

"Tu sai cosa si prova..." le disse in un sussurro "...a non capire che succede in casa. Ad avere una maledetta famiglia disfunzionale. A vagare da soli di notte per non sentire le urla o..."

"Sta' zitto." si divincolò "Lo so." Lei ora sembrava amareggiata e colma di senso di colpa.

Stolas era seduto lì, e aveva l'impressione di stare in una macchina del tempo, e di non stare guardando sua moglie, poco più che ventenne, discutere con suo fratello maggiore, ma gli sembrava di vedere due bambini sconosciuti, proiettati in un mondo sbagliato e solo loro, da cui continuavano ad escluderlo.

"E tu..." disse poi rivolto a Stolas "... sono certo che anche tu hai passato un qualche tipo di merda. E lo vedo che entrambi, per qualche motivo misterioso, ci tenete ad essere dei genitori decenti."

Sentirlo dire proprio da Andrealphus era forse una delle cose più umilianti che gli sarebbero potute accadere. Lei si torturava le cuticole per scaricare la tensione e l'imbarazzo, lui stava zitto con gli occhi bassi.

"Dovete darvi una regolata." Continuò Andrealphus. "E tu, cognato, Stolas, Vostra Altezza Reale, o come diavolo vuoi che ti chiami...non me ne frega un cazzo se dopo che ti dirò questo deciderai di farmi giustiziare o chessò io. Ma qualcuno deve pur dirtelo: sei evidentemente e indubbiamente depresso, e devi farti vedere da qualcuno, devi riprendere il controllo. Se no finirà che, presto o tardi, proverai ad ammazzarti e ci riuscirai pure, e Via non –"

"Andrealphus!" sua sorella lo schiaffeggiò in pieno viso, a mano aperta. "Sei un bastardo." Prese a piangere istericamente.

Stolas continuava a non capire, si avvicinò a lei, per avvolgerle le spalle. Lei tremava.

"Non toccarmi Stolas."

Ma lui la avvolse lo stesso, e lei non fece che singhiozzare più forte.

Suo fratello si portò una mano alla guancia, sgomento. Sua sorella non lo aveva mai colpito. Vedeva negli occhi di lei un mare di disapprovazione e di risentimento, e ora tremava anche lui e un freddo insopportabile gli invadeva le membra. Lo capì: era stato un maledetto idiota.

"Hai ragione. Ho esagerato. Scusami." disse flebile, non osando più guardarla.

"Lo hai detto per farmi del male." rispose lei, respirava affannosamente, e nemmeno lei lo guardava in faccia.

"No." Spalancò gli occhi, costernato, erano velati di vergogna "Te lo giuro."

"Come ti pare." fece lei scuotendo la testa.

"Oh, insomma, Stolas fatti vedere la maledetta testa." completò allora Andrealphus, rivolgendosi al cognato, in tono meno accusatorio "Mia sorella ha bisogno di qualcuno accanto che sia padrone di sé stesso."

Stella a quel punto annuì, come a dargli ragione, e questo lo fece solo innervosire di nuovo.

"Oh, no sorellina, non mi serve a niente il tuo assenso. Perché anche tu devi darti una calmata. Sono esausto. Siete due imbecilli emotivi e irragionevoli e io sono in mezzo. Un ménage à trois che non ho chiesto, senza nemmeno la parte divertente."

I due sposi stavano solo in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Stolas si sentiva nervoso, era la seconda volta, in ventiquattro ore, che qualcuno gli faceva notare quella cosa. Che gli veniva detto che, insomma, sembrava depresso. Aveva sempre avuto una tendenza alla malinconia, ma era peggiorata, lo sapeva, solo che aveva voluto ignorarlo, e odiava che si notasse così tanto dall'esterno.

Stella, dal canto suo, non capiva perché suo fratello se la prendesse tanto, lui conosceva il suo temperamento, conosceva che quello era l'unico modo in cui era capace di sfogare le emozioni. Stella, però, sapeva anche cosa aveva smosso in Andrealphus vedere Octavia spaventata e perduta, e sapeva che non sarebbe dovuto risuccedere, perché ricordava benissimo cosa si provasse ad essere bambini impauriti e non capire cosa succede tra i propri genitori. Ma lei e Stolas non erano come erano stati i loro genitori. E Stolas non era come... Scosse la testa per scacciare quei pensieri.

Andrealphus stava avendo davvero una crisi di nervi e gli stava facendo un'insopportabile paternale; Aveva messo in mezzo anche quella cosa di cui non si doveva parlare, di cui non parlavano mai. E per questo lo aveva odiato. Ma forse, in fondo, non stava dicendo cose sbagliate.

"Ah e... non mi interessa se non volete fare come tutte le dannate coppie reali e trovarvi un amante ciascuno per calmare i bollenti spiriti." Aveva detto Andrealphus prima di andarsene "Se preferite farla funzionare nel vostro modo malato, urlandovi contro e lanciandovi le cose come preliminari, fatelo come tutte le coppie normali: in camera da letto, a luci spente, a porte chiuse e soprattutto lontano un miglio dalla cameretta di Via."

"Oh, basta! Non devi insegnarmi come gestire il mio matrimonio, né a fare il genitore!" Disse Stella rompendo per prima il silenzio. "Va' a farti una camomilla Andrealphus."

"Con voi due mi servirebbe una fottuta flebo di camomilla!" rispose lui, e se ne andò sbattendo la porta.

***

Andrealphus si fece vedere solamente dopo cena, Via era con Stolas, le insegnava come un gioco i fondamenti della magia, lo sapeva anche lui, lo sapevano tutti. Ma tutti tacevano. Paimon non lo sapeva.

Lui rimase sulla soglia delle stanze di lei e iniziò a parlare.

"Non avrei dovuto insinuare quelle cose su Stolas, o alludere a... oh, lo sai."

"Lo sai che non voglio pensarci." lo bloccò lei.

"Non so se ci stia facendo bene, non pensarci o... non parlarne." disse Andrealphus, ed entrò nella stanza, richiudendo la porta dietro di sé.

"Lei è stata debole." Disse Stella senza guardarlo "Ha preferito mollare, ha preferito lasciarci."

"Era solo una ragazza... Non puoi fargliene una colpa."

"Anch'io sono solo una ragazza, sono ancora qui, però." Mormorò Stella a denti stretti.

"Stolas non è come nostro padre."

"Infatti, lui non lo è. Ma hai insinuato che lo sia io, e che sarà lui a finire per..." era la prima volta che lo diceva ad alta voce "...per uccidersi."

"Non intendevo dire questo."

"Ma lo hai fatto."

"Sono preoccupato Stella. Tu sei... emotivamente instabile, non puoi negarlo. Hai questi scatti, più del solito..."

Lei sentì una fitta attraversarle il torace.

"Io... odio la sua arrendevolezza. È una cosa che mi annienta. E mi fa infuriare."

"Lui non è...sereno. Lo sai. È una cosa che riconosci. Lo hai visto come se ne sta a fissare il vuoto a volte, e le giornate che sta passando da solo senza parlare con nessuno, salta i pasti, dorme ad orari assurdi. Non può continuare così. Quella bambina-"

"Pensi che non lo sappia?"

Lui si ammutolì.

"Non so gestire nemmeno me stessa. Non so controllare le mie emozioni. Non posso gestire lui. E Via. E tutti. Non ho mai saputo farlo."

Andrealphus adesso camminava nervosamente avanti e indietro nelle stanze di lei.

"Per Satana, siediti. Accanto a me, o dove ti pare." sbottò lei, poi si bloccò "Ecco, lo vedi? Non so controllarmi." scosse la testa.

Poi riprese a piangere, in silenzio, senza singhiozzi, e lui le si sedette accanto sul letto.

"Stella..." Andrealphus provò a toccarle la nuca ma lei si ritrasse.

"No. Se dobbiamo parlare non devi farmi quella maledetta cosa. Non devi controllarmi come una bambolina."

Andrealphus trasalì. Quindi lei lo sapeva, lo aveva saputo per tutto il tempo.

"Perché me lo hai lasciato fare? Quella... quella cosa, se lo sapevi?"

"Tu sei... la parte razionale di me. A volte ne ho avuto bisogno, che mi controllassi. Ma non posso sopportare che tu lo faccia adesso, se..." esito "...se dobbiamo parlare della mamma."

Il petto di Andrealphus si strinse, una morsa bruciante, una ferita che non si sarebbe richiusa mai.

"Mi dispiace." disse lui, e al posto di toccarle la nuca, le prese le mani. "Non proverò a fare niente, nessun controllo, nessuna manipolazione. Te lo giuro. Non proverò a fare il consigliere, né il surrogato genitore, solo...solo tuo fratello. "

Ci fu silenzio per un tempo che parve infinito.

"Noi..." Comincio Stella "Noi avevamo bisogno di lei. E lei lo ha fatto comunque. È stata egoista."

Andrealphus aggrottò la fronte. "Hai visto com'era papà con lei. Ma io ho visto di più. Ero più grande. Capivo. È solo che... non sapevo cosa fare." disse, e la sua voce ebbe un' incrinatura appena percettibile "Ha sopportato, finché ha saputo farlo, e poi non ha sopportato più. Io non riesco a fargliene una colpa."

"Poteva ribellarsi. Poteva scappare. Portarci via con lei."

"Credi che tu potresti scappare da questo matrimonio portandoti via Octavia?" domandò Andrealphus "E ti ricordo che Stolas è un uomo buono."

Lei abbassò gli occhi. "No." Mormorò "Ma poteva lasciarci lì e andarsene. Avrei comunque preferito saperla viva e libera chissà dove, che saperla morta."

"Non è vero. L'avresti odiata."

"No. L'avrei ammirata."

"Stella..." Andrealphus non sapeva cosa dire. Era la prima volta che ne parlavano. Ed era come se parlarne gli facesse bruciare l'anima di un dolore sopito e soffocato troppo a lungo, come se rievocare quel dolore potesse consumarlo dall'interno.

"Mi...mi manca." ammise Stella in un sussurro "Mi è mancata tutta la vita. Mi è mancata quando sono diventata donna. Mi è mancata al mio matrimonio, quando ho perso la verginità e non sapevo niente. Mi è mancata quando aspettavo Via, mi è mancata quando è nata. Mi manca ogni volta che Via mi chiama "mamma". A volte eravamo tutto il suo mondo e a volte a stento ci guardava. Era altrove, stava in silenzio per ore a guardare un punto lontano fuori dalla finestra. Lo sai, Andre, ho provato tanta rabbia. Mi sono chiesta perché dovessi imparare da sola a come essere donna, e come essere madre. Perché lei fosse stata così debole da dovermi lasciare qui da sola, senza nessuno ad insegnarmi come si fa. Senza nessuno ad amarmi."

Andrealphus sospirò. Le strinse più forte le mani, come in una preghiera condivisa. "Tu hai me. Lo so che è diverso. Ma io... Oh, lo so che sono stato un pessimo fratello..."

Lei aggrottò le ciglia "Non è assolutamente vero. L'ho detto, a volte, ma ero arrabbiata, non devi ascoltarmi quando sono arrabbiata."

"In parte è vero." Disse Andrealphus "Ho fatto il possibile e ho reso le cose solo peggiori. Ero piccolo, ero spaventato. Ma spero che tu sappia che sei stata, e sei, amata."

Lei lo guardò sgomenta, perché non glielo aveva mai detto. Non si era mai esposto, neppure con un "ti voglio bene.". A casa loro non si parlava di amore o di affetto. Si parlava di educazione e di dovere.

Andrealphus esitò, non era bravo in queste cose, lui non parlava di sentimenti. Lui parlava di azioni. Di cose da fare e da dire. Lui controllava e pianificava. Era un linguaggio nuovo, ed era difficile. Più difficile della politica e della diplomazia.

"Lei... non avrebbe potuto insegnarti ad essere donna. Lei non era che una bambina, come noi. Era perduta, era sola, era una prigioniera."

Stella lo guardava con la fronte aggrottata, e un dolore sordo che gli premeva nel petto.

"Non era più una bambina quando ha deciso di lasciarci. Eravamo i suoi figli. Avrebbe dovuto proteggerci."

"Era in quel matrimonio con quell'uomo terribile che è papà. Troppo vecchio, troppo arido e incapace d'amore. Mi ha avuto a quattordici anni... Credi che lo abbia scelto lei? Credi che mi abbia voluto?"

"Ma certo che ti voleva." disse Stella sgranando gli occhi, con un'ingenuità che gli fece male all'anima.

"No che non mi voleva." rispose lui, la voce gli tremò, gli occhi gli si velarono di lacrime trattenute "Ma so che mi ha amato a suo modo, istintivamente, visceralmente, come ha potuto. E ha amato te. E tu devi riuscire a perdonarla."

"Come faccio, Andrealphus?" disse lei "Mi aveva cantato la ninna nanna, la notte prima. Mi aveva sorriso. Mi aveva detto che andava tutto bene."

Andrealphus aveva un ricordo diverso di quella notte, e avrebbe dato qualsiasi cosa per avere come ultima immagine di lei una ninna nanna e un sorriso. Ora aveva gli occhi rossi come se avesse pianto, ma nessuna lacrima rigava il suo viso. Sentiva un peso sul cuore che lo scavava nel profondo.

"Papà non mi ha nemmeno permesso di indossare il nero." Continuò Stella "Ero l'unica stupida in un abitino avorio. Non ho potuto onorarla. Non importava niente a nessuno. Era solo un problema in meno. Una stramba in meno. Importava solo a me."

Andrealphus la guardò con uno sguardo ferito, ma non osò contraddirla.

"Oh. Non guardarmi così. Lo so che importava anche a te."

E lui non ci riuscì. Non poteva stare così calmo e composto a guardarla piangere. Era la parte razionale di lei, ma lei era la parte emotiva di lui. Aveva promesso a sua madre che sarebbe stato grande, un ometto, che sarebbe stato forte, che si sarebbe occupato della sua sorellina, che non avrebbe mai pianto. Mamma, perdonami. E si abbandonò tra le braccia di Stella, la strinse forte a sé, come non la stringeva da anni, e ruppe in singhiozzi anche lui. E lei si abbandonò a sua volta in quell'abbraccio infantile, goffo e affettuoso. Quanti anni erano passati dall'ultimo abbraccio?

"Mi dispiace. Non volevo riaprire questa ferita. Mi dispiace." Le sussurrava accarezzandole i capelli. "Io...quella notte...avrei dovuto..." piangeva, tutte le lacrime che non aveva pianto negli anni, e aveva la sensazione che il dolore fluisse dagli occhi e si mitigasse nella stretta di Stella, alleggerendogli il cuore.

"Sta' zitto e abbracciami." Mormorò lei, stringendolo più forte "Mi è mancato mio fratello."

Notes:

Forse, dopo i fuochi d'artificio dello scorso capitolo, questo capitolo risulta un po' malinconico. Ma la malinconia è un sentimento dolce, e a volte può far bene abbandonarcisi.

I silenzi e i non detti allontanano gli affetti più della distanza fisica, e Andre e Stella avevano alle spalle molti anni di parole mai pronunciate e di sentimenti inespressi. Meritavano di tornare ad essere solo fratelli, e di imparare a parlare di amore, e non di dovere.

Il prossimo capitolo sarà forse malinconico uguale, ma anche dolce e carino.
Perciò conto di farmi perdonare delle lacrime versate.

- Armilla Lunastorta

Chapter 29: Tutto merito delle carote

Summary:

Octavia cresce e raggiunge piccoli, grandi, traguardi

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Tutto merito delle carote

 

Per i primi sei anni di vita, Octavia non aveva manifestato alcun potere. Stolas, tuttavia, nel farla giocare, l'aveva spronata a incanalare le sue manifestazioni emotive dall'interno verso l'esterno, così che potesse comprendere almeno da che tipo di potere magico dover partire per guidarla.

Era cosciente che si trattasse perlopiù di tentativi vani, che non avrebbero portato a nulla per molto tempo; i bambini, di solito, non manifestavano i poteri così precocemente. Lui, per esempio, ricordava di aver iniziato a prendere coscienza dei propri poteri solo intorno agli otto anni.

Ma aveva promesso a Stella che avrebbe indirizzato Octavia fin da piccola, ed era una promessa che intendeva mantenere. Sua moglie, però, col passare del tempo, sembrava aver sviluppato un'ansia ai suoi occhi immotivata.

"E se non avesse la magia naturale?" gli domandava di notte, nel letto, prima di dormire. "Se non l'avesse per colpa mia?"

"Ce l'ha." La rassicurava lui "Ne sono sicuro."

Ma Stella non sembrava convinta, sentiva un peso nel petto, si rigirava nelle coperte rimuginando su sé stessa, e su suo padre, privo di magia.

Sapeva che suo fratello era molto piccolo la prima volta che i suoi poteri si erano manifestati, per lei era come se li avesse sempre avuti. Ma quello che Stella non sapeva era come fossero scaturiti la prima volta: era stato durante l'ennesima lite tra i loro genitori, il Marchese incombeva sulla loro madre, urlandole parole irripetibili, mentre lei cercava di ribattere con una voce flebile e lieve. Andrealphus era lì, e aveva implorato loro padre di lasciarla stare, mentre grosse lacrime gli rigavano le guance. Ad un tratto il Marchese aveva tuonato: "Tu non impicciarti! E smettila di piangere!" Andrealphus si era ammutolito, era rimasto immobile con gli occhi spalancati e le lacrime gli si erano congelate sul viso, come se uno strato di brina gli si fosse posato sulle sue guance. Il Marchese, a quella reazione, aveva ritrovato compostezza, e aveva detto, rivolto alla loro madre: "Allora non sei del tutto inutile, il bambino ha la magia."

Stella, dal canto suo, non aveva mai manifestato alcun potere. Di certo era come suo padre, e questa consapevolezza la logorava.

"Stella, ti prego, dormi." Aveva mormorato Stolas una notte, voltandosi sul fianco per guardarla, poteva vedere la sclera bianca dei suoi occhi e il violetto delle iridi nella penombra "Via ce l'ha. Lo so perché entrambi ce l'abbiamo."

"Non io." Rispose lei a mezza voce, in un lamento di rassegnazione.

"Sapevi che sarebbe stata femmina, sapevi che sarebbe nata durante l'eclissi..." Stolas aveva lasciato scivolare una mano su quella di lei al centro del letto, le aveva accarezzato il dorso della mano con il pollice "Mi hai detto di averlo visto nei sogni. Non so che tipo di magia scorra nel tuo sangue, ma c'è. C'è un seme, una scintilla. Io... non so se sia giusto dirti queste cose, ma se posso farti stare solo un po' più tranquilla su Octavia..."

"Sarà un gene recessivo, allora." Tagliò corto Stella e ritrasse la mano da quel tocco gentile, il petto le si strinse di malinconia "Spero davvero che tu abbia ragione... su Via, intendo."

***

Via era una brava bambina, ma ciò non la rendeva esente dai capricci. Sentirle dire il primo "no" aveva riempito l'animo di Stolas di paure e preoccupazioni, per Stella, invece, era stato un traguardo che la rassicurava.

Stolas temeva i capricci di Via, perché non aveva mai davvero imparato a gestirli, passava dall'essere troppo permissivo all'essere troppo intransigente senza soluzione di continuità; se fosse stato davvero sincero con sé stesso avrebbe ammesso che, quando Via si impuntava su qualcosa, lui andava nel panico.

Stella non si mostrava affatto preoccupata, e sembrava quasi desiderare che la bambina le tenesse testa; negarle qualcosa o concedergliela diventava per lei un momento di scoperta del temperamento di sua figlia. E ogni volta che Via le sembrava davvero convinta di voler fare o meno qualcosa il suo animo si alleggeriva un po', e la preoccupazione che sua figlia potesse ritrovarsi in balia degli eventi e delle circostanze della vita, lasciava spazio alla certezza che avrebbe saputo farsi valere.

Accadde un giorno qualunque, tra i sei e i sette anni di Octavia, all'ora di pranzo.

"Non le voglio." Aveva detto Via con aria di sfida, guardando con diffidenza il contorno di carote nel suo piatto.

"Le hai sempre mangiate." Aveva risposto Stolas con una voce morbida.

"Non è vero!"

Stolas aveva aggrottato la fronte. "Almeno assaggiale, tesoro."

"No." Via aveva imitato l'espressione di Stolas, e un buffo broncio le si era dipinto sulle labbra. "Non le voglio."

"Se non le mangerai non potrai avere il dolce." aveva detto Stolas, provando a suonare convincente.

Via aveva allontanato da sé il piatto. "Non mi importa. Le odio."

Stella aveva fatto un mezzo sorriso a quella affermazione pronunciata con tale sicurezza, poi aveva detto a Stolas: "Dai, per questa volta mangerà altro, le faccio portare della frutta."

"No." lui sembrava non volersi dare per vinto su una cosa sciocca come un piatto di carote. "Le fanno bene e le mangerà."

"Non voglio!" Aveva ripetuto Octavia

Ecco. Quello era l'esatto momento in cui dall'eccessiva morbidezza Stolas diventava intransigente in modo irragionevole; aveva guardato Via cercando di mantenere l'aria più severa possibile e aveva esclamato alzando il tono della voce: "Non esiste il no. Questo c'è a tavola e questo si mangia."

"Non le voglio!"

"Via, devi mangiarle. Ti fanno bene."

"Non le voglio, fanno schifo!"

"Non insistere e mangiale."

"No!"

"E invece si!"

"Ho detto che non voglio!" aveva esclamato Via, sbattendo le mani sul tavolo. E dal piatto di fronte a lei si era levata alta una fiammata violetta che ne aveva carbonizzato il contenuto.

Stolas aveva avuto come prima reazione quella di allontanare Via dalle fiamme, Stella quella di soffocarle con il primo pezzo di stoffa che si era trovata a portata di mano.

Così ora lei teneva tra le mani uno straccio mezzo bruciato che un tempo era stato un runner da tavola, e lui teneva tra le braccia la bambina, che guardava confusa in direzione del suo piatto da portata.

"Stols... lo scienziato sei tu..." aveva detto Stella trattenendo una risatina nervosa. "...le carote possono andare in autocombustione?"

Stolas aveva riso a sua volta, per lo scarico di tensione. "No... io... io credo che sia stata opera di Via."

Via li guardava confusa. "Papà... ho... fatto qualcosa di male?" aveva domandato continuando a fissare il punto dove giacevano le verdure carbonizzate.

"No tesoro, no..." Stolas le aveva fatto una carezza sulla testa, e un sorriso gli era affiorato alle labbra "Hai fatto solo un piccolo incantesimo involontario. Impareremo a controllarli."

"Ce l'ha." Stella si era portata le mani alla bocca a coprire un sorriso di sorpresa, poi si era avvicinata ad Octavia in uno slancio di gioia e l'aveva presa in braccio "Ce l'hai amore mio!" e l'aveva baciata sulla fronte, e sulle guance.

"Io non l'ho fatto apposta." Aveva detto Octavia, mesta, come se sentisse il bisogno di giustificarsi ancora.

"Lo so tesoro, lo so. Ma non hai fatto niente di male. È una cosa bella! Papà ti insegnerà tutto!" aveva detto Stella con una voce squillante e gioiosa, poi aveva rivolto a Stolas uno sguardo colmo di entusiasmo "Adesso può imparare sul serio la magia, non è vero?"

"Io..." Stolas aveva sentito nell'animo un moto di orgoglio e si era lasciato contagiare dall'entusiasmo di lei "Io credo proprio di sì."

***

La scoperta della tipologia di potere magico di Octavia era stata per Stolas un sollievo, ma allo stesso tempo lo aveva messo non poco in difficoltà. Dava per scontato che si sarebbe trattato di qualcosa di simile a quello che era in grado di fare lui, ovvero la possibilità di piegare lo spazio al proprio volere, o di aprire varchi dimensionali. Si era sentito uno sciocco per non aver previsto la possibilità che sua figlia avesse ereditato una naturale inclinazione alla magia elementale: il fratello di sua moglie era un mago elementale, e nonostante la predilezione caratteriale per la manipolazione dell'acqua, era in grado di controllare tutti gli elementi. Riguardo a Stella... era sicuro che un seme di magia fosse in lei, ma non c'erano state altre manifestazioni al di fuori di quel sogno premonitore, e ogni tanto lo attanagliava il dubbio che si trattasse solo di intuito e non ci fosse nulla di magico.

Aveva scoperto poi, dal grande albero genealogico che gli avevano portato in dono al loro matrimonio, che la famiglia di Stella aveva da sempre ereditato, in varie forme, la magia elementale in linea femminile, Andrealphus sembrava un'ironica eccezione. Non aveva trovato informazioni sulla madre di lei, e non era certo che possedesse la magia, in realtà sulla madre di lei non era certo di nulla, sapeva solo che era morta giovane, quando Stella era bambina, e che le assomigliava molto.

In ogni caso, per quanto fosse interessante l'origine genetica delle inclinazioni di sua figlia, sarebbe servito a poco per insegnarle effettivamente a gestire i suoi poteri. La linea genealogica della madre di Stella sembrava costellata di tasselli mancanti, un'antica famiglia caduta in disgrazia con la quale la storia non era stata clemente nel conservarne una qualche forma di memoria. Sulla linea genealogica del Marchese non compariva nulla di interessante, solo l'assenza di magia naturale, un'immensa ricchezza di beni e di terre, e una carriera nelle armi ereditata di padre in figlio; anche in questo caso Andrealphus appariva un'ironica eccezione.

Stolas aveva dovuto perciò riprendere le conoscenze di magia degli elementi che aveva acquisito durante la giovinezza, aveva dovuto impararle di nuovo, e aveva dovuto capire come renderle semplici. E, alla fine, quando aveva messo insieme, nel modo più elementare possibile, i pezzi di quella immensa conoscenza che avrebbe permesso di controllare la natura a chiunque fosse stato in grado di dominarla, li aveva trascritti in stampatello su un quaderno, e li aveva accompagnati con piccoli disegni stilizzati dai colori sgargianti, si era anche preso la briga di decorare la copertina.

"Temo che sia una sciocchezza." aveva confessato a Stella, mostrandole il 'piccolo Grimorio' che aveva fabbricato per Via, ma lei aveva spalancato gli occhi di sorpresa e una punta di commozione le aveva velato lo sguardo.

"L'unica sciocchezza che ho sentito finora..." gli aveva risposto "...è che tu possa considerare una sciocchezza una cosa così bella. Va' a darlo ad Octavia, le piacerà!"

***

"È come il tuo?" aveva domandato Via con una voce incredula ed entusiasta. "Potrò rifare di nuovo la cosa delle carote?"

Stolas non era riuscito a trattenere una risata "Non prendertela con delle carote innocenti la prossima volta! E comunque la magia va usata con cura e attenzione!" L'aveva presa in braccio e fatta sedere sulle sue ginocchia, e avevano iniziato a sfogliare insieme il piccolo libro che aveva preparato per lei.

All'inizio non erano riusciti a replicare l'evento, ma Via non sembrava darsi per vinta, provava e riprovava a incanalare l'energia nel tentativo di ricreare una piccola fiamma se non sul palmo della mano, almeno sulla punta di un polpastrello. Stolas aveva temuto che potesse arrendersi, che potesse essere frustrata dai tentativi apparentemente vani e reiterati, ma aveva scoperto presto che Octavia aveva una determinazione che non gli apparteneva. Era merito di Stella e, per questo, le fu davvero grato.

Forse dovremmo provare con le formule magiche. Aveva pensato, all'ennesimo tentativo fallito, ma avrebbe voluto evitare, l'inclinazione naturale spesso non aveva bisogno di escamotage di quel tipo, di solito il ricorso alle parole magiche serviva per incantesimi complessi, o per replicare gli effetti di un potere che non si possedeva in modo naturale. Mentre meditava sul da farsi, la voce di Octavia aveva riempito l'aria di un suono squillante.

"Papà! Guarda!"

Una piccola fiamma fluorescente le volteggiava sul palmo come un fuoco fatuo, e irradiava la stessa luce violetta di quella prodotta involontariamente durante il pranzo di qualche settimana prima.

"Bravissima, tesoro!" nel petto di Stolas si era irradiato un calore dolce, dettato dall'orgoglio e dalla soddisfazione "Puoi controllarla? Farla muovere?"

Via, come se la fiamma fosse un'estensione di sé, l'aveva fatta volteggiare più in alto, e oscillare avanti e indietro nell'aria.

"Ci riesco papà! È facile!"

La fiamma si era fatta più grande, rimanendo sospesa "Posso ingrandirla ancora se lo voglio!"

"Proviamo a spegnerla, tesoro? Se vuoi richiamarla indietro come fai?"

E la bambina aveva mosso appena i polpastrelli dall'esterno verso l'interno, fino a che la fiamma era diventata una scintilla appena percettibile, e le si era posata sul palmo, fino ad essere riassorbita. Stolas aveva battuto le mani con entusiasmo.

"Sei stata bravissima amore mio!"

"Chiamiamo la mamma? Voglio farglielo vedere!"

Stolas si era allontanato un momento per andare a cercare Stella e mostrarle quello che la loro bambina era riuscita ad imparare. Era arrivato appena a metà del corridoio, che Via gli stava già correndo incontro.

"Papà!" aveva gridato con un tremore nella voce, abbassando gli occhi "Io... forse ho fatto un guaio."

Un fumo nerastro proveniva dalla stanza dove si trovavano prima, e quando Stolas era rientrato le tende nuove erano totalmente in fiamme. E così era iniziato un trambusto generale, con un viavai concitato della servitù che si adoperava per spegnere le fiamme, e con lui che provava a replicare un incantesimo d'acqua, ringraziando le circostanze che gli avevano fatto ripassare per intero i fondamenti di magia elementale.

Quando l'incidente era rientrato le tende erano brandelli bruciati. Stella si arrabbierà, oh se si arrabbierà, le piacevano tanto. Stolas si tormentava, mentre tentava di mantenere un'aria più calma possibile per tranquillizzare Octavia.

"Stols che cosa sta..." Stella era accorsa, e poi si era fermata come pietrificata "Oh."

"Stella io..."

"Mamma, scusami, io..."

"Mi dispiace per le tende..." aveva aggiunto Stolas "...l'ho lasciata solo un momento e..."

"Ce l'hai fatta!" sul viso di Stella era comparso un ampio sorriso "Lo hai fatto di nuovo, non è vero piccola mia?"

"Sì..." Via non osava guardarla "...ma non volevo che..."

"Le tende si ricomprano! Oh, sei bravissima! La mia bambina è una maghetta!" l'aveva presa in braccio e aveva preso a cullarla allegramente, come se danzasse.

E Stolas aveva sentito nell'animo un moto di dolcezza, accompagnata da una punta di malinconia. Via era con loro, che condividevano con lei i suoi traguardi, le sue prime volte. Per lui nessuno c'era stato quando aveva fatto la prima magia, un incantesimo di levitazione semplice, con cui si era avvicinato un giocattolo senza doversi alzare a prenderlo. L'entusiasmo infantile di quella scoperta aveva lasciato presto il posto a un desolante senso di vuoto quando, nel guardarsi intorno per vedere se qualcuno l'avesse visto, aveva realizzato di essere solo, come sempre, nel silenzio della sua cameretta...

"Stols? Allora?" la voce squillante di Stella aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri "È brava? Cosa fa? Fiamme, come a tavola? Voglio sapere tutto! Poi mi fate vedere?"

Via aveva ripreso il buon umore nel vedere che sua madre era più felice per la sua magia, che triste per il guaio che aveva combinato.

"Sono brava, papà?" aveva domandato allora.

"Lo sei, tesoro mio." Aveva risposto lui accennando un sorriso "Sei solo un po' irruenta, come la tua mamma!"

***

Stolas aveva creduto che quell'incidente non avesse spaventato così tanto sua figlia, lei era tornata serenamente ad esercitarsi, generando fiammelle piccole e controllate. Le tende erano state prontamente sostituite, e Octavia non sembrava pensarci già più, anzi appariva entusiasta dei miglioramenti che era riuscita a raggiungere in poche ore.

Quella sera, però, lui era andato a letto attanagliato da quella malinconia lieve che gli invadeva ogni tanto l'animo, alimentata da quel velenoso ricordo che era riemerso quel pomeriggio, riguardo alla sua infanzia solitaria. Avrebbe faticato a prendere sonno, lo sapeva, ma lui e Stella si erano appena riavvicinati, se così poteva definirlo, e non poteva restare a leggere nello studio. Così si era infilato accanto a lei nel letto, sarebbe rimasto di certo a fissare il soffitto fino all'alba.

"Papà!" la vocina di Via aveva rotto il silenzio della notte, Stolas si era alzato in punta di piedi per non svegliare Stella, e si era precipitato da sua figlia. L'aveva trovata in mezzo al corridoio, ormai quasi davanti alla loro camera da letto, in lacrime.

"Amore mio, cosa c'è?"

Via gli era corsa incontro e saltata tra le braccia.

"Ho fatto un sogno tanto brutto... avevo fatto un'altra magia... ma... avevo colpito te... tu non mi rispondevi, allora chiamavo la mamma ma non la trovavo da nessuna parte... e... e poi ero da sola e..." Via aveva ripreso a piangere, non riuscendo a completare la frase.

"Tesoro mio io non vado da nessuna parte, e nemmeno la mamma." Le aveva detto Stolas, l'aveva riportata in camera tenendola in braccio e le aveva rimboccato le coperte.

"Posso restare qui finché non ti addormenti." Le aveva detto, accarezzandole i capelli.

"Mi canti una ninna nanna?" aveva domandato Via. "Come fa la mamma?"

Stolas non conosceva nessuna ninna nanna, perché nessuno gliele aveva mai cantate, così aveva deciso di improvvisare, sulle note di una melodia che conosceva, qualcosa che suonava più o meno così:

Quando il mondo è addormentato
Tutto sembra desolato
Con la luna silenziosa
Ogni stella si riposa.

Ho creduto nel coraggio
Che l'amore fosse un viaggio
Ma ogni storia è raccontata
Tranne una, l'ho celata.

Che le stelle in congiunzione
Siano manifestazione
che su te, io veglierò
anche se non ci sarò.

Se crollasse tutto intorno
anche nel mio ultimo giorno
Ti prometto starai bene
pur se non saremo insieme.

Se andrà tutto allo sfacelo
Puoi trovarmi là nel cielo
Ti prometto starai bene
Pur se non saremo insieme.

Octavia aveva iniziato a sbadigliare già alla terza strofa, alla fine i suoi occhietti vispi si erano chiusi in un'espressione di serena sicurezza. L'animo di Stolas era ancora velato di quella malinconia che lo aveva accompagnato per tutto il pomeriggio. Fuori dalla cameretta di Via trovò Stella, in piedi, tutta avvolta nella vestaglia da camera, lontana di tre passi.

"Io... ho sentito, la canzone."

"Oh."

"Stai bene, Stols?"

"Sì."

"È che... hai detto delle cose..."

"Era solo una ninna nanna."

Stella aveva sentito una punta di inquietudine attraversale il cuore, e aveva provato a scrutare i suoi occhi nella penombra.

"Che dici se... mi aspetti nello studio. Faccio preparare un infuso, e mi racconti com'è andato il pomeriggio con Via?"

Stolas le aveva rivolto un sorriso accennato.

"Sì..." aveva detto in un filo di voce "...sembra una buona idea."

Notes:

Per noi povera gente normale i traguardi sono altri, i primi passi, la prima parola... ma anche la prima magia, devo dire, ha il suo perché! Anche se la vittima designata è un innocente piatto di carote.

Octavia cresce, e ha ereditato la magia! E questo è certo un gran sollievo per Stella.

Stolas, dal canto suo, sta mantenendo la promessa fatta a sua moglie, e per questo siamo fieri di lui!

E poi, ammetto candidamente, che avevo provato a tradurre "You Will Be Okay" in questo "libero adattamento" sotto forma di filastrocca e volevo una scusa per inserirlo nella trama, e dunque eccolo qui!

Saranno anche la coppia più disfunzionale del mondo, ma come genitori se la cavano benino, riconosciamoglielo!

Spero che il capitolo sia stato dolce come speravo, dal momento che per le sofferenze ci sarà ampio spazio in futuro.

Grazie sempre di leggermi!

- Armilla Lunastorta

Chapter 30

Summary:

Una lettera inaspettata, qualcuno vuole "chiedere scusa", ma i suoi intenti non sono limpidi

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

ATTENZIONE: PERICOLO CRINGE
Spegnete il vostro cringiometro: rischia di esplodere dopo questa lettura.

 

Bocconi di ipocrisia
 

Era una sera come tante a palazzo, e si erano riuniti per cenare. Stolas era tornato tardi dall'Accademia e indossava ancora la stupida toga, come si ostinava a definirla Stella. Andrealphus era ancora ingessato nell'abito formale che indossava agli incontri dell'Assemblea. Stella sembrava quasi fuori posto, con l'abito morbido che aveva tenuto in casa e che aveva scelto perché i ricami erano dello stesso colore della gonna color glicine di Via.

"Papà! Oggi sono vestita come la mamma!" diceva Octavia in un moto di vanità "Sto crescendo! Presto sarò una donna!"

Stolas aveva riso. "Oh, tu sarai sempre la mia bambina!"

"Uffa! Mamma diglielo, io voglio crescere!" si lamentava Via.

"Crescerai tesoro, ma non farlo troppo in fretta!" le aveva risposto Stella, e le aveva dato un bacio sulla guancia. "Adesso ceniamo però!"

Aveva mandato via la servitù, lo faceva sempre ai pasti quando non erano momenti formali, detestava che stessero lì a fissarla, ad aspettare un ordine, a riempirle il bicchiere. Le dava la sensazione opposta a quella che avrebbe dovuto dare: non si sentiva per niente servita e riverita, si sentiva controllata e oppressa.

"Lo sai papà, ieri sera volevo leggere una storia e sono riuscita a fare una fiammella che... oh." Via si era coperta la bocca e aveva guardato verso Andrealphus con sguardo interrogativo, col timore di aver detto troppo, poi aveva chiesto in un sussurro "Lo zio lo sa?"

"Sì, tesoro. Con noi tre puoi stare tranquilla. È con i nonni che non devi parlarne, lo ricorderai?"

Via aveva annuito energicamente, poi aveva ripreso con una luce di entusiasmo negli occhi. "Allora... volevo leggere e ho fatto una fiammella, piccola e sembrava più fredda di quelle che abbiamo fatto insieme, e ha fatto luce e poi..."

La porta della sala da pranzo si era spalancata ed era entrato un imp in livrea, sul viso aveva un'espressione seria e imperturbabile, portava su un vassoietto due buste da lettera in carta intestata, con sopra un sigillo noto, che non era quello di Paimon, e il solito tagliacarte di vetro.

Andrealphus e Stella si scambiarono uno sguardo di preoccupazione. Due anni di silenzio e adesso, su quel vassoio, stava in bella vista...

"La carta da lettera di papà." Aveva detto Stella, in una smorfia di disgusto, e aveva pescato la busta che portava sopra il suo nome e quello di Stolas, Andrealphus aveva preso l'altra, con un grumo di bile che cominciava già a bruciargli la bocca dello stomaco.

Stella l'aveva aperta senza tante cerimonie usando lo stesso, notissimo, tagliacarte di vetro con cui aveva attaccato il Marchese anni prima. Stolas aveva aggrottato la fronte.

"Che c'è? Mi sembra solo di pugnalarlo di nuo-"

"La bambina!" aveva detto Stolas in un gridolino acuto.

"Oh quante storie!" si era lamentata lei, eppure non aveva più concluso la frase; aveva invece tirato fuori il biglietto dalla busta e sul suo viso si era dipinto un sorriso di ironico disprezzo.

"Allora...che c'è scritto?" Andrealphus ancora si rigirava la busta tra le mani senza osare aprirla.

Stella era esplosa in una risata di esasperazione. "Oh... vorrà scherzare spero!" e poi aveva letto ad alta voce il contenuto:

«Al Principe Stolas, Guardiano delle Stelle, e alla Principessa Stella, sua consorte.

Vi prego di accogliere l'invito a trascorrere il pranzo presso la mia dimora, questo venerdì.
Consapevole che ci vorrà molto di più per fare ammenda, e speranzoso possa essere un primo passo.

Con profondo rispetto.»

Era calato un silenzio irreale, colmo di confusione e di una vena di imbarazzo. Fu ancora Stella a rompere il silenzio quando si decise a domandare a suo fratello, che nel frattempo aveva aperto la busta, cosa ci fosse scritto nel suo biglietto.

"Anche nel mio c'è scritta circa la stessa cosa." aveva risposto lui, cercando di non cedere alla sensazione di acidità che gli invadeva l'esofago "Solo che qui mi definisce 'il suo amato figlio.'"

"Beh, immagino che questi biglietti possano andare dritti nel camino." sentenziò Stella, ma un velo di paura le gravava sull'anima come una foschia fitta. "Dai, Andre, dammi anche il tuo."

"Forse dovremmo valutare la possibilità di accettare." Stolas intervenne, sul viso un'espressione seria e pensosa, quella che aveva sempre quando si trovava davanti ad un incantesimo particolarmente complesso o a segni nel cielo difficili da interpretare.

Stella gli rivolse uno sguardo di disappunto, poi si rivolse a Via "Amore mio, mi aspetti in cameretta? Parlo di una cosa con papà e lo zio e poi vengo a raccontarti la storia della buonanotte."

"Posso leggere io?"

"Sì. Ora va'. Ci metterò poco."

Via si incamminò verso la porta, lanciando un'ultima occhiata colma di curiosità verso i suoi genitori, che ora stavano in piedi, insieme ad Andrealphus, ad osservare i misteriosi biglietti che avevano ricevuto. Quando la porta si fu richiusa alle spalle di Via, Stella scosse il capo in segno di disapprovazione.

"Non esiste. Non ho intenzione di bere nemmeno un bicchiere d'acqua offertomi da lui."

"Abbiamo vissuto nella paura in questi anni, non potete negarlo." Chiarì Stolas "Io non sono stato tranquillo un giorno quando sapevo che tu eri fuori con Via per una passeggiata, per andare al parco o andare a scegliere un libro illustrato." Disse rivolto a Stella "Io so che vostro padre mi teme, ma non ho cento occhi, né il dono dell'ubiquità. Tu... sei coraggiosa e sei forte, ma tuo padre con quell'anello... abbiamo visto che non sei al sicuro quando sei da sola. Non lo saresti neppure con una scorta. E, Andrealphus..."

"Non c'è bisogno che tu lo dica." Disse Andrealphus quando notò Stolas rivolgergli uno sguardo di compatimento. "So bene il potere che mio padre esercita su di me, ci convivo da tutta la vita."

"Stella?" domandò allora Stolas, mantenendo quell'aria seria.

"Lo sapete che questa pantomima è solo per ingraziarsi te, e me, nella speranza che tuo padre non lo butti fuori anche dal Consiglio degli Anziani."

"È probabile." Convenne Stolas. "Ma noi temiamo un fantasma da anni, forse presentarsi da lui ci aiuterà a capire le sue intenzioni, e il suo livello di disperazione. Come si dice, tieni vicini gli amici ma ancor più vicini..."

"...i nemici si tengono vicini solo se stanno in una fossa in giardino." Intervenne Stella, scuotendo il capo.

A Stolas scappò un mezzo sorriso, ma presto riacquistò serietà.

"Ho bisogno di sapere che tipo di nemico sia diventato."

"Se... e ribadisco se decidiamo di fare a modo tuo..." disse Stella "...Octavia resta a casa."

"Sì." rispose il principe. "È giusto, ed è più sicuro."

Stella si rivolse verso Andrealphus e lo guardò con occhi grandi e perduti. "E tu, che vuoi fare?"

"Farò come desideri tu. Se non andrai, non andrò. Ma se decidi di andare... non ti lascio da sola con papà."

"Non sarebbe da sola." lo corresse Stolas, nella voce aveva un tono di disappunto. Andrealphus stava già per controbattere, colmo di risentimento, quando Stella si avvicinò a Stolas.

"Stols..." disse toccandogli il braccio "...è diverso. Lui è cresciuto in quella casa insieme a me. Ho bisogno che anche lui sia lì."

***

Accettarono l'invito con un biglietto formale, Stolas scelse la carta più pregiata e costosa, qualcosa che gridasse potere in ogni fibra di cellulosa, e la firmò col sigillo, senza il nome, come era solito fare suo padre. Aveva imparato presto, e a sue spese, quanto potesse essere intimidatorio e inquietante l'assenza del nome su un biglietto, quanta reverenza suscitasse il lasciarsi riconoscere solo dalle proprie insegne.

Quando si presentarono al palazzo del Marchese furono accolti da una schiera di imp ordinatamente disposti ai due lati del vialetto d'ingresso. Una formalità ridicola che non si usa da due secoli. Si era detto Stolas mentre percorrevano il viale lastricato. Ma chi diavolo pensa di prendere in giro con questa farsa? Pensava invece Stella, tenendosi così stretta al braccio del principe da rischiare di fermargli la circolazione. Deve essere definitivamente impazzito. Era questo l'unico e costante pensiero che attraversava la mente di Andrealphus mentre anche lui avanzava, distante di qualche passo, verso la casa che aveva abitato nell'infanzia.

Un imp in una divisa formale e pomposa aprì loro il portone, al suono di un rispettoso: "È un onore accogliervi, Vostra Altezza. Il padrone vi aspetta nella sala grande."

L'impatto col Marchese non fu meno straniante. Quando li vide arrivare rivolse loro un reverente inchino.

"Vostra Altezza, sono onorato e grato abbiate accettato l'invito."

Poi si avvicinò ad Andrealphus per stringerlo in un abbraccio esageratamente espansivo.

"Figlio mio! Sei elegantissimo, hai sempre avuto gusto." Esclamò, con una voce più limpida del solito. "E voi principessa Stella, figlia mia. Mi concedete di abbracciarvi?" domandò, come in una supplica.

"No." Disse Stella piatta.

"Lo comprendo. Sarò paziente, lo guadagnerò." Rispose suo padre senza perdere compostezza. "Ma ora vi prego, prendete posto."

E così sedettero al tavolo da pranzo: Andrealphus stava seduto dritto e sul bordo della sedia come se fosse puntellata di spilli, Stella manteneva un'apparente serenità, seduta composta e in ordine, con un'espressione indecifrabile sul viso. Stolas aveva indossato la maschera del demone e del mago, soffocando l'impacciata timidezza con lo schermo sicuro della regalità. Ogni loro gesto era misurato e studiato, costruito, come attori su un palcoscenico, e il Marchese sembrava non notare, o ignorare, l'aria di tensione che ammorbava la stanza.

Fu un pranzo di convenevoli e di frasi di circostanza. E se suo fratello e suo marito riuscivano a muoversi agilmente in quello scambio di parole vuote, Stella si limitava ad annuire, analizzando ogni movimento di suo padre per cogliere in un gesto o in una parola la prova della menzogna.

E la trovò nei complimenti elargiti con troppa generosità, nei sottintesi, nelle affermazioni di dubbio gusto, pronunciate con la nonchalance di chi non riconosce il male perché troppo avvezzo a praticarlo:

"Sono stato duro con loro, ma solo perché ci tenevo molto."

"Una volta, quando erano piccoli, volevo che si abbinassero i vestiti, Andrealphus si rifiutò categoricamente di indossare qualcosa di solo lontanamente simile a sua sorella... è incredibile, considerato come si veste adesso, non trovate?"

E poi, tra una portata e l'altra, il Marchese si addentrava in discorsi discutibili, e sembrava non accorgersi dell'imbarazzo che aleggiava nella stanza.

"Prima o poi..." aveva detto ad un tratto portandosi il calice alle labbra "...dovremo accasare anche te con una brava donna, figliolo."

Andrealphus si era voltato a guardare Stella e Stolas cercando conferme di aver capito bene le affermazioni di suo padre. E poi aveva risposto nell'unico modo che gli pareva possibile, dal momento che ormai tutte le carte erano state svelate.

"Padre, penso che ormai sia inutile nascondere che non mi piacciono le donne."

"Non confondere quello che ti piace con quello che ti serve!" Aveva risposto il Marchese ed era scoppiato in una risata che aveva solo amplificato il rumore del silenzio.

Andrealphus non era riuscito nemmeno a provare rabbia, solo una incredulità che lo lasciò senza parole.

"Oh, a proposito, Principe Stolas..." aveva continuato imperterrito loro padre "...ho saputo che voi non avete cercato nessuna concubina in questi anni. Dovete tenerci proprio tanto a mia figlia."

Stolas, che stava mandando giù il boccone, prese a tossire e lasciò cadere la forchetta che teneva in mano poco prima, causando un clangore quando l'argento colpì la porcellana. Stella serrò solo le labbra in una linea sottile, mordendosi la lingua e sperando che quell'assurdo discorso si esaurisse in fretta. Peccato che suo padre non sembrasse in vena di voler smettere di parlare; e si era impelagato in un racconto sull'adolescenza di Andrealphus, e sui suoi primi anni di studio.

"Oh, Stella ci rimase così male quando Andrealphus iniziò a studiare la magia!" aveva detto con un tono tra il nostalgico e il divertito "Ma, sapete, l'Accademia non era un posto adatto alle ragazze, e per fortuna non ha ereditato anche lei il dono, non avrebbe comunque saputo gestirlo, visto come manca di disciplina!"

Stella sentì una fitta alla bocca dello stomaco, si irrigidì sulla sedia e serrò i denti così forte da sentire un dolore sordo ai lati della mascella. Era troppo. Il sangue le affluì alle tempie, e lei strinse forte il tessuto del vestito, come a scaricare le emozioni su quel piccolo lembo di stoffa. Sentì le dita lievi di suo fratello sfiorarle la mano che ora teneva stretta in un pugno sulle ginocchia, e sentì anche che Stolas le sfiorava una spalla, facendole una carezza. E nessuno di quei gesti era volto a controllarla o a trattenerla, erano un modo per dire "ci siamo noi, con te". E allora si rilassò sulla sedia sentendosi, per la prima volta, davvero al sicuro in quella casa.

"Sarebbe stata impeccabile." Intervenne Andrealphus "Per la musica non serve meno disciplina, e lei ha sempre eccelso."

"Ma sì, si scherza, siamo in famiglia!"

I tre commensali si lanciarono uno sguardo misto di confusione e commiserazione. Doveva essere veramente impazzito, disperato, o entrambe le cose.

Fu verso il finire del pranzo che il Marchese iniziò a tirare in ballo Paimon. E parlò delle guerre, così lontane negli anni, in cui l'aveva accompagnato. Parlò degli eserciti che aveva guidato, sotto ordine del re, a conquistare un regno, ad espugnare una città, a porsi di stanza al confine dell'inferno quando ancora incombeva la guerra aperta col paradiso. E fu sempre verso la fine del pranzo che iniziò a domandare come mai Paimon lo avesse sostituito in Assemblea, che iniziò ad elogiare suo figlio nel tentativo di comprendere che cosa il sovrano vedesse il Andrealphus che lui non aveva. Fu di fronte all'affogato all'amarena che disse, con un tono sicuro, che tradiva una vena di supplica:

"Principe Stolas, vi chiedo di portare i miei onori a vostro padre, vi chiedo di riferirgli che gli sono ancora fedele, che sono ancora disposto ad eseguire ogni ordine, e che sarei felice e onorato di poter essere ancora al suo servizio, qualora servisse."

Il principe aveva aggrottato la fronte, non ne poteva davvero più, quell'uomo era riuscito a superare anche la sua soglia di sopportazione; e ci voleva talento, perché lui era davvero molto paziente. Non aveva più voglia di sentirlo blaterare assurdità sull'infanzia di sua moglie o di suo cognato, e men che meno di sentirlo sproloquiare sulla fedeltà al regno, né sentirlo indirettamente implorare di tornare nelle grazie del re.

Così aveva risposto, mantenendosi serio e impassibile: "Sono certo che mio padre sia già a conoscenza di quello che c'è nel vostro animo. Adesso, se non vi dispiace, i miei doveri ci costringono a congedarci."

"Prima di andare io vorrei..." sussurrò allora Stella all'orecchio di Stolas"...vorrei un momento, non torno qui da..." una punta di imbarazzo la colse "...dalla notte dell'equinozio. Ho delle cose che voglio portare a casa nostra."

Stolas trasalì. La notte dell'equinozio. La stanza distrutta di lei, il suono del suo violoncello, l'archetto spezzato, la loro giovinezza, la fuga, le stelle, i fiori di campo, l'alba del primo giorno di primavera.

"Vuoi che ti accompagni?" Domandò in un filo di voce. "Hai bisogno che io...?"

"No." Gli rispose lei. "È una cosa che devo fare da sola." E, prima di allontanarsi, gli posò un bacio fugace sulla guancia.

Notes:

Se qualcuno mi chiedesse cosa vuol dire la parola "cringe" lo farei sedere al tavolo del Marchese durante questo allegro pranzetto in famiglia. Avevate spento il cringiometro? Beh, se non lo avevate fatto ed è esploso, non mi ritengo responsabile, io vi avevo avvertito.

In una Serie TV facevano il gioco "ubriaco o bambino" in cui si raccontava un aneddoto e bisognava indovinare se chi aveva compiuto una determinata azione fosse al tempo, appunto, ubriaco o bambino.

Facciamo lo stesso gioco col Marchese: pazzo o disperato? A voi la parola!

E voi? Quali sono stati i momenti più cringe della vostra vita? Quelli in cui avreste voluto sparire mangiati dalla tappezzeria, oppure sprofondare nei cuscini del divano fino a non lasciare tracce?

Con questa domanda esistenziale vi abbandono...

Ci vediamo nel prossimo capitolo!

- Armilla Lunastorta

Chapter 31: Una madre, una figlia

Summary:

Stella fa pace col passato. Octavia si mostra curiosa per la musica.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Alle madri, alle figlie.
Alle cose perdute e alle cose ritrovate.


Una madre, una figlia

 

Stella percorse da sola l'ala chiusa del palazzo, il ticchettare delle scarpe echeggiava per il corridoio vuoto. Arrivò nella sua vecchia stanza: nulla era stato toccato né rimesso in ordine. Gli spartiti giacevano accartocciati o stracciati sul pavimento, così come la sua bambola rotta. Le foto di lei strappate a metà. L'ultimo tentativo di ribellione o, forse, solo la traccia di una guerra che aveva perduto.

Era successo la notte prima del suo matrimonio, e tutto le riaffiorò alla mente come in una visione. Quella sera, Andrealphus era andato da lei, forse nel tentativo di rassicurarla. Oh, era stata così ingiusta con lui.

"So che non è esattamente quello che desideravi..."

"Ti riferisci al matrimonio forzato? Oppure al fatto che domani sera verrò violentata con il benestare di nostro padre?"

"Stella... potrebbe... potrebbe anche nascere qualcosa, tra voi. Potreste anche innamorarvi, col tempo."

"Oh, va' a farti fottere!" Gli aveva detto alzando la voce. "Lo sai anche tu che è una stronzata."

Suo fratello si era passato una mano tra i capelli.

"Anche il principe Stolas, probabilmente, si sente come ti senti tu. Forse anche lui non lo vorrà..."

"Questo non lo rende innocente, Andrealphus. Rende solo colpevole anche me!"

Lui aveva provato a sfiorarle una spalla "Non toccarmi!" aveva urlato lei, rossa in viso, con gli occhi lucidi.

"Abbassa la voce. Sveglierai papà."

"Che si svegli. Che mi ammazzi, se vuole!" ora torturava tra le mani una bambola di porcellana "Almeno non gli darò la soddisfazione di aver compiaciuto il re vendendogli la sua figlia perfetta!" Aveva scagliato la bambola contro il muro, e un braccio era andato in frantumi.

"Stella!"

"Che c'è? Queste cose non sono più mie. Non viene niente con me. Non c'è motivo di averne riguardo." E aveva rotto il carillon che stava sul suo comodino. "Ormai è fatta, no? Lo sposerò domani. Queste stupide cose non hanno più utilità!" aveva preso i vecchi spartiti e li aveva ridotti in frammenti, o accartocciati e gettati via.

"Ti prego Stella! Ti prego." La voce di Andrealphus era un sussurro di supplica. "Ti prego non svegliare papà!"

"Hai troppa paura di lui!" Aveva urlato lei. "Non ti ha mai toccato eppure lo temi come un codardo!"

"Io ti ho sempre protetto!"

"No! Se tu mi avessi davvero protetto non sposerei uno sconosciuto domani!"

"Non è uno sconosciuto!"

"Ah no? E allora perché non so nulla di lui? Oppure conoscere il suo volto e il suo nome è abbastanza per non considerarlo un estraneo?"

"Stella..."

"Lui non mi conosce!" Ora teneva tra le mani una foto di lei bambina. "Lui non sa e non saprà mai perché sono così infelice in queste foto. Allora tanto vale distruggerle!" E le aveva strappate a metà gettandole per terra.

"Stella!" Andrealphus l'aveva afferrata per le spalle e l'aveva scossa per farla tornare in sé. Ma era troppo tardi. Loro padre era sveglio e incombeva sull'uscio.

"Che diavolo succede?"

"Non è nulla, padre. Lei... è nervosa per le nozze."

"E questo la autorizza a distruggere la sua camera?"

"No, padre io... lei era solo..." aveva balbettato Andrealphus, tremando leggermente.

Loro padre aveva scosso il capo: "Domani sarà di un altro, ci penserà lui a raddrizzarla." Aveva sentenziato. "Ah, e...la stanza rimane così." Aveva detto poi rivolto a Stella "Non aspettarti che qualcuno si prenderà la briga di sistemare le tue crisi di nervi."

E poi era andato via mormorando: "Vedi di farla calmare, Andrealphus."

"Non puoi dormire qui, stanotte." Le aveva detto suo fratello quando erano rimasti da soli. "Prendi la mia stanza."

"No. Non puoi togliermi anche l'ultima notte nel mio letto. Va' via."

"Domani è un giorno importante e tu non puoi dormire in questo macello."

"Ho detto vattene."

Rientrare in quella stanza le aveva fatto rivedere tutto come in un miraggio, e si era vista muoversi, giovinetta e spaventata, e colma di una rabbia che non l'avrebbe abbandonata mai. Ma ora quella stanza era un reliquiario di qualcuno che lei non riconosceva, raccolse una sua foto strappata e la ricompose. E raccolse lo spartito accartocciato di Chopin, e lo aprì, ne ricordò la melodia, promise a sé stessa che avrebbe portato con sé anche il suo violoncello e che avrebbe ripreso a suonare, melodie nuove, senza il peso del dovere. Avrebbe preso anche il carillon, sembrava riparabile, e portato con sé tutta la sua vita, racchiusa nel baule scardinato nell'angolo della camera.

Percorse poi a ritroso il cammino, fermandosi di fronte alle stanze chiuse di sua madre. Esitò sulla soglia, incerta sul da farsi. Non ci riesco. Pensò, eppure la sua mano si allungò sulla maniglia. Non ci riesco. Sentiva i battiti del proprio cuore martellarle nelle orecchie, e il suono del proprio respiro sembrava riempire il silenzio. Non ci riesco. Eppure, entrò. Trovò i mobili coperti da grandi teli bianchi.

Li scoprì, meticolosamente, ad uno ad uno: scoprì il divano dove tante volte si era addormenta al suono di un canto lieve, o dove aveva domandato ad Andrealphus, con un entusiasmo infantile, di fargli vedere solo un'altra magia. Scoprì la sedia a dondolo, dove sua madre l'aveva pettinata, tenendola sulle ginocchia, dove le aveva intrecciato i capelli con un nastro di seta rosa. Scoprì il tavolino basso di mogano scuro dove si appoggiava, seduta sul tappeto, a scarabocchiare, e dove sua madre posava gomitoli di lana e lembi di stoffa, e pennelli imbrattati di tempera... le tornò alla memoria qualcosa di noto e dimenticato, qualcosa di bello e di dolce.

Le bambole. Il ricordo sfiorò come una carezza. La bambola del primo compleanno di Via. Il regalo che le era sembrato tanto minaccioso, che non aveva saputo riconoscere, che suo padre le aveva portato forse per generarle sofferenza, forse per imporre in qualche modo il suo potere, trovava per lei un significato nuovo. Oh, suo padre aveva perso il controllo dell'oggetto, e la bambola aveva scelto da sé; così l'intento della maledizione si era forse mutato in una involontaria benedizione. Quella bambola era forse stato il modo, per sua madre, di tornare da lei? Da loro? Di vegliarla e di proteggerla, di abbracciarla ancora una volta quando Via si infilava accanto a lei nel letto portando la bambola con sé? Un calore lieve le invase il petto, e risalì agli occhi velandoli di lacrime.

Quindi, non mi hai lasciata da sola.

L'ultimo telo portò con sé il nastro di seta rosa, che ricadde nella polvere del pavimento. Lei lo riconobbe, e lo raccolse, se lo avvolse tre volte intorno alle dita. Poi liberò la stanza da quei teli che avevano coperto la storia di un'esistenza. E li ammucchiò fuori, come a scacciare una presenza opprimente. Quando l'ambiente le parve somigliare al luogo che ricordava, e che troppo tempo era stato sepolto dal velo pesante del silenzio, spostò la sedia a dondolo davanti alla grande finestra.

Vuoi che la apra?

Scostò le tende, sbloccò le ante e le spalancò: la luce invase la stanza, posandosi sui ricami del divano colo ocra, sul legno del tavolo che emanava riflessi rossastri, sul lato dell'armadio, su cui erano incise, in un angolo nascosto, le tacche delle loro altezze.

Sono cresciuta, sono alta quasi quanto il mio sposo, lo sai? L'ultima tacca era di Andrealphus, e accanto era inciso il numero dieci. Anche Andre è diventato grande. Saresti fiera di lui.

Sedette sulla sedia a dondolo, accarezzando con il pollice il nastro che aveva avvolto tra l'indice e il medio.

Ho una figlia adesso, si chiama Octavia. Ha i miei occhi, che poi sono anche i tuoi.

Non sentiva più la tristezza invaderle il cuore, e anche la rabbia, che così tanto l'aveva tormentata, sembrava scemare in una tranquillità dolce. Aveva l'impressione che la stanza, prima così ostile e spaventosa, ora volesse accoglierla e abbracciarla, come se la luce avesse rotto un incantesimo durato vent'anni. Rivolse allora lo sguardo al mondo fuori, lontano, fin dove arrivava l'orizzonte.

Era questo che guardavi alla finestra, mamma? Guardavi l'immensa distesa dei campi oltre le mura del palazzo? Le colline di Pride e le montagne sbiadite sullo sfondo del cielo? Guardavi il fumo alzarsi dai camini delle case? La città vivere e brulicare di gente? Ascoltavi il suono delle campane? Il frusciare delle foglie quando il vento le attraversava? Cercavi la tua casa? La casa dove sei cresciuta? Mi hai detto, una volta, che è oltre le montagne, da qualche parte nei boschi, verso est. Oppure lasciavi solo che il sole ti facesse una carezza? O seguivi il volo delle rondini fino a vederle svanire? Sognavi di fuggire? Di varcare il cancello di ferro e non voltarti indietro?

"Adesso non ti fermano pareti né cancelli..." disse ad alta voce, come se lei fosse lì, e le tenesse la mano in quel nastro di seta "...ho aperto la finestra, sei libera, se lo vuoi."

***

Riprendere a suonare era stato per Stella come imparare a camminare di nuovo, sentiva la posa innaturale, le dita troppo rigide sull'impugnatura, il polso malfermo, il movimento a scatti. Aveva la sensazione che lo strumento la respingesse, come un amante tradito.

Riprendere a suonare era stato come imparare a parlare di nuovo, dopo anni di silenzio. E ogni nota, all'inizio, le aveva dato l'impressione di somigliare alla voce strozzata di chi si è appena risvegliato da un torpore.

All'inizio aveva atteso di essere sola, nella grande stanza vuota che aveva adibito a sala musica. Essere lontana da tutto le permetteva di sbagliare, e di sentirsi un'incapace in santa pace. Si vergognava. Perché tanto tempo aveva speso a imparare qualcosa che sembrava essere stata cancellata dal tempo, dagli anni passati in quella casa a commiserarsi, a considerare un dovere anche quelle cose che, anche se non lo avrebbe ammesso mai, con il tempo aveva imparato ad amare.

E la musica era una di queste cose. Perché quando il suo animo era in tempesta e non bastavano le parole né le lacrime, quando la collera era così tanta che nessuna azione avrebbe potuto esprimerla, quando la tristezza le riempiva il petto, quando il silenzio si faceva opprimente, e la solitudine soffocante, il violoncello era lì. E nel controllo delle dita che guizzavano sulla tastiera, nei crini dell'archetto che facevano vibrare le corde, ritrovava una voce che non era sua, eppure che parlava così bene per lei.

Accadde un giorno in cui il violoncello aveva smesso di respingerla, quando la posa era comoda e il polso era fluido, mentre suonava il preludio dalla prima suite di Bach, che vide due occhi curiosi fissarla dallo spiraglio della porta socchiusa. Stella aveva posato l'archetto in grembo.

"Via..."

Via era sparita dietro lo stipite.

"Tesoro, perché ti nascondi? Entra."

La testa di Via aveva fatto capolino da dietro la porta. "Io non volevo... disturbarti."

"Ma che dici! Non mi disturbi, tesoro mio!" La bimba si era fatta avanti a passo incerto.

"È una cosa nuova?" aveva domandato Via, seria, concentrata a studiare i dettagli dello strumento che sua madre teneva tra le ginocchia.

"No, è una cosa che ho imparato tanto tempo fa."

"È bello..." La voce limpida di Via aveva riempito l'aria, poi aveva esitato, come se cercasse le parole "...sembra che canti."

Stella sorrise, sua figlia aveva forse un intuito musicale? Appoggiò il violoncello alla sedia e le andò in contro.

"Hai ragione, lo sai?" Le disse, prendendola per mano "Il suono di questo strumento è quello che più si avvicina alla voce."

Via fece una buffa smorfia di soddisfazione, e poi tornò di nuovo improvvisamente timida.

"Posso restare?" domandò.

"Ma certo!" Stella non nascose una punta di entusiasmo, aveva sempre avuto la sensazione di non saper fare nulla che potesse suscitare l'interesse di sua figlia, nulla che la incuriosisse, nulla che le potesse insegnare. E ora Via era stata attratta da quel canto e voleva restare a sentirla suonare. Se c'erano stati giorni in cui aveva detestato suonare, per il peso della disciplina, per il peso del dovere, quel giorno non era fra quelli.

Via sedette su una sediolina accanto a Stella, con le gambe a penzoloni che oscillavano in una vena di impazienza.

"Si chiama Violoncello." le disse Stella. "Hai già ascoltato i violini a qualche banchetto, te li ricordi?"

"Sì, quelli che stanno sulla spalla." disse Via "Ma questo lo abbracci."

Stella rise. "Sì, tesoro, questo lo abbraccio." e se lo sistemò tra le ginocchia.

"Le corde sono quattro, e corrispondono a quattro note. Le note le conosci!"

"Sì!" Fece Octavia convinta "DoReMiFaSolLaSi"

Stella le scompigliò i capelli "Ma sei bravissima!" le disse. Poi fece suonare a vuoto la prima corda. "Questo è un La." E poi le corde seguenti, una ad una. "Un Re, un Sol, un Do."

"Ma ne mancano alcune!" si lamentò Octavia.

"Le altre posso farle tutte se uso anche la tastiera." le mostrò i polpastrelli bloccare le corde, e prese a suonare una scala di Do maggiore.

Octavia stava in silenzio, con la fronte aggrottata, attenta come a risolvere un problema complesso, con la stessa espressione che assumeva suo padre quando si trattava di scienza.

"Ti annoi?" Domandò Stella, una vena di preoccupazione le invase il cuore.

"No!" disse Via, e le rivolse un sorriso ampio. Negli occhi della bimba brillava una fiamma di curiosità, e una meraviglia che le aveva visto negli occhi solo quando Stolas le aveva mostrato qualche magia.

"Ti va di ascoltare qualcosa?"

Via annuì, e Stella si sporse a cercare tra gli spartiti impilati su un tavolinetto accanto a sé e tirò fuori qualcosa che aveva l'aspetto di un quaderno ben rilegato, rovinato dal tempo agli angoli, e che recava in un bordeaux sbiadito la scritta "Le Carnaval des animaux"; lo sfogliò allora delicatamente fino ad arrivare al brano intitolato Le cygne. L'aria si riempì di una melodia delicata e morbida, che sembrava sfiorare i loro animi come una carezza.

"Come fai a sapere cosa devi fare?" domandò Octavia. "È scritto lì?" Indicò lo spartito aperto sul leggio.

"Sì, è scritto lì!"

"Ci sono solo cerchietti e righe." constatò Octavia aggrottando la fronte.

"Sono come le parole se devi leggere qualcosa. E insieme fanno una frase. E le note insieme fanno una melodia che, in musica, è come parlare." Non era il modo più tecnico di dirlo, ma era stato l'unico modo che aveva trovato. Via sembrò convinta.

"Quindi, come ho imparato a leggere le parole, posso imparare a leggere le note?"

"Certo tesoro, se lo vuoi io... posso insegnarti."

"Sì!"

Così Stella le insegnò a leggere le note sul pentagramma, e giocarono a riconoscerne il suono. Con Stella che faceva vibrare una corda, e Via che, ad occhi chiusi, provava ad indovinare quale fosse. E poi suonò ancora per sua figlia, che la ascoltava seduta accanto a lei su quella sedia troppo alta che non le faceva toccare terra con i piedi, e seguiva incantata l'oscillare del polso, e il guizzare dell'archetto sulle corde, e le dita di sua madre danzare sulla tastiera.

"E questo che tiene le corde come si chiama?"

"Ponticello."

"E invece quella cosa strana che hai fatto prima?"

"Il vibrato? Te lo faccio riascoltare!"

Da quel giorno avevano passato molti pomeriggi nella sala musica, e Stella aveva suonato per sua figlia mille volte ancora, e avevano giocato ancora a indovinare le note, e imparato il ritmo come un gioco, e Octavia aveva fatto tante altre domande, e infine aveva domandato di imparare a suonare anche lei. Stella si era perfino prodigata di chiedere a Stolas di procurarle un pianoforte perché "La bambina non può mica imparare la musica per bene senza un piano."

E così, giorno dopo giorno, Via aveva imparato i rudimenti del violoncello, e sarebbe arrivata a suonarlo più che dignitosamente. E, anche se in futuro quello non sarebbe stato il suo strumento, avrebbe sempre ricordato quei pomeriggi con sua madre come giorni luminosi, intrisi di una felicità semplice.

Le era sembrato che, in fondo, suo padre e sua madre non fossero molto diversi, possedevano entrambi un dono che le portava gioia e meraviglia, e avevano scelto di condividerlo con lei. Così, in futuro, parlando di loro, si sarebbe trovata a dire in un moto d'orgoglio:

"Due cose preziose mi hanno insegnato i miei genitori: la magia e la musica."


 

 

Notes:

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Il mio angolo autrice di oggi sarà breve, ci sono poche cose che voglio dirvi, che poi è una sola cosa:

Conservate con voi i ricordi degli affetti che vi hanno illuminato la vita, conservate la sensazione al tocco di un nastro di seta tra i capelli, conservate il ricordo di una voce, conservate il colore degli occhi di chi vi ha amato e di chi avete amato, conservate le storie della buonanotte, le carezze, le bambole di pezza, le stelline di plastica che si illuminano al buio sulle pareti della vostra cameretta. Conservate un carillon rotto, una foto sgualcita, conservate il ricordo di un orizzonte, il frusciare delle foglie, di un vestito azzurro mosso dal vento, di un cappello di paglia arancione. Conservate tutti i piccoli oggetti e i piccoli istanti su cui si è posata, anche per un solo istante, la luce.

Voglio solo dirvi grazie di leggermi, soprattutto oggi, e soprattutto in questo capitolo.

A presto.

Armilla Lunastorta.

Chapter 32: Mostrare la vera natura

Summary:

Il Marchese torna a intaccare gli equilibri di questa famiglia, con risvolti inaspettati

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Mostrare la vera natura
 

Dopo l'imbarazzante pranzo in casa del suocero, Stolas non aveva avuto modo di registrare comportamenti potenzialmente pericolosi da parte del Marchese. Se pure nell'ultimo paio d'anni avesse continuato a gravitare a cadenze più o meno regolari intorno alla sua famiglia, lo aveva fatto in un modo ridicolo e disperato, e mantenendo una vena di discrezione e di timore reverenziale.

Aveva fatto recapitare regali antiquati e costosi per Octavia, ma non aveva mai osato ripresentarsi di persona in casa loro. Si era trattenuto poco oltre gli incontri del Consiglio degli Anziani nella speranza di poter incontrare il principe per i corridoi del palazzo dell'Assemblea, solo per porgergli qualche forma di ossequio. Aveva trattato Stella, le poche volte che l'aveva incontrata in società, con una reverenza quasi ridicola, e aveva preso, nelle stesse circostanze, a trattare Andrealphus come un suo pari. Certo, non era riuscito a evitare le frecciatine e le frasi di discutibile gusto, ma le aveva ridimensionate abbastanza da poterle ritenere irrilevanti nella gran parte delle circostanze.

Per tutti questi motivi Stolas aveva finito per registrarlo come "innocuo" o perlomeno troppo spaventato di perdere quel briciolo di considerazione di cui godeva ancora agli occhi di Paimon, per rischiare di rovinarla agendo in modo sconsiderato. Stella covava nel petto una naturale sfiducia nei confronti di suo padre, ma gli ultimi eventi sembravano dare ragione all'interpretazione del principe: il Marchese doveva essere cambiato, se non per scrupolo di coscienza, perché questo era certo improbabile, almeno per spirito di conservazione.

Così, quando furono invitati ufficialmente a presiedere al banchetto di uno dei Gran Duchi alleati di Paimon, in rappresentanza della famiglia reale, per l'annuale ricevimento del Solstizio d'Estate, non sembrò loro troppo rilevante che, sulla lista degli invitati, ci fosse anche il Marchese.

Al più avrebbe potuto fare qualche battutaccia su un possibile matrimonio tra Via e il figlio del Granduca, più o meno degli stessi anni, ma sarebbe bastato tenere Stella lontana dai coltelli da bistecca e il Marchese lontano dall'ennesimo bicchiere di champagne e lo scandalo sarebbe stato evitabile senza difficoltà. O meglio, sarebbe bastato tenere Stella e suo padre lontani l'uno dall'altra; il giardino del palazzo del Granduca era abbastanza grande da permettere di evitare una persona per un intero ricevimento senza nemmeno provarci più di tanto.

Dunque, la sera del Solstizio d'Estate si erano presentati al palazzo del Granduca. Stolas tutto vestito di scuro, con il gilet damascato, e la camicia dal colletto alto, e l'ampia cravatta cangiante che sembrava riflettere il firmamento nel tessuto, e le mani guantate, appariva così austero e così simile a suo padre; Stella indossava un abito grigio perla, col bustino impreziosito di ricami di pizzo, senza maniche, che le abbracciava i fianchi e ne esaltava i seni, con una gonna ampia che per un effetto ottico faceva apparire la sua vita ancora più stretta. Via stava in mezzo a loro, in un vestito semplice, a campana, color amarena, e un cappellino con un nastro dello stesso colore, sembrava particolarmente entusiasta dell'abito che si era scelta. Andrealphus non c'era, era ad un incontro dell'Assemblea a cui non poteva mancare, si sarebbe trattenuto lì fino a tarda notte o, più probabilmente, fino al mattino dopo, se qualcuno di quei diplomatici dall'aspetto gradevole l'avesse invitato a restare per discutere i punti all'ordine del giorno più approfonditamente a tu per tu.

Erano stati accolti con tutti gli onori, e Stolas aveva dovuto pronunciare, in qualità di Guardiano, e in qualità di rappresentante del Re, il discorso di apertura. Poi si erano mescolati alla folla, si prospettava una serata noiosa e piena di frasi di circostanza. Ma la verità era anche che quel tipo di ricevimenti, soprattutto legati allo scorrere delle stagioni, ricordavano loro la notte dell'equinozio, e sembrava quasi che il loro legame si rinsaldasse un po' nel ricordo di quella fuga di ragazzi, da una festa così simile a quella in cui ora erano tenuti a presiede.

Octavia, ironicamente, sembrava trovarsi bene col figlio del Granduca e con il piccolo gruppetto di ragazzini vivaci che gli gravitavano intorno, e finché nessuno dei loro genitori avesse provato ad accaparrarsi la mano di sua figlia, a Stella non faceva che piacere che se ne stesse a giocare coi ragazzini presenti alla festa. Almeno, per Via quei banchetti sarebbero stati tollerabili, divertenti addirittura, per Stella non erano stati che una vetrina in cui essere messa in mostra e giudicata. In cui non si giocava, perché non sta bene per una bambina ben educata, e non si parlava per fare amicizia, si parlava per esercitarsi nella conversazione. In cui non si rideva a bocca aperta, non si mangiava con le mani, in cui si stava seduti composti, e a tempo debito si danzava in una ritualità sempre uguale.

Così Stella li osservava da lontano, correre, giocare a nascondersi. Vedeva Via spensierata, felice, senza preoccupazioni, vedeva la bambina che lei non era stata, e il suo cuore si alleggeriva un po'. Sua figlia avrebbe avuto un destino migliore del suo, migliore del loro.

"Ogni giorno la vedo fiorire." Aveva sussurrato, quasi come fosse un pensiero ad alta voce.

Stolas le aveva cinto le spalle con un braccio. "È figlia della primavera, dopotutto."

Lei era arrossita. "Stols! Non è detto che sia successo proprio quella sera!"

Stolas aveva riso. "Oh, io sono sicurissimo sia successo proprio quella sera..."

Le guance di lei erano ora di un rosso vivo "Ma sei tutto scemo? Parlare di questo! In pubblico e poi..."

Un rumore metallico e un tonfo avevano interrotto il brusio e le chiacchiere, e tutti si erano voltati in direzione del suono. Poco distante, accanto al porticato, stavano due figure: un giovane si stava rialzando dopo essere stato evidentemente spintonato contro il tavolo del buffet, e dopo aver trascinato con sé, nella caduta, la tovaglia con annessi vassoi d'argento e tartine; mentre un vecchio, di spalle, tuonava con una voce roca:

"Provate a ripeterlo se avete un po' di quel fegato di cui tanto vi vantate!"

"Cos'è? L'età vi ha reso sordo? Ho detto quello che penso: il Consiglio degli Anziani è una farsa messa in piedi solo per dare a voi, vecchi attaccati alla poltrona, l'idea di essere ancora utili a qualcosa. È in Assemblea e sul campo di battaglia che succedono le cose importanti."

Era un giovane rampollo, fresco di accademia militare, con l'arroganza dettata dall'età e da qualche bicchiere di troppo. Il vecchio, ovviamente, non poteva che essere il Marchese.

"Oh. Siete un uomo di guerra, dunque. Anch'io lo ero, prima di diventare vecchio." Aveva detto il Marchese. "Perché non mi mostrate come voi giovani siete migliori della vecchia guardia?" e aveva sguainato la lama dal bastone.

"Marchese." La voce di Stolas era emersa dal silenzio generale, e il principe si era avvicinato lento e apparentemente calmo. "Converrete con me che non è né il luogo né il momento per sguainare la spada. Perdipiù per una sciocchezza del genere." Il Marchese aveva retratto la lama all'interno del bastone, e aveva chinato il capo in segno di reverenza.
Il principe aveva annuito, poi si era voltato verso il giovane rampollo "E voi... gli anni in accademia militare devono essere stati uno spreco di tempo, se ancora non sapete comportarvi in società. Una cosa del genere non dovrà mai più accadere, o mi assicurerò personalmente di stroncare la carriera a cui tenete tanto."

Il volto del giovane sembrava aver perso colore, e tutta l'arroganza e la sfrontatezza che lo muoveva poco prima aveva lasciato spazio solamente a una punta di timore reverenziale. "Sì, Vostra Altezza, vi chiedo perdono, Vostra Altezza." E si era defilato colmo di vergogna.

"Non è mia intenzione offendervi, principe Stolas..." il Granduca gli si era avvicinato, e aveva pronunciato quella frase sottovoce "...ma vi chiederei di allontanare vostro suocero dalla mia festa."

"Non mi offendete. Anzi. Vi chiedo scusa per lo scompiglio. Mi assicurerò che il Marchese lasci il ricevimento. Questo, purtroppo, vorrà dire che dovrò congedarmi anch'io."

"Ma la vostra presenza è..."

"Credetemi, è meglio che io mi occupi personalmente del suo rientro."

Il Granduca non aveva osato controbattere, dopotutto che il principe e la famiglia lasciassero la festa era il male minore, se questo significava evitare uno scandalo.

***

"Non volevo andare via, mi stavo divertendo!" diceva Octavia con una punta di lamentela nella voce "Non volevo! Non volevo!"

"Lo so, amore, ma dovevamo riaccompagnare il... nonno." Stella pronunciò quella parola sentendo lo stomaco aggrovigliarsi di disprezzo.

"Ma è colpa sua! Non mia! Perché non potevo restare?"

Il Marchese si irrigidì e piegò la bocca in una smorfia di fastidio, poi si mise a sedere. Erano ora nel grande salone d'ingresso del suo palazzo; la stanza era pressocché vuota, ad eccezione dei ritratti di famiglia sulle pareti, di quattro poltroncine intarsiate a sinistra dell'ingresso, e un paio di colonnine decorative di discutibile gusto, che esponevano vasi di gusto ancora peggiore.

"Tesoro mio, dovevamo, non sempre si può fare tutto quello che si vuole..."

"Ma io mi stavo divertendo! C'erano i miei amici! Non li vedo mai! Alle altre feste ci dicono sempre di non correre, e non si può mai fare niente!"

Stella si chinò verso Via e le appoggiò le mani sulle spalle. "Va bene, amore... aspetta un attimo qui, io e papà sistemiamo un paio di cose e torniamo alla festa, va bene?" Via annuì, mantenendo la stessa espressione imbronciata.

I due sposi stavano ora dando alla servitù indicazioni sulla necessità di approntare una cena, e portare un cambio qualora il loro padrone avesse voluto mettersi comodo, quando Octavia mentre si aggirava con lo sguardo fisso sui ritratti, urtò involontariamente una colonnina, il vaso posto sopra oscillò e cadde, rompendosi in mille pezzi.

Il Marchese si alzò di scatto e le rivolse uno sguardo furioso, e la bambina lo guardò con gli occhi spalancati e con la sensazione di aver fatto un guaio irrimediabile.

"Scusa, nonno." La voce timida di Via riempì l'androne austero della casa del Marchese, ma in risposta echeggiò solo uno schiaffo, e il cappellino le volò via dalla testa mentre lei ricadeva sul pavimento. Con occhi colmi di una paura mista a sgomento e la guancia che le bruciava per l'impatto. Prese a singhiozzare, senza smettere di guardare suo nonno con due occhi grandi e interrogativi, a scrutare il perché potesse aver meritato una tale reazione.

"Bisognerà fare in modo che queste cose non accadano mai più." sibilò il Marchese, roco.

"Via! Tesoro!" Stolas era accorso a raccogliere Octavia, le aveva preso il viso a coppa e le scrutava la guancia arrossata e le accarezzava i capelli, e la stringeva dicendole in un sussurro "Non piangere, c'è papà."

Ma Stella aveva un obiettivo diverso, nello stomaco le bruciava una rabbia viscerale e animalesca. E così, mentre Stolas, come primo impulso, aveva avuto quello di soccorrere Via, lei si era lanciata di scatto contro suo padre, con gli occhi infiammati di collera.

"NON DEVI TOCCARE MIA FIGLIA!"

Aveva urlato, la voce rotta, colma d'odio. E lo aveva colpito sul viso con tutta la forza che aveva in corpo. Il Marchese aveva sentito la guancia bruciare, un dolore intenso, acutissimo. Non era il dolore dell'impatto, era qualcosa di più, e aveva scoperto con orrore, portandosi la mano al viso, che la pelle veniva via al tocco come a seguito di un'ustione.

E Stella aveva visto, sul viso di suo padre, una porzione di pelle bruciata, così si era guardata la mano destra, per scoprire che il guanto di seta era in cenere e sotto spiccava, soffice e intatta, solo la pelle bianca del palmo della sua mano. Era rimasta a fissarla per interminabili secondi, confusa e in preda a un tremore sottile.

"Non osare!" Suo padre l'aveva colpita col dorso della mano anellata: un dolore sordo ed era per terra. Sentiva sulla lingua un sapore ferroso, si portò una mano alla bocca e realizzò che suo padre l'aveva ferita, l'impatto con l'anello le aveva spaccato il labbro inferiore. E una paura infantile e paralizzante la invase quando vide il proprio sangue sulle dita e suo padre incombere su di lei, con lo sguardo d'ira e di disapprovazione che troppe volte gli aveva visto negli occhi da bambina. È solo un'altra punizione. Il pensiero la attraversò, irrazionale e inevitabile. Basterà sopportare e si stancherà. Così serrò gli occhi, in attesa...

Il Marchese alzò la mano con l'anello, e il sigillo prese a brillare.

"Sei solo una puttana insolente come tua m-"

Ma un artiglio lo afferrò per la faccia e lo sollevò da terra, ancorandolo saldamente contro il muro. Il Marchese gemette in risposta, sentendo l'artiglio che si conficcava nella carne ustionata, e una paura viscerale gli invase le membra. Aveva davanti agli occhi quella figura spaventosa, fatta di pece e di piume, che aveva già visto anni prima quando aveva attaccato Andrealphus in casa di Stolas.

"Principe S-stolas..." piagnucolò.

"Non mi date nemmeno soddisfazione se iniziate a piangere subito, insomma, vi ho appena sfiorato."

Il Marchese gemette di rimando, sentiva la pelle, già danneggiata per l'ustione, lacerarsi sotto gli artigli di Stolas, e tremava, e scalciava incapace di liberarsi dalla presa di quella creatura gigantesca.

"Su una cosa avete ragione..." tuonò ancora la voce, poi il Marchese si vide artigliare il braccio destro, e Stolas iniziò a tirare verso l'esterno come a volerglielo strappare dalla spalla "Bisogna fare in modo che certe cose non accadano più." rallentò, per rendere chiare le proprie intenzioni "E per farlo...bisogna estirpare il problema alla radice."

La spalla iniziò a produrre uno scricchiolio, un crepitio simile ad un guscio di noce che si rompe. Ora dalla bocca del Marchese usciva solo un urlo soffocato e gutturale, prodotto dal dolore e dal terrore. E le lacrime gli bagnavano il viso mentre quella figura nera e rossastra, viscosa come pece e concreta come una statua di pietra, incombeva su di lui come la personificazione di un ineluttabile destino; e gli affondava più in profondità gli artigli nella carne del viso, e continuava sadico e lento a tirare, estirpare, il braccio verso l'esterno. E a fare specchio delle lacrime che gli annebbiavano gli occhi, c'era solo il volto sorridente del mostro; in risposta alle sue urla di dolore c'era solo una risata sommessa dietro quel ghigno di bestia, segno che la creatura gioiva della sua impotenza, nel vederlo per una volta nel ruolo di vittima indifesa, incapace di reagire.

L'animo di Stella era colmo di sgomento, di un atavico terrore misto ad estrema meraviglia, come se stesse guardando qualcosa di stupendo e terribile. Via, invece, aveva solo paura, e si era rifugiata tra le braccia di sua madre, non osando rivolgere gli occhi verso il mostro in cui era mutato suo padre. E Stella la stringeva tra le braccia senza parlare, col cuore che le martellava nel petto, non riuscendo a staccare gli occhi dalla scena che aveva davanti.

"Allora, Marchese? Dov'è tutta la vostra superbia? Dov'è quella sicurezza che vi ha portato a colpire mia figlia e mia moglie pensando di restare impunito?" Il Marchese provò un dolore acutissimo all'altezza della spalla e udì un sonoro clac, segno che la presa di Stolas l'aveva lussata. Lanciò un altro lamento confuso e mormorò tra le lacrime un sommesso "P-pietà..."

"Non domandate cose di cui non conoscete il significato." Ringhiò ancora il principe.

"S t o l a s."

Una voce che sembrava provenire dappertutto e da nessuna parte echeggiò nel salone, Stolas si fermò.

"Tu   non vuoi   farlo."

La presa dell'artiglio sul braccio del Marchese si allentò.

"L a s c i a l o."

Disse ancora la voce. L'artiglio che teneva l'uomo ancorato al muro si rilassò, e il Marchese ricadde sul pavimento con un tonfo.

Stolas riassorbì la forma del demone e si voltò verso il tutto, o il nulla, da cui la voce proveniva.

"Padre." Mormorò il principe; Paimon stava fermo all'ingresso, con la sclera nera e gli occhi luminosi che sembravano replicare all'infinito, come in un caleidoscopio, iridi e pupille.

"Prendi tua moglie e la tua progenie e vattene." La voce di Paimon riempiva ancora la stanza come se non provenisse da dentro, ma da fuori di lui.

Stolas si voltò verso Stella, si guardarono e non servirono parole. Stella prese in braccio Octavia, come in un automatismo. "Voglio solo andare a casa." Mormorò Via, nascondendo il viso tra il collo e la spalla di Stella, lei le accarezzò i capelli e la strinse più forte. "Andiamo a casa, amore mio."

Si allontanarono lenti, Stolas aprì un portale violetto. Stella lo attraversò per prima con la bambina tra le braccia. Fu poco prima che il portale si richiudesse alle loro spalle che Paimon posò una mano sulla spalla di suo figlio, e gli disse, con una voce severa ma udibile appena:

"Quando ti avevo detto di occupartene da solo, non mi aspettavo che facessi una cosa tanto stupida. Evidentemente c'è ancora dell'altro che devi imparare."

Poi il portale si richiuse. Erano a casa.

Notes:

Lo so, lo so cosa state pensando: questo capitolo è perfetto, il suo unico difetto è che il Marchese sia ancora vivo.

Mentre lo scrivevo lo avevo soprannominato "il capitolo delle mazzate", e spero ce ne siano state abbastanza e di non avervi deluso.

Forse Octavia avrà gli incubi di notte, ma Stella alla fine percepitela delusa come il meme di Belle quando la Bestia torna uomo.

🌟: "Stols? Puoi rifare quella cosa ma mettendo al muro me?"

No! Cattiva Stella! Cattiva!

Paimon arriva sempre sul più bello per rovinare tutto, ma ammettiamo, è un figo anche lui.

Grazie sempre di leggermi!

- Armilla Lunastorta

Chapter 33

Summary:

Odio i desclaimer eppure, eccomi qui.
Questo capitolo ha contenuti espliciti.
Ora che lo sapete andrete avanti lo stesso, e farete anche bene.
Bisogna combattere il sistema tramite queste piccole ribellioni!

E nulla, buona lettura!

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Scotch e Inchiostro
 

Era tarda sera, il palazzo del principe era immerso nel buio; salirono le scale in silenzio, Stella era sempre avanti di due passi, con Octavia in braccio, e poteva sentire i battiti del cuore della sua bambina, e le sue lacrime silenziose bagnarle la spalla scoperta, Stolas la seguiva rimuginando sulle parole di suo padre, con una punta di... rimpianto? Per non essere arrivato subito al dunque, per aver desiderato godersi il momento, al posto di agire e basta, togliere di mezzo il problema; d'altronde cosa avrebbe potuto fare suo padre, una volta che il danno era fatto?

Stella svestì Via, le sciacquò il viso e le accarezzò la guancia, il rossore era quasi svanito, quell'essere inutile, perlomeno, non le aveva fatto troppo male; anche se sapeva bene che, quello fisico, era solo un aspetto del dolore. Le fece indossare un pigiama di cotone leggero, con una stella ricamata sul lato del cuore e le rimboccò le coperte, poi sedette accanto a lei sul letto. Stolas stava sulla porta, in silenzio.

"Papà?"

Stolas sobbalzò.

"Vieni anche tu?"

Il principe esitò.

"Via io, amore mio, perdonami, io non sono quello che hai visto... cioè... lo sono, ma... non volevo... spaventarti... io..."

Octavia si passò il dorso della mano sotto gli occhi, poi esclamò con una vocina sicura.

"Papà?"
"Sì, amore?"
"Io non ho paura di te."

Stolas sorrise appena e avanzò a passo incerto, sedette anche lui sul letto, e Via gli afferrò la mano con la sua piccola manina, mentre si rilassava al tocco delle carezze di sua madre sulla fronte.

"Perché il nonno mi ha dato uno schiaffo?" domandò timida, come se se ne vergognasse "Io... ero davvero dispiaciuta per aver rotto il vaso. E ho chiesto scusa, ero sincera. Voi mi avete detto che quando si chiede scusa in modo sincero allora..."

"Amore mio, tu hai fatto quello che una persona buona dovrebbe sempre fare." Stella lo disse con la bocca piegata in un'espressione amara. "Il nonno non è una persona buona. Tu non hai fatto nulla di sbagliato."

Via sentì un'improvvisa stanchezza invaderla, era tardi, aveva pianto tanto, aveva avuto paura, e ora era al sicuro, nel suo letto, con sua madre e suo padre che vegliavano su di lei. Sentì gli occhi farsi pesanti e il cuore farsi più leggero al tocco delle dita di Stella sulla fronte, alla stretta della mano di suo padre nella sua.

"Mamma... papà..." mormorò prima di scivolare tra le trame del sonno "... vi voglio tanto bene."

***

Quando Octavia si fu addormentata si incamminarono nel corridoio avvolto dalla penombra, non si erano parlati dal loro rientro, Via era stata la priorità. Stolas si manteneva a distanza, come se temesse di risultare mostruoso, ancora, anche agli occhi di lei o come se temesse, in qualche modo, di averla delusa per non essere stato abbastanza... risoluto? D'improvviso sentì le dita di lei avvolgergli il polso, si voltò a guardarla e trovò sul suo volto un'espressione stranamente serena, velata solo da un'amarezza sottile.

"Mangiamo qualcosa, ti va?" disse Stella in un sussurro.

La cucina era silenziosa e avvolta dalla stessa oscurità che avvolgeva la casa, accendere le luci avrebbe voluto dire attirare l'attenzione della servitù, e la curiosità.

"Non c'è molto di pronto." disse Stolas "Solo della frutta e le tue praline al gianduia."

Sedettero al tavolo, condividendo spicchi di mela, o una pesca, e qualche fragola e mirtillo destinati alla colazione, e una pralina ogni tanto.

"Non ti avevo mai visto nella tua forma... completa." Disse Stella, sorridendo per la prima volta da ore, e si portò alla bocca una pralina al gianduia. "Ti dona."

"Non serve a nulla se non sono riesco a fare quello che è necessario."

"Andiamo, Stols, non sei un assassino, né un violento. Sono la prima a desiderare che mio padre abbia ciò che si merita ma... non così, non da te, non davanti a Via. Ti saresti tormentato per il resto dei tuoi giorni."

Stolas abbassò gli occhi, lei appoggiò la testa sulla sua spalla.

"Sei stanca?" domandò.

"Il contrario, mi sembra di avere un sacco di energia, non riuscirò mai ad addormentarmi."

Solas sorrise, per la prima volta sinceramente quella sera. "Già, anch'io, ma pensavo ti saresti arrabbiata se ti avessi detto che volevo restare nello studio..."

Stella afferrò una fragola dalla coppa, e la morse, assaporò il sentore zuccherino sulla punta della lingua. "Non dobbiamo per forza stare per conto nostro." Disse, quasi fosse un pensiero ad alta voce. "Potremmo bere qualcosa insieme e... parlare un po'."

Lui si alzò a frugare nella cantinetta. "Potremmo stappare una bottiglia di rosé, con la frutta..."

"Preferirei qualcosa di più forte. Ho davvero bisogno di rilassarmi Stols." E rise, una risata squillante e velata di un sottile imbarazzo. "Non abbiamo altro lì?"

"Non abbiamo nulla che...oh! Ohhh!" Un pensiero molto stupido gli invase la mente "Ma tuo fratello sì! Mi chiedo se nasconda ancora i suoi preziosissimi alcolici nello stesso nascondiglio di qualche anno fa!"

***

Le stanze di Andrealphus, in sua assenza, erano un territorio interdetto. Non che non fosse semplice immaginarne la conformazione, come anche nelle loro, la camera da letto era preceduta da quello che avrebbe dovuto essere un salottino da tè, e che lui aveva trasformato, negli anni, in una via di mezzo tra un salotto e uno studiolo. Con una grande libreria d'acero chiaro che ne occupava interamente una parete, la riempivano libri di geometria, di retorica e di diritto. C'era anche una piccola sezione goffamente nascosta che conteneva qualche raccolta di poesia; e un'ordinata collezione di prismi di cristallo. Uno scrittoio era posizionato strategicamente nel punto della stanza che riceveva più luce: sopra c'era solo la carta da lettera intestata, e un pennino d'argento affiancato da un elegante calamaio di vetro. Un divanetto turchese dai braccioli intarsiati stava al centro della stanza, di lato un piccolo tavolino tondo, e per terra un tappeto soffice della stessa sfumatura del divano. In fondo, dalla parte opposta allo scrittoio, stava un piano di lavoro, l'unico luogo disordinato, su cui stava appoggiato il modellino di un maniero, incompleto, e della colla, e pinzette lunghe e sottili.

"A tuo fratello piace fare modellismo?" domandò Stolas incuriosito da quell'oggetto così inusuale e inaspettato.

"Tanto non lo finità mai, ci lavora da un'eternità." Fece Stella, come se la ritenesse una cosa sciocca. "Allora, Stols? Questo nascondiglio?"

Stolas prese ad esaminare la libreria, percorse con lo sguardo, attentamente, il terzo e il quarto scaffale, poi picchiettò le dita su una schiera di libri dai titoli altisonanti e seri.

"Li vedi questi?"

"Si? Non me ne frega assolutamente niente delle sue noiose letture!" fece lei, impaziente.

"Nemmeno a lui, a quanto pare, sono finti." Premette delicatamente le dita sulle costine e un meccanismo rivelò che non c'era altro che quello: costine di libri che nascondevano un piccolo vano ricolmo di assenzio, scotch costosi, gin di pregio, liquori densi e fruttati e così via...

"È un maledetto stronzo!" esclamò Stella, e suonò come un sincero complimento.

Scelsero lo scotch senza un vero perché, e sedettero sul divanetto e bevvero a piccoli sorsi cadenzati; parlarono a lungo di quello che era accaduto, e se all'inizio i discorsi erano seri e pesanti, velati ancora dall'angoscia degli eventi, pian piano li invase un entusiasmo infantile, come se avessero la sensazione di aver vissuto un'epica avventura.

"Mi hai vista, Stols? Ho fatto una magia! Immagina se fossi stata più potente! Oh! Avrebbe fatto la fine delle carote!"

"Adesso sappiamo da chi ha preso Via! Ma com'è possibile? Perché adesso, perché non prima?"

"Se solo lo sapessi, ora avrei un problema in meno! Ho solo sentito una scarica elettrica andare dal cuore al palmo della mano. Non è stato volontario! Mi sentivo solo furiosa!"

"E la novità dov'è?"

"Sei uno stupido!" Stella gli diede uno schiaffetto scherzoso sul braccio: "Vuoi farmi arrabbiare anche adesso?"

"No, ti preferisco quando ridi." Rispose lui, e il viso di lei si colorò di un leggero rossore.

"E tu invece..." domandò "Perché non hai mai usato la tua forma completa? Sei stato potente ed incredibile. Uno spettacolo stupendo e terrificante, non riuscivo a distogliere lo sguardo da te..."

"Se la metti così è imbarazzante..." disse Stolas abbassando gli occhi e grattandosi la nuca "E poi in passato l'ho già fatto. Quando aspettavi Via e volevi che tornassi da tuo fratello."

"Ohh..." Stella assunse un'espressione pensosa, e Stolas fu invaso dal timore di aver detto troppo, ma lei proseguì con una rinnovata espressione giovale e beffarda "Ma così me lo sono perso! E quello stronzo di Andre non mi ha neanche raccontato nulla!"

Stolas si lasciò andare, trascinato dall'allegria di Stella "Tu dici che sono sempre buono e gentile, ma mi hai visto oggi? Devo dire, vedere tuo padre piagnucolare mi ha dato proprio una gran soddisfazione!"

"E tuo padre rovina sempre tutto!" fece Stella, piegando le labbra in un broncio teatrale.

"Sono stato quasi tentato di fare come quando ero bambino e chiedergli di farmi giocare un altro po'!"

Stella trattenne una risata. "Il grande principe Stolas, che da piccolo chiedeva al re Paimon di lasciarlo giocare altri cinque minuti? È una scena che dovrei vedere per crederci!"

"Infatti non è mai successa..."

Lei scoppiò a ridere di gusto: "Però è un peccato! Mi immagino la tua faccia da bambino imbronciata come quella di Via, che chiede al re Paimon in persona di lasciarlo ancora giocare e sentirsi rispondere: progenie mia, non possiamo, abbiamo delle obbligazioni." Disse poi, provando ad imitare il vocione di Paimon.

Stolas scoppiò a sua volta in una fragorosa risata: "Sai, non ridevo così da tempo."

Stella bevve un altro sorso, l'alcool le bagnò la ferita fresca, e lei sobbalzò e piegò le labbra in una smorfia di dolore. Stolas spalancò gli occhi, come se avesse appena realizzato qualcosa di ovvio: non che lei fosse ferita, ma che lui avrebbe almeno potuto migliorare la situazione.

"Sono uno sciocco." le prese il viso a coppa con la mano destra, e le sfiorò il labbro inferiore con il pollice "Non sono molto bravo con la magia di cura..." sussurrò, quasi a volersi scusare, poi mormorò qualcosa di appena percettibile a fior di labbra. Stella sentì un calore lieve e piacevole irradiarsi nel punto in cui Stolas la stava toccando, e la ferita si rimarginò, fino a lasciare solo un leggero gonfiore che non doleva più al tocco.
Ma un calore diverso, non magico certo, ma piacevole e intenso le aveva invaso anche il petto e le guance, Stella gli prese la mano con delicatezza e gli avvolse il pollice con le labbra, e lo stuzzicò con i denti; Stolas sussultò, i loro sguardi si incontrarono, e lui si perse un istante nei suoi occhi violetti che emergevano dal buio; poi avvicinò il suo viso a quello di lei, fino a sentirne il respiro caldo e lieve sulle labbra.

Il primo bacio fu come una carezza, uno sfiorarsi appena e un subitaneo ritrarsi. Il secondo fu dolce e più sicuro, e lei si abbandonò alla sensazione della bocca di lui sulla sua. Poi fu tutto uno schiudersi di labbra, un ritrovare il sapore dell'altro mescolato al gusto zuccherino delle fragole e quello legnoso dello scotch, e smisero di contare i baci e le carezze. Le dita di lei tra i capelli di lui a trascinarlo più vicino, e quelle di lui a fiorarle la schiena nuda. E loro due perduti nei loro respiri cadenzati, nei baci sospesi in cui allontanarsi non era che un subitaneo ritrovarsi.

Lei lo liberò del gilet e dell'ampia cravatta cangiante, e prese a sbottonare, con controllata impazienza i bottoni della camicia accollata. "Tra di noi ci sono troppi strati" mormorò nell'incavo della sua spalla, prima di assaggiargli il lembo di pelle che era riuscita a scoprire, poi si alzò in piedi, con l'intenzione di slacciarsi il corpetto, e fece oscillare giocosamente i fianchi indietreggiando di qualche passo. A Stolas apparve argentea come la luna, ma la luce che emanava le apparteneva pienamente.

E prima che lei potesse spogliarsi era in piedi anche lui, a cingerle i fianchi, a mordere e baciare la pelle scoperta del petto e delle clavicole, a cercare ancora la sua bocca, a sussurrarle all'orecchio: "Hai ragione, troppi strati." La sollevò e la mise a sedere sullo scrittoio, sparpagliando le carte e rovesciando il calamaio sul pavimento.

"È un disastro..."
"Manderemo qualcuno a pulire, domani."

Stolas le slacciò il corpetto, e l'aria fresca della sera le accarezzò la pelle. Stella tremò alla sensazione del respiro caldo di lui sui seni e sul ventre, e sentì le sue mani ammucchiarle il tessuto della gonna al lato dei fianchi. E ancora le sue labbra brucianti percorrerle l'interno della coscia dal ginocchio all'inguine, e le sue dita scostarle le mutandine di seta, fino a sentire la sua lingua posarsi, gentile e insistente, sul suo sesso. Sentì le guance avvampare, e una scarica elettrica le attraversò la spina dorsale.

"Stols che-"

Fu invasa da un imbarazzo sottile: quella era una cosa nuova e... inaspettata; provò a svincolarsi senza vera convinzione e lui non fece che trattenerla di più, senza smettere di darle piacere: continuò finché non sentì il respiro di lei farsi affannoso e i muscoli delle sue cosce contrarsi contro i palmi delle sue mani. Poi percorse a ritroso il cammino, dal ventre, ai seni, alle clavicole e le catturò di nuovo le labbra in un bacio, e lei sussultò nel riconoscere, mitigato dalle fragole e lo scotch, anche il proprio sapore.

Stella gli slacciò i pantaloni, con un'impazienza disordinata, e lo attirò più vicino. E Stolas gemette della sua bocca quando, nell'abbandonarsi dentro di lei, la trovò morbida e calda, e cedevole di desiderio. E fu com'erano stati i baci: all'inizio i loro movimenti furono timidi, lenti, intrisi di tenerezza, poi sempre più sicuri, violenti, smaniosi. E insieme al piacere che si irradiava nel ventre e le faceva tremare le gambe, Stella aveva la sensazione che il cuore le scoppiasse nel petto, e il fiato le si mozzasse a metà della gola.

"Stols" ansimò "Un momento..."

Lui rallentò, la guardò con occhi lucidi e perduti, e trovò negli occhi di lei la stessa espressione sognante e stordita di piacere.

"Vuoi fermarti?"
"No."

Stella premette i palmi delle mani sul petto di lui, lo allontanò delicatamente per potersi rimettere in piedi, sentiva le gambe instabili, e la testa leggera. Si sfilò le mutandine e lo guidò sul tappeto, e si riempì gli occhi dell'immagine di Stolas ancora mezzo svestito, con la camicia blu notte aperta sul petto, i capelli scompigliati che gli ricadevano sulla fronte. E per Stolas, vederla così luminosa, con la pelle candida che riluceva nella penombra della stanza, fu come tonare ragazzo sulla collina e rivedere, nella donna che aveva di fronte, quella ragazza vitale e irriverente che gli aveva spiegato, senza parole, cosa fosse il piacere.

Lei gli salì a cavalcioni, e l'ampia gonna che ancora indossava li avvolse come una coperta d'argento. Iniziò a muoversi lenta, come a voler dilatare il tempo, o amplificare le sensazioni; dettò il ritmo per un po', per riprendere fiato e assaporare la sensazione del controllo, con una mano sul petto di lui, e le dita dell'altra che gli avvolgevano il collo ed esercitavano una leggera pressione, a Stolas sfuggì un gemito sommesso, e la vide sorridere nel buio, di quella soddisfazione dolce che si prova nell'imparare qualcosa di nuovo sul piacere dell'altro.

Poi lei lasciò la presa e si chinò verso di lui, gli posò un bacio leggero a fior di labbra, così che lui la inseguisse, e provasse a catturargli le labbra nella breve distanza che ora separava i loro visi. Solo allora, quando lui inseguì quel bacio negato, lei gli prese le mani e le guidò sui suoi fianchi, e Stolas capì che gli stava cedendo il controllo, e affondò le dita nella carne e mosse il bacino verso di lei, e tornò a dettare un ritmo incalzante e veloce.

"Ah! Maledizione!" si lamentò lei d'un tratto.
"Ti... ti ho fatta male?" gli occhi di Stolas si velarono di preoccupazione.
"No, è questo stupido scomodo tappeto, non abbiamo più vent'anni!" mormorò mentre si rialzava, poi indicò la camera da letto di Andrealphus "Andiamo di là, tanto non torna."
"Si arrabbierà."
Stella scoppiò in una limpida risata.
"Credo avrà già abbastanza motivi per arrabbiarsi."

Lui la vide dirigersi verso la porta, spalancarla con noncuranza e voltarsi verso di lui per invitarlo a seguirla. E la guardò avanzare verso il grande letto a baldacchino, e slacciarsi la gonna, lasciando che le si ammucchiasse alle caviglie, e liberarsi, un piede alla volta da quell'anello di tessuto. E percorse con lo sguardo la pelle bianca della schiena, e le fossette di Venere, e la linea morbida dei fianchi, e i glutei e le cosce tornite, e allora la seguì, e la raggiunse, e la avvolse da dietro in una stretta gentile. Le posò un bacio umido e caldo tra il collo e la spalla.

Lei fu percorsa da un fremito, percepì il calore del petto di lui che aderiva alle sue spalle e i suoi denti stuzzicarle il lobo dell'orecchio, e il suo respiro tagliare il silenzio; provò a voltarsi per baciarlo, ma lui le concesse solo un bacio fugace all'angolo della bocca prima di riprendere a bagnarle la pelle del collo con piccoli baci. Aveva la sensazione che le gambe potessero cedere, così si appoggiò con le mani alla colonna del letto a baldacchino coi gomiti flessi. Lui ne seguì il movimento, senza staccarsi da lei; e quell'abbraccio, con cui prima la teneva stretta all'altezza dei fianchi, mutò in carezze decise, e Stolas l'attirò a sé e afferrò uno dei suoi seni nudi. Poi si fece strada dentro di lei, assaporando la sensazione di sentire i suoi muscoli accoglierlo, e compiacendosi dei battiti del cuore che sentiva rimbombare distintamente attraverso la sua schiena.

"Stols, spostiamoci a letto."
"Solo un momento."

Stolas percorse con la mano destra il corpo di lei, dal seno al ventre, fino a schiuderle le labbra e sfiorarle il clitoride; e lei si abbandonò a quel tocco delicato e deciso, si abbandonò ai suoi baci sul collo e la schiena, al calore della pelle di lui contro la sua.

Ed ebbe di nuovo l'impressione che il fiato le mancasse, che dentro di lei si accumulasse come un'inespressa energia, e infine un brivido caldo e intenso si irradiò attraverso il suo corpo, strappandole un gemito confuso e acuto: le sue gambe cedettero; fu allora che si spostarono sul letto.

Se c'era una cosa su cui Andrealphus non transigeva erano i tessuti, che si trattasse di vestiti o di biancheria da letto, pretendeva che fossero pregiati, lisci al tocco, freschi e piacevoli sulla pelle, e per questa sua piccola ossessione non avevano mancato occasione per prenderlo in giro; eppure, quando i loro corpi toccarono le lenzuola di percalle non poterono che...

"...ringraziare quello stronzo e le sue fissazioni!"
"Stiamo già facendo una cosa sbagliata, devi per forza dargli dello stronzo?"
"È tardi per i sensi di colpa, togliti la camicia."

E Stolas si sfilò l'ultimo indumento che aveva addosso, e si trovarono nudi sdraiati sul fianco, la fronte contro la fronte, ad intrecciare le gambe e godere del contatto della pelle dell'altro. E nel riprendere fiato non smisero mai di sfiorarsi una spalla, il viso, i fianchi, le cosce, finché non tornarono a toccarsi, l'un l'altra, per darsi piacere, a tenere viva la fiamma di un desiderio non ancora appagato del tutto. Lei si sdraiò sulla schiena e lo attirò in un bacio bruciante, e schiuse le ginocchia in un invito, e sussultò di sorpresa quando, al posto di tenerle le sue gambe al lato dei fianchi, Stolas se le pose sulle spalle. Stella avvampò di imbarazzo, e percepì di nuovo quello stesso noto calore invaderla.

"Stols?"
"Mh?"
"Ancora."

Notes:

Potrei essere stata costrett- ehm spronata da alcune amiche a scrivere questa "mirabolante scopata" (titolo provvisorio del capitolo) nelle stanze del povero ghiacciolino.
Mentirei se dicessi che alla fine non mi sono divertita. Potete considerarla parte della trama, oppure no, personalmente è stato un divertente esercizio di stile, di cui mi ritengo addirittura soddisfatta.
Questo capitolo è pieno di scemenze, ma vi giuro che non ero ubriaca quando l'ho scritto, se questo sia un merito o un demerito... ai posteri l'ardua sentenza.
Dato che non ci sono grandi considerazioni filosofiche e non abbiamo parlato di massimi sistemi credo di aver detto tutto.

A presto rileggerci,

- Armilla Lunastorta

Chapter 34

Summary:

Andrealphus scopre della scappatella dei due sposi in camera sua

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Tutto per una scintilla
 

L'alba li colse addormentati e ancora nudi tra le lenzuola sgualcite, l'uno di fianco all'altra, con Stella a pancia in giù con i capelli scompigliati che le ricadevano sulla schiena e sulla fronte, e con Stolas sdraiato di fianco, con la fronte che sfiorava la spalla di lei, con un braccio che l'avvolgeva mollemente all'altezza dei fianchi e le gambe intrecciate alle sue.

Una pallida luce violetta aveva invaso la stanza sfiorando le loro palpebre chiuse, ridestandoli, e la prima cosa che videro fu il volto dell'altro, assonnato e rilassato, incorniciato dai capelli arruffati abbandonato tra i soffici cuscini. Poi videro le lenzuola di percalle, e le colonne del letto a baldacchino, e la stanza diversa.

"Cazzo, Stolas! Ci siamo addormentati!" Stella balzò a sedere sul materasso con un movimento rotatorio.

Stolas sussultò, e si mise a sedere anche lui. "Via! Se si è svegliata? Se non ci ha trovato in stanza?"

Senza pensarci aprì un piccolo portale per scrutare dentro la cameretta di Via, e la vide rannicchiata su sé stessa e abbracciata alla bambola di stoffa, dormiva profondamente.

"Dorme." Constatò, e richiuse il portale. Ma quando si voltò a guardare Stella trovò sul suo volto una smorfia di disappunto.

"Giurami che non lo farai più." Disse lei "Soprattutto non quando sarà adolescente."

"Perché che succede in adolesc...oh. Oh!"

Stella alzò un sopracciglio, lui si fece rosso in viso.

"Non voglio nemmeno pensarci! Mai più."

"Dobbiamo sistemare questo disastro." Lei sgusciò fuori dal letto, la sensazione fredda del marmo sotto i piedi nudi la fece rabbrividire, raccolse la camicia di Stolas e gliela lanciò colpendolo in faccia.

"Rivestiti."

"Ieri non vedevi l'ora me la togliessi."

"Non è il momento di scherzare, se ci trova qui mio fratello..."

"Stella..."

"...dobbiamo dare ordine di pulire tutto..."

"Stella."

"...far cambiare le lenzuola, rimettere a posto lo scotch..."

"Stella!"

Lei si voltò a guardarlo.

"Che cos'hai da urlare?"

"Rilassati." Stolas le rivolse un ampio sorriso "È ancora l'alba."

Stella si accasciò di nuovo sul letto come se avesse consumato all'improvviso tutte le energie.

"Hai ragione. E poi non mi reggo sulle maledette gambe."

"Non c'è di che."

Stella avvampò. "Ma sei scemo o ancora ubriaco?" lo colpì scherzosamente al petto, e lo sentì ridere di gusto, rise anche lei del suo stesso imbarazzo, poi lo guardò seria.

"Stols...quella cosa di ieri, sullo scrittoio... dove l'hai imparata?"

"In uno dei miei stupidi Harmony." Fece lui, cercando di non gongolare.

"Forse non c'è solo roba stupida là dentro."

"Abbiamo tempo, se vuoi riprovare."

***

Andrealphus arrivò in tempo per la colazione, indossava ancora l'abito formale della sera prima, i capelli in ordine ma un po' meno del solito, la giacca spiegazzata all'altezza del petto, un leggero alone violetto sotto gli occhi, e sul viso un'espressione pensosa.

Trovò Octavia che giocherellava con il pancake che aveva nel piatto senza vera intenzione di mangiarlo, aveva l'aria triste e assorta. Stella e Stolas sembravano invece sereni, quasi allegri, la incoraggiavano con voce morbida a mangiare almeno qualcosa, si sfioravano appena potevano, si scambiavano sorrisi, e sguardi intrisi di una inusuale complicità.

"Buongiorno, zio Andre." disse Via con voce flebile, e tornò a fissare concentrata il suo pancake.

"Buongiorno piccola." Andrealphus sedette nel posto di fronte al loro e si versò del tè, poi pescò dal mucchio una manciata di mirtilli e un paio di pancakes.

"Non ci sono le fragole?" domandò.
"Sono finite ieri sera." Gli rispose Stella con noncuranza.
"Ieri sera? Avete mangiato così male in casa del Granduca che avete dovuto ripiegare sulla frutta?"

I due sposi si lanciarono un'occhiata indecifrabile.

"Siamo dovuti andare via presto dalla festa del Granduca, ne parliamo più tardi." Intervenne ancora Stella, facendo un cenno verso Via.

Andrealphus annuì, era di certo qualcosa di cui parlare senza la bambina; poi bevve un sorso di tè, aveva ancora sul viso quell'espressione pensosa e perplessa.

"Scusate se sono taciturno..." disse all'improvviso "È che non riesco a smettere di pensare a una cosa davvero strana." Mandò giù un altro sorso di tè "Stamattina, la servitù deve aver rassettato la mia camera, nonostante io avessi dato ordine di non entrarvi in mia assenza. Hanno anche rovesciato il calamaio senza nemmeno riuscire a ripulire bene, e hanno cambiato le lenzuola, il che deve essere stato un errore, erano state cambiate ieri mattina..."

Stella si irrigidì sulla sedia e il petto e le guance le si chiazzarono di rosso, si voltò a guardare Stolas che appariva improvvisamente interessato alle notizie del quotidiano e sembrava sprofondarci dentro con la faccia. Andrealphus corrugò la fronte, di tutte le reazioni che poteva aspettarsi da quello stupido aneddoto, l'imbarazzo non lo aveva nemmeno contemplato. Un pensiero sbucò non invitato nel retro della sua testa. Scosse il capo e serrò e riaprì le palpebre. Non è possibile. Sono paranoico.

Ma quel pensiero non lo lasciava in pace, serrò gli occhi a fessura e si mise a scrutarli.

"E così siete rientrati presto..."
"Sì, ti ho già detto che ne parleremo dopo." Fece Stella, lui notò che era spettinata, lei non era mai spettinata a colazione. Sto costruendo una paranoia sul niente. Ma posò ancora lo sguardo su di lei, aveva il labbro inferiore leggermente gonfio. L'ha picchiata? Si massaggiò le palpebre e fece un profondo respiro. No. Ma che diavolo penso. Poi lo sguardo si posò sul collo di Stella, rivelando in un alone violetto, due a giudicare dal secondo, più ampio, coperto per metà dalla giacca da camera. Non sono paranoico. Hanno scopato. In camera mia.

"Dovrò cambiare il materasso." Mormorò, sentendo una vena di disgusto invadergli l'esofago.
"Perché? È così comodo." Stella lo disse senza pensarci, e se ne pentì subito.

Andrealphus ebbe la sensazione che tutto il sangue presente nel suo corpo gli affluisse al cervello, si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza.

"Manco una notte! Una! E voi che fate? Decidete che potete sfogare i vostri istin..." Si bloccò quando vide che Octavia lo stava fissando con due occhioni perduti e pieni di domande.

Stolas prese sua figlia per mano e disse con una vocina acuta: "Dobbiamo andare, lezione di magia!"

"Ma è ancora presto!" si lamentò Via.

"Non è mai troppo presto per imparare!"

Stella gli lanciò uno sguardo torvo: "Stolas?! Stai davvero scappando?"

"Si chiama ritirata strategica!" Stolas le fece un goffo occhiolino, prima di lasciare la stanza con Via, richiudendo la porta dietro di sé.

Quando furono soli Andrealphus si voltò a guardarla con occhi colmi di ira e vergogna, aveva il volto arrossato e una vena emergeva in rilievo al lato della sua fronte.

"Che ho fatto per meritarmelo?" domandò in tono piagnucoloso.

"Andre..." Stella gli si avvicinò, non osando toccarlo, era costernata e piena di imbarazzo ma non riusciva a smettere di ridere. "... non era premeditato! Volevamo solo i tuoi alcolici."

"Avete rubato i miei alcolici e scopato per tutta la notte nel mio letto?"

"Nel letto soltanto alla fine..."

Lui sgranò ancora di più gli occhi e spalancò la bocca in un'espressione di incredulità.

"Cos'altro devo bruciare, Stella? Avete fatto qualcosa sul mio divano?"

"No, sul divano abbiamo solo bevuto e pomiciato."

"Non voglio saperlo!"

"Ma me lo hai chiesto tu!"

La testa di Stolas fece capolino da dietro la porta: "Scusate..." disse con il tono acuto che non riusciva a smettere di usare, e allungò la mano verso uno svuotatasche pescando un libricino che c'era appoggiato sopra "... abbiamo dimenticato un libro. Adesso vi lascio." E scomparve di nuovo dietro la porta.

"Io lo ammazzo." disse Stella a denti stretti.

Andrealphus sedette di nuovo, appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani, rimase in silenzio per un tempo che a Stella parve interminabile.

"Però dai, Andre, ho visto il modellino... ti sta venendo bene!"

Lui si voltò verso di lei con uno sguardo incredulo e disperato: "Dimmi che non lo avete fatto anche sul mio tavolo da lavoro."

"No! Su quel tavolo no."

"E questo cosa vorrebbe dire?"

"Niente! Deve per forza voler dire qualcosa?"

Un pensiero fulmineo gli attraversò la mente: "Il calamaio! Che diavolo avete fatto sul mio scrittoio?"

"Noi..."

"Anzi, no! Non lo voglio sapere! Infatti, me ne vado."

Si alzò di scatto e si diresse verso la porta, ma lei lo rincorse e lo afferrò per un polso.

"Aspetta! Devo raccontarti altro di ieri sera!"

"Non voglio saperlo."

"Ma c'entra la magia."

"Non voglio sapere come mio cognato usa la magia su mia sorella."

"No! È qualcosa che ho fatto io!"

"Così suona anche peggio!"

"Non è nulla del genere, c'entra papà."

Andrealphus si fermò, la guardò negli occhi e vide che l'imbarazzo aveva lasciato il posto a un'espressione seria e negli occhi violetti di lei c'era qualcosa di simile alla tristezza.

"Cosa c'entra nostro padre in tutto questo?"

"Possiamo sederci?"

Lui si sentì esausto e sedette sul pavimento, con la schiena contro il muro, e lei sedette di fronte a lui con le gambe incrociate. Sembra come quando eravamo bambini. Pensò, e si sentì un po' in colpa per quella bravata quasi adolescenziale ai danni della camera di suo fratello.

Prese a raccontargli quello che era accaduto la sera prima, della rissa al banchetto del Granduca tra suo padre e il giovane rampollo. Dell'intervento di Stolas, del ritorno a casa del Marchese, dello schiaffo a Via.

"Ecco perché era triste, stamattina." Mormorò Andrealphus, sentì una sensazione amara invadergli il petto.

"Sì, ma... c'è dell'altro." Disse Stella "Io ho... affrontato papà. Mi sono sentita così infuriata Andre. Di me, che faccia quello che vuole. Ma Via... non avrebbe dovuto toccarla. L'ho colpito sul viso e, non prendermi per pazza, lo ha visto anche Stolas. Ecco, io l'ho colpito a palmo aperto e gli ho bruciato la faccia. Non so come ho fatto, non so replicarlo, ma il mio guanto è andato in cenere e nostro padre aveva un'ustione estesa sulla guancia."

Andrealphus le prese la mano e le accarezzò il palmo colmo di sorpresa e curiosità.

"Ce l'hai." Sussurrò "Credevo che tu non..."

"Già." Stella gli sorrise "Comunque lì per lì non sono riuscita a farci granché, non ho nemmeno capito che ero stata io. Papà mi ha colpito con il dorso della mano prima che potessi fare molto, mi ha rotto il labbro, ma non ti preoccupare, Stolas mi ha curata." Indicò il lieve gonfiore a destra del suo labbro inferiore "Mi sono sentita una stupida, ero per terra, paralizzata, Andre...ho quasi pensato di meritarmelo, ero di nuovo pronta subire qualsiasi punizione senza fiatare."

Una fitta acutissima percorse il petto di lui, le strinse la mano tra le sue. "Mi dispiace, di non essere stato lì."

"C'era Stolas, mi ha...ci ha protette." Disse lei "Ha preso la sua forma completa. Mi ha detto che tu l'hai già vista, anni fa, quando aspettavo Via." Lui annuì senza dire nulla, così Stella continuò. "Oh, Stolas lo avrebbe ammazzato, lo ha sollevato per la faccia con gli artigli, gli ha quasi strappato un braccio, c'era sangue dappertutto..."

"Nostro padre è vivo?"

"Sì. Solo malconcio." Stella non capì se quella negli occhi del fratello fosse una vena di delusione. "È comparso Paimon e lo ha fermato, o meglio, gli ha ordinato di fermarsi e lui ha obbedito. Lo sai come funziona." Fu percorsa da un brivido lungo la spina dorsale "Quell'uomo mi mette i brividi Andre. È spaventoso. Ma non dovrà mai, mai sapere che lo temo." Sentiva il cuore martellarle nel petto "Octavia non avrebbe dovuto vedere una scena del genere, siamo stati stupidi e impulsivi, entrambi." mormorò infine abbassando gli occhi.

Poi sentì un paio di braccia avvolgerla stretta. "Sono così felice che tu stia bene, che Via stia bene..." disse Andrealphus in un sussurro, e la strinse più forte.

"Ehi! Questa cosa degli abbracci ti sta sfuggendo di mano." Scherzò lei. "Ti sei ammorbidito."

Suo fratello le sorrise "Dovevi dirmelo subito, di nostro padre, della magia."

"Volevo dirtelo è che tu hai preso quel discorso..."

"Ti prego non ricominciamo."

"Mi dispiace Andre, ma eravamo scossi, e ubriachi, e Stolas è stato gentile...e generoso."

"Stella!"

"Va bene. Basta. Scusa."

Stella si coprì il viso con le mani.

"Non sarà una cosa facile." Disse Andrealphus, serio, passandosi una mano tra i capelli.

Sua sorella gli rivolse uno sguardo interrogativo.

"La magia, dico. Sei già un'adulta."

"Non credo di capire."

"Nei bambini è più facile replicare un evento di questo tipo. È più facile che imparino a riconoscere e convogliare la carica magica, negli adulti..." esitò, non sapeva come spiegarlo, non sapeva esattamente nemmeno a cosa fosse dovuto, e soprattutto lui era un'eccezione all'inverso, la magia aveva sempre fatto parte di lui, e da quando aveva manifestato il dono, era riuscito a replicarlo in maniera del tutto naturale. "...negli adulti è più complesso. Credo abbia a che fare con una diversa gestione delle emozioni e con la spontaneità, nei bambini non si è ancora stabilizzata una sovrastruttura sociale in cui vigono le regole e l'ordine, è come se quella libertà che non hanno ancora perso li faciliti. Il tuo caso è addirittura più singolare, sei stata educata per essere..." voleva dire ubbidiente, ma gli sembrò una parola terribile da pronunciare, gli faceva affiorare alla mente cose a cui non voleva pensare, inspirò, espirò: "... sei stata educata per essere perfettamente controllata. Il fatto che tu sia naturalmente tendente alla ribellione ti faciliterà, ma non cancellerà gli anni passati a imparare l'etichetta e a sopprimere le emozioni dietro i convenevoli di facciata."

Stella corrugò la fronte. "Se non posso più rifarlo, se è stato solo un caso, devi dirmelo Andre. Non voglio vivere di una stupida speranza infantile."

"Non lo so se puoi rifarlo. È probabile che tu possa impiegare anni per arrivare ad una padronanza tale da poter iniziare a studiare davvero."

"Impiegare anni è una cosa, sprecare anni è un'altra."

"Impiegare. Non sprecheresti tempo, ma non vedresti dei risultati soddisfacenti nel breve termine. Nello stesso tempo in cui Octavia saprà controllare una muraglia di fuoco tu, forse, sarai arrivata a saper accendere e spegnere una candela."

"Arriverò ad accendere quella maledetta candela allora."

"Può essere frustrante e svilente." Disse Andrealphus, come se volesse proteggerla da una delusione.

"Sono sentimenti a cui sono avvezza. Almeno sarà qualcosa che faccio per me."

Lui la guardò come la guardava da piccola quando si intestardiva su qualcosa, era un'espressione che racchiudeva insieme tante emozioni diverse: una preoccupazione sottile, un affetto sincero, e una scintilla di ammirazione. Andrealphus, quella determinazione, non ce l'aveva avuta mai. La paura di una delusione era forse una cosa che apparteneva più a sé stesso che a sua sorella, e lei non meritava di rinunciare a qualcosa per una sua insicurezza. Fu tentato di chiederle per l'ultima volta se ne fosse sicura, ma non lo fece.

"Va bene." Disse allora "Proverò ad insegnarti tutto quello che so."

"Basta che non fai lo stronzo se non ci riesco." Fece lei, con un broncio infantile.

"Non lo farei mai."

Notes:

Alloooooora in realtà non so bene cosa dire in questo angolo autrice, era un capitoletto goliardico in cui abbiamo imparato una cosa importante: gli Harmony insegnano delle skills che le donne apprezzano.

Povero Andrealphus, avrebbe preferito non saperlo, adesso dovrà far disinfettare tutte le superfici lisce della sua camera! E cambiare il materasso, ovviamente!

Ma alla fine, rimane un bravo fratello, con tutti i difetti del caso... come la cattiva gestione dello stress, e l'incapacità di finire un modellino.

Il prossimo capitolo farà partire un nuovo piccolo arco narrativo che spero di riuscire a gestire dignitosamente, nonostante mi metta non poco in difficoltà.

Un grande abbraccio, e spero vi siate goduti questa ventata di leggerezza. Sappiamo che non durerà per sempre.

Armilla Lunastorta

Chapter 35: La fase delle fiamme ribelli

Summary:

Octavia sta crescendo!

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

La fase delle fiamme ribelli

 

Stella non sapeva esattamente quando fosse successo, non se ne era accorta subito o forse non aveva voluto accorgersene per un po', crogiolandosi nella rassicurante sicurezza che Via fosse ancora "la sua bambina". Credeva che sarebbe stato Stolas a sviluppare le prime preoccupazioni, e notare i primi cambiamenti, ma Stolas vedeva ancora soltanto la bambina; mentre Stella nei pochi mesi che erano seguiti agli undici anni di Via, aveva iniziato a notare, camuffati ancora dietro il viso tondo di bambina, i primi accenni di una definizione del viso. E poi non aveva potuto più negarlo, era evidente che Via si fosse fatta più alta, più snella, e aveva assunto quella grazia androgina della preadolescenza, con i fianchi non ancora definiti e sul petto un accenno appena del seno.

E Stella aveva visto la curiosità infantile lasciare posto, negli occhi di Via, a una curiosità più adulta e attenta, brillante e analitica. Le manifestazioni di gioia e di tristezza, un tempo così plateali, fatte di lacrime e risate, si mescolavano più spesso a sorrisi miti, a risate più calde e controllate, a pieghe della bocca all'ingiù o alla fronte appena aggrottata. Via si era fatta più silenziosa, e le domande, se pur più precise e articolate, erano diventate meno frequenti. Una strana timidezza o pudore sembrava aver preso a far parte del suo carattere, ed era diventata appena un po' più schiva.

Amava ancora le storie, se possibile più di quanto non le amasse da più piccola, e i libri illustrati e le fiabe avevano lasciato il posto a racconti d'avventura e di viaggio, a pagine fitte fitte di trama in cui i protagonisti si destreggiavano nelle più incredibili imprese. Solo che, sempre più di frequente, aveva preso a leggerle da sola, rimanendo sveglia fino a tardi a fare luce con le fiammelle che ormai le veniva così naturale produrre.

In realtà, quelle fiamme violette, erano diventate parte della sua quotidianità. Talvolta, se doveva girare per un corridoio di notte, non si premurava di accendere la luce, ma lasciava fluttuare davanti a sé una fiammella che la guidasse attraverso il buio della sera.

Di problemi ad addormentarsi non ve aveva quasi più, ed era raro che li cercasse nel cuore della notte per un conforto. E se da un lato era una cosa che la rasserenava, che le faceva pensare che in fondo sua figlia stava crescendo il più possibile serena, dall'altro Stella si era trovata presto a dover affrontare un sentimento di nostalgia per i momenti in cui la sua bambina si infilava accanto a lei nel letto, o la reclamava per una storia della buonanotte. Anche per Stolas era lo stesso, ma non se lo erano confidato.

Avrebbero dovuto capirlo, o almeno sospettarlo, da quello che in futuro avrebbero ricordato come "la fase delle fiamme ribelli". C'era stato un periodo, tra il suo undicesimo e dodicesimo compleanno, in cui Octavia aveva iniziato ad essere più imprecisa nell'uso della magia naturale.

All'inizio si era trattato di eventi di poco conto, appena percettibili: una candela accesa per errore, una momentanea perdita di controllo sulle dimensioni di una lingua di fuoco o una instabilità nel colore che la faceva variare dal viola al prugna; tanto che né Stolas, né la stessa Via, vi avevano dato troppo peso, né ne avevano messo Stella al corrente.

Le avevano invece raccontato un sabato mattina, raggiungendola nella sala musica, dopo appena mezz'ora che si erano allontanati per la solita lezione di magia, che quel giorno lo studio era saltato per circostanze singolari. Sarebbe stato meglio tenere Via lontana dai libri, e in quella stanza dagli spartiti, perché ogni pezzetto di carta che toccava sembrava andare in autocombustione senza apparente motivo. Via era sembrata piuttosto divertita, e per nulla preoccupata, le lezioni iniziavano a farsi più serie e teoriche e prendersi una pausa, se pur concessa da un cattivo controllo della propria carica magica, le era sembrato uno strano regalo del destino.

"Sei sicuro che sia tutto sotto controllo?" aveva domandato Stella, aggrottando la fronte "Insomma, non è mai successo."

"Sta' tranquilla." l'aveva rassicurata Stolas "Anch'io, attorno ai dodici anni ho avuto un periodo di strane fluttuazioni della carica magica, passerà com'è arrivato."

Stella non era sembrata convinta, ma d'altronde lei aveva manifestato i poteri da adulta, e non aveva metri di paragone.

Infine, c'era stato l'incidente nella serra. Stolas era entusiasta delle nuove fioriture di agosto: la serra era coloratissima con lo sbocciare dei gladioli, delle dalie e delle zinnie. E aveva voluto mostrarle a Stella e a Via, con una punta di orgoglio per essere riuscito a ricreare il microclima perfetto per la fioritura; era persino riuscito a perdersi con occhi sognanti nella spiegazione etimologica delle piante in questione.

"Il gladiolo viene chiamato così perché la foglia ricorda il gladio, ovvero una spada corta che..."

Stella gli aveva preso il viso tra le mani e lo aveva costretto a voltarsi verso di lei "Stols, per favore, così rovini solo la bellezza dei fiori." gli aveva detto poi con un tono tra il serio e il divertito.

"Oh hai... hai ragione." Aveva risposto Stolas arrossendo.

"Passano gli anni ma non cambi mai, i tuoi pensieri sono sui libri di botanica anche quando hai la meraviglia dei fiori veri davanti agli occhi." Gli aveva sussurrato lei all'orecchio, e poi aveva aggiunto ad alta voce "È uno spettacolo bellissimo, comunque."

"È vero, sei stato bravo papà!" era intervenuta Via, mentre restava ipnotizzata dal giallo e rosso dei gladioli, dal rosa e bianco delle dalie, dalle zinnie variopinte.

"C'è un fiore che preferisci, tesoro?" aveva domandato Stolas, colmo di orgoglio.

E Via, a quel punto, con estremo entusiasmo, aveva esclamato indicando le dalie: "Credo che quelle siano stupende!", e nell'istante in cui vi aveva puntato il dito contro, la zona delle dalie era stata invasa da una ventata infuocata ed era andata in cenere. Via aveva spalancato gli occhi di sorpresa e di delusione. Poi si era guardata le mani confusa, e aveva guardato suo padre con un'espressione costernata:

"Io... non..." Via aveva sentito un nodo alla gola, e aveva mormorato con voce strozzata: "Scusa papà, ho rovinato tutto." Una singola lacrima le aveva rigato la guancia. "Non l'ho davvero fatto apposta, non so come è successo, io..."

Stolas le aveva preso le mani in una stretta delicata e rassicurante "Non è successo niente, amore mio." Poi le aveva spostato una mano sul viso e asciugato la lacrima con il lato del pollice. "Pianteremo insieme nuovi fiori, va bene?"

Via aveva annuito e aveva fatto uno di quei sorrisi miti che Stella aveva iniziato a classificare come "adulti", poi si era allontanata mesta ed era stata silenziosa e assorta per tutto il giorno. Quella sera, Octavia, era rimasta sveglia a pensare; aveva la sensazione che la magia non le obbedisse più; in realtà aveva la sensazione che molte cose legate alle proprie emozioni non le obbedissero, se era vero che quella mattina nella serra non avrebbe voluto incendiare i fiori appena sbocciati, era anche vero che non avrebbe voluto nemmeno piangere, eppure le lacrime avevano preso a scorrere prima ancora che potesse accorgersene. Esattamente come stava succedendo in quel momento: nel ripensare ad un incidente così sciocco le guance le si bagnavano di nuovo di lacrime.

Non mi addormenterò mai. Pensò, ed ebbe l'impulso di raggiungere la camera dei suoi genitori, ma poi un moto di orgoglio la invase. No. Sono grande ormai. Afferrò dal comodino il racconto che aveva lasciato a metà e per leggere, per precauzione, quella notte accese la luce.

Per un paio di settimane non erano accaduti incidenti eclatanti, la carica magica era ancora instabile, e Stolas aveva dovuto far assumere alle lezioni un aspetto più teorico onde evitare che Octavia incendiasse il palazzo per errore. Via si era accorta che il cambio di programma era dovuto alla sua imprecisione nel controllo delle fiamme, e la faceva irritare che suo padre le ponesse il tutto come se si trattasse di una necessità dettata da una nuova fase della vita, piuttosto che da un momentaneo escamotage per arginare il problema:

"Adesso sei grande, dovremmo iniziare a parlare anche di storia della magia, e di teoria della pirocinesi." diceva Stolas in tono entusiasta mentre ammassava libri su libri sulla scrivania dello studiolo "Forse potremmo partire da questo librino di fondamenti di magia elementale, ha una sezione riguardante gli incantesimi di produzione del fuoco che ricordo fosse trattata in maniera davvero chiarissima..."

A Octavia piaceva davvero tanto leggere se si trattava di storie colme di avventura, mistero e azione; leggere un elenco di nomi riguardanti venti varianti di lingue di fuoco, invece, le dava la sensazione di poter morire di noia da un momento all'altro.

"... la prima fiammella che hai imparato a produrre prende il nome di gutta per via della sua forma peculiare a goccia, è il più diffuso ma anche il più debole degli incantesimi..."

"Papà?"

"...oh, questa è interessante! Pare che si possano produrre degli agglomerati di fuoco globulari che prendono il nome di orbis, non raggiungono dimensioni più grandi un pugno e sono principalmente usate per..."

"Papà!"

Stolas si era voltato a guardarla "Sì, amore?"

Pensa a qualcosa per fuggire. Si era detta Via. Qualcosa di plausibile.

"Devo andare in bagno." Aveva detto infine, e si era defilata alla velocità della luce. Aveva richiuso la porta dietro di sé e aveva tirato un sospiro di sollievo. Non ne posso più, stupida magia, torna a funzionare correttamente! Si era sfregata gli occhi con le dita. Odio la teoria.

In verità, in bagno doveva andarci davvero, solo che forse quel giorno avrebbe preferito sorbirsi l'elenco delle altre diciotto varianti di lingue di fuoco piuttosto che trovarsi di fronte quello che le era sembrato un problema che non aveva per nulla voglia di affrontare. Ma che diavolo...

La testolina di Via aveva fatto capolino dietro la porta della biblioteca, era pallida e sul viso aveva un'espressione di inquietudine.

"Papà... non ti spaventare..."

E ovviamente, Stolas, a quelle parole era entrato immediatamente in allerta.

"Si è incendiato qualcosa?"

"No!" Via aveva aggrottato la fronte. "Vedi che ho ragione, mi fai fare la noiosissima teoria perché hai paura che..." aveva abbassato di nuovo gli occhi "... comunque non si è incendiato niente."

Stolas si era avvicinato a lei. "Allora cosa c'è amore mio?" le aveva chiesto con un tono più morbido.

E Via era stata colta da un moto di pudore, sapeva che sarebbe successo prima o poi, Stella gliene aveva parlato più di una volta, voleva che non venisse presa alla sprovvista, che sapesse tutto, perché lei, quando le era successo non ne sapeva nulla, e si era sentita spaventata e smarrita. Eppure, nonostante sua madre le avesse spiegato tutto, adesso le sembrava solo una cosa improvvisa e imbarazzante.

"C'è...c'è del sangue." Aveva detto in un sussurro.

La testa di Stolas si era fatta ovattata, e aveva sentito i battiti del proprio cuore amplificare di intensità finché aveva finito per percepire solo un tum-tum costante e insistente nelle orecchie.

La mia bambina...

I battiti non accennavano a diminuire di intensità, aveva la sensazione che il tempo si stesse dilatando incontrollabilmente, mentre sentiva rimbombare quel tum-tum sotto lo sterno e lo assaliva una consapevolezza per cui non si sentiva pronto.

La mia bambina non è più una bambina.

"Via tesoro mio..." Stolas non trovava le parole, aveva avuto l'impressione di aver balbettato leggermente, e gli venivano in mente, al posto di qualsiasi parola di chiarimento o rassicurazione, solo ridicoli sproloqui scientifici che avrebbero solo amplificato quella sensazione di confusione.

Octavia aveva scrutato dentro gli occhi di suo padre indovinandone lo smarrimento.

"La mamma mi ha detto che poteva succedere." Aveva detto allora, quasi come fosse lei voler rassicurare lui. "Solo che... mi sento strana lo stesso."

"Vuoi andare dalla mamma?"

Via annuì senza dire altro, con le guance rosate per un sottile imbarazzo. Stolas decise che due ali del palazzo, e quattro rampe di scale, fossero un percorso troppo lungo da percorrere; perciò, aprì un portale direttamente nelle stanze di Stella, dove l'aveva lasciata quella mattina a leggere, o scrivere qualsiasi cosa stesse scrivendo su uno dei suoi soliti quadernini rosa.

Un bagliore violetto invase le stanze di lei, facendola sussultare. La prima cosa che fece Stella, fu chiudere di scatto il quaderno, Stolas si era accorto che lo faceva sempre, ma non le aveva mai chiesto cosa scrivesse di tanto segreto. Dapprima perché erano solo due sconosciuti che condividevano la casa, poi perché anche lui aveva dei momenti solo suoi e gli sembrava ipocrita pretendere che lei non ne avesse, infine perché erano riusciti ad avvicinarsi e aveva paura che chiedendoglielo potesse allontanarla di nuovo.

La seconda cosa che fece fu urlare: "Maledizione Stolas! Devi usare la dannatissima porta!"

E la terza fu notare la presenza di Via, mano nella mano con Stolas, che gli si aggrappava timidamente al braccio con l'altra, mentre le rivolgeva uno sguardo indecifrabile.

"Che succede?" domandò allora, nella voce una punta di preoccupazione.

"Stella... allora... lo so che non ti piace quando entro all'improvviso così, ma è successa una cosa durante la lezione di magia e ho preferito non perdere tempo." Stolas tentò di mantenere un atteggiamento serio e tranquillo, col risultato di sembrare ancora più goffo, e generare in Stella ulteriore preoccupazione.

"Cos'è andato a fuoco?"

"Niente!" fece Stolas senza riuscire a trattenere una risatina, poi si era rivolto verso Via e aveva detto: "E pensare che l'ho detto anch'io poco fa!"

"Papà!" intervenne Via colpendogli il braccio, per riportare il focus sul problema.

"Sì, sì, giusto. No, non è andato a fuoco niente. È... successa una cosa a Via."

"Ti sei fatta male?" Stella accorse verso di lei scrutandone il viso e le braccia in cerca di segni di ustioni o lesioni di qualche tipo.

"Stella, la bambina è cresciuta."

"Questo lo vedo Stols. Ci sono anch'io in casa."

"Intendo che è... cresciuta davvero. Intendo che è successo qualcosa che succede quando si cresce."

Octavia scosse il capo e fece un ampio respiro. "Mamma..." intervenne "... ho le mestruazioni."

Stella non ebbe nemmeno il tempo di processare l'informazione, che Stolas spalancò gli occhi e domandò a Octavia:

"Perché se sapevi la parola non me lo hai detto?" il tum-tum sotto lo sterno riprese a farsi sentire inesorabile.

"Ti ho detto che mamma me ne aveva parlato!"

"Ma non pensavo te ne avesse parlato parlato."

No. Decisamente Stolas non era in grado di gestire quella situazione.

"Papà, tranquillo." Disse Via con un'espressione tra l'imbarazzato e il divertito. "Puoi... puoi lasciarmi con mamma?"

Stolas fece un cenno di assenso con il capo. "Sì, tesoro mio." La baciò sulla fronte e uscì dalla porta lasciandola aperta. Stella andò a richiuderla brontolando.

Poi, come se finalmente l'informazione le fosse arrivata al cervello, corse verso Via e l'abbracciò stretta stretta.

"Sei una donna, amore mio."

Stella percepì nell'abbraccio i battiti regolari e veloci del cuore di Via, le prese il viso e le accarezzò le guance e domandò:

"Tutto bene? Non ti sei spaventata, vero?"

Forse era una domanda sciocca, ma lei da ragazzina lo aveva vissuto con un misto di confusione e paura. Via fece cenno di no, poi aggiunse.

"È che... forse sapere che una cosa succederà non è la stessa cosa di vederla succedere."

"Lo so." Disse Stella, e le fece una carezza "Ma è una cosa naturale, fa parte della crescita."

"Non sono sicura di voler crescere." mormorò Via. "Non voglio che le cose cambino."

"Cosa dovrebbe cambiare?"

"Non lo so, sembra che sia una cosa così importante, ma io mi sento uguale a prima. Papà sembrava spaventato, e tu sembri quasi commossa..."

"Tesoro mio, è una cosa importante, perché è segno che stai crescendo, ma è anche uguale a prima, non si cresce di certo in un giorno. E poi... non devi aver paura di crescere, perché anche se non posso dirti che non cambierà nulla, posso dirti che alcune cose, quelle importanti, non cambieranno. Tu sarai sempre nostra figlia: da bambina, da ragazza, da donna. E ti ameremo incondizionatamente. E potrai contare su di noi sempre, anche quando sarai grande."

Via sembrò capire, e sembrò anche acquistare un po' di tranquillità, guardava Stella con un'espressione concentrata e attenta, e sul viso le era comparso un accenno si sorriso.

"Va bene." Disse allora, e poi con un rinnovato imbarazzo aggiunse "Ma ora puoi... darmi qualcosa? Ho messo solo carta."

"Oh Satana, certo! Scusami tesoro!"

***

Quella notte Stella non riuscì a prendere sonno. Sul momento, l'arrivo delle mestruazioni di Via, le aveva suscitato solo un moto di commozione, per la consapevolezza che stesse crescendo, per quel vederla fiorire di cui sempre parlava a Stolas. Ma adesso, nel silenzio e nel buio della camera da letto, riusciva solo a ripensare a quando era successo a lei. A suo fratello di appena sedici anni che le diceva con una voce seria, attraversata da una punta di imbarazzo, che ora erano certi che sarebbe stata in grado di generare un erede. A suo fratello che quattro mesi dopo il suo sviluppo, la informava che il sovrano e loro padre avevano definito i termini della promessa di matrimonio: a diciott'anni sarebbe stata di certo una buona moglie per il principe Stolas, un ragazzino goffo che le avevano mostrato solo in foto, e che aveva potuto conoscere solo due anni dopo.

"Stols?"

"Mh?"

Non tormentarlo. Per ora è solo una paura nella tua testa.

"Nulla..." si rannicchiò su sé stessa in un angolo del letto. "Buonanotte."

Notes:

E così Via è cresciuta, nel senso che le è successo qualcosa che succede quando si cresce! Non è vero, Stolas? xD
Bisogna riconoscere a Stella che è stata discretamente brava nel prepararla, almeno Via ha saputo arginare, nei limiti del possibile, il panico del padre!
Non me ne vogliate uomini, non dico che non sappiate gestirlo, dico solo che Stolas non era evidentemente pronto!

La sentite questa brezza leggera? Li vedete i nuvoloni neri all'orizzonte? Bene! L'inverno sta arrivando!

No. Mi sa che ho sbagliato storia. Insomma... preparate comunque impermeabili e ombrelli, il sereno è durato fin troppo, fuori tira aria di tempesta.

- Armilla Lunastorta

Chapter 36: Parole scritte, parole non dette

Summary:

Stolas viene allontanato con un pretesto, a Stella giunge una lettera in cui viene convocata a cospetto del re.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Parole scritte, parole non dette
 

"No. Non esiste."

Stella camminava avanti e indietro tenendo in mano una busta aperta, che portava rotto il timbro in ceralacca scarlatta dell'Accademia, e presentava in bella mostra, sul retro, il sigillo di Paimon.

"Andiamo, Stella, stai facendo un putiferio per una settimana..."

"Non c'è motivo che tu stia di stanza in un cazzo di posto sperduto della terra giorno e notte. Usa i dannati portali e torna a casa."

"Si tratta di un fenomeno astronomico che si verifica una volta ogni due secoli, mio padre mi ha mi ha chiamato ufficialmente a gestire la registrazione del fenomeno, ritiene che possa essere cruciale per interpretare correttamente una profezia antica che fa riferimento all'allineamento di..."

"Non mi interessa. Non mi fido."

"Perché mai?"

"Perché in dodici anni non sei mai, mai mancato un giorno. E ora devi stare via una settimana, nonostante tu possa teletrasportarti dappertutto con uno schiocco di dita."

"Usare i portali troppo spesso per il mondo di sopra è poco prudente."

"Fammi capire, ne abbiamo potuto aprire uno letteralmente per scopare ubriachi su una collina, ma aprirne uno per andare e tornare dalla tua famiglia è poco prudente?"

Il viso di Stella era arrossato, la fronte contratta, la bocca piegata in una linea di disappunto.

"Se la metti così fai sembrare orribile uno dei migliori momenti che..."

"Oh, Satana, era un esempio! Non è quello il punto, Stolas. Il punto è che non voglio che tu parta."

"Stella, ti prego, sii ragionevole. Una settimana passa in fretta. Ci sarà tuo fratello in casa, i domestici. Se il problema è gestire Via..."

"Via è grande, non serve un intero entourage per gestirla. Se si trattasse solo dell'Accademia non mi porrei il problema, ma il sigillo di tuo padre su questa busta non... non mi fa stare tranquilla."

Stella aveva nell'animo una sensazione di timore incontenibile, in tutti quegli anni Stolas, anche nei momenti in cui si accavallavano la gestione dell'Assemblea e gli studi all'Accademia era sempre tornato a casa, di giorno o di notte che fosse. Non aveva sposato un uomo di guerra, uno che avrebbe dovuto stare stanziato con le sue legioni ai confini del cerchio di Pride o sulle frontiere della guerra con il Paradiso. Aveva sposato un uomo di scienza, che aveva tutto quello che poteva servirgli a portata di qualche stanza. E poi c'era il sigillo di Paimon: non riusciva nemmeno a passarci sopra le dita che sentiva un brivido percorrerle la schiena e il petto stringersi in una morsa.

"Lo sai che non posso rifiutarmi." disse Stolas rompendo il flusso dei suoi pensieri. "È mio padre, ma è anche il re."

È proprio di questo che ho paura. Pensò Stella, ma non lo disse. Ricacciò indietro le lacrime che minacciavano di velarle gli occhi e disse con un tono piccato:

"Giusto. Non si disubbidisce a papà, figurati al re!"

D'altronde, non c'era modo di vincere in quella discussione. Se il sovrano chiama, un sottoposto risponde, che si tratti di un principe o di un uomo del popolo. E Stolas aveva risposto. Quella stessa sera Via salutò suo padre stringendolo forte e facendogli promettere che le avrebbe portato dalla terra qualche fiore o foglia da mettere ad essiccare nell'erbario. Stella lo salutò con gli occhi ancora velati di un risentimento leggero. Dapprima gli concesse solo un bacio sulla guancia, ma se ne pentì subito; e così, prima che potesse attraversare il portale iridescente, gliene posò uno più deciso sulla bocca, solo per vedere irradiarsi sulle guance di lui un leggero rossore. Non riusciva a capire come mai quell'imbarazzo sottile restasse, nonostante gli anni, nonostante il loro avvicinamento, ma non era quello il momento di pensarci. Gli prese la mano e la strinse, era una stretta incerta che non sarebbe valsa a trattenerlo.

"Se finisci prima..."

"...torno prima." La rassicurò lui, poi sciolse la mano da quella di lei e attraversò il portale.

Quando si ritrovò solo sotto cielo notturno, anche il suo cuore fu invaso da una inspiegabile inquietudine.

***

I primi giorni senza Stolas erano stati strani. Stella non avrebbe saputo definirli diversamente. C'erano stati, in passato, tanti giorni che aveva trascorso in solitudine, e tante notti in cui non avevano condiviso il letto, ma era come se dietro quei silenzi e quelle distanze lei riuscisse comunque a percepire la presenza di Stolas nella casa. La consapevolezza che sarebbe tornato dall'Accademia, che fosse a notte fonda o al mattino; o che quando non dormivano insieme fosse comunque nelle sue stanze a leggere, o nella torre dell'osservatorio, le aveva dato la rassicurante sicurezza di non essere sola.

Certo, c'era Via, ma forse l'età, forse la situazione, la rendevano schiva e timida, tutta volta all'interno piuttosto che all'esterno. Si presentava a colazione, parlava di una storia che aveva letto prima di dormire, o di un sogno che aveva fatto. Si lamentava di non aver ancora ripreso del tutto il controllo della magia, mangiava troppo o troppo poco a seconda dell'umore o della fretta che aveva di tornarsene in camera sua a terminare un racconto, o nella sala musica ad ostinarsi a perfezionare qualche brano. Adesso c'era anche la novità dell'erbario, e Stella si stupiva di quanto Via avesse preso così tanto dal padre. Eppure, la inorgogliva la percezione che, al contrario di quella di Stolas, la fantasia e la curiosità di Via fosse tutta volta all'esterno. La conoscenza le serviva per interpretare il mondo, non per chiudersi ancora di più tra le pagine dei libri. I racconti le servivano non solo per sognare, ma per imparare a vivere. L'erbario era qualcosa di più vivo e diverso dei libri di botanica. Conoscere portava Via a vivere pienamente la realtà, non a nascondersi da essa. E questo approccio, forse, lo aveva preso da lei.

E poi c'era Andrealphus. Stella trovava straniante che la presenza di suo fratello non fosse più mitigata da quella di Stolas. Non restavano da soli da tempo, e i ricordi felici della loro infanzia, quando erano solo fratelli legati dall'affetto, si mescolavano inevitabilmente a quelli della loro adolescenza e prima giovinezza, quando lui aveva assunto nei suoi confronti un comportamento controllante e manipolatorio, che era rimasto tale fino a pochi anni prima. Lei sapeva che era una dinamica abbandonata da tempo, eppure una leggera soggezione si insinuava tra di loro come un'ombra. Andrealphus non si era mai più rivolto a lei con tono di comando, non le aveva più toccato la nuca o la spalla per placarla, non aveva più pronunciato parole dolci come il miele al solo scopo di manipolarla, non le aveva più dato della stupida e non l'aveva più trattata da bambina. Eppure, lei, ad ogni discussione che avevano, ad ogni errore che pensava di aver commesso, ogni volta che sentiva di dovergli dimostrare qualcosa, stava sempre in attesa di una ricaduta nello schema e si stupiva se non capitava, e si tormentava nella convinzione che fosse solo una questione di tempo.

Forse era per questo che, da quando suo fratello aveva preso a guidarla nell'uso della magia, era sempre in allerta, e l'ostinazione si alternava troppo spesso ad una insicurezza paralizzante.
Stella sapeva bene che si trattava di un pensiero irrazionale, Andrealphus si era rivelato un ottimo maestro, sempre chiaro, attento e fin troppo paziente. E l'aveva presa in giro solo qualche volta, e solo bonariamente, in un modo molto diverso dal tono di scherno che gli aveva sentito usare nei suoi confronti quando erano ragazzi.

E poi, nell'affermare che non avrebbe sprecato anni, suo fratello era stato sincero. Certo, era stato sincero anche sul fatto che i suoi miglioramenti sarebbero stati lenti e poco eclatanti, ma quello che a Stella importava era che ci fossero. Ormai da tempo riusciva a replicare volontariamente lo stesso incantesimo che si era manifestato in casa di suo padre.

Le prime volte era stato tutto un succedersi di fallimenti, e aveva avuto la sensazione di star solo "giocando a immaginare", ed era stato frustrante e svilente, proprio come gli aveva detto lui. Ma Andrealphus aveva continuato a spronarla, l'aveva invitata a focalizzarsi sulla sensazione che aveva provato la prima volta che i suoi poteri si erano manifestati, in modo da ricreare lo stesso flusso di energia emotiva: dal cuore alla mano.

E poi un giorno, semplicemente, ci era riuscita. Solo che non aveva generato una fiamma, come si erano aspettati, aveva generato solo calore. Come se il palmo della sua mano fosse ferro rovente in grado di ustionare qualsiasi cosa toccasse.

Da quel momento suo fratello l'aveva ritenuta pronta per provare a fare un passo in più. Se non a generare l'elemento, almeno a controllarlo.

Andrealphus quel giorno le stava parlando, ma la voce di lui le arrivava ovattata, immersa com'era nella preoccupazione per l'assenza di Stolas, e nello stato, irrazionale, di allerta, che le generava restare a lungo da sola con lui.

"...e dovresti guidarla per accendere l'altra."

"Eh? Cosa?" Stella lo aveva guardato confusa, e poi aveva detto in tono mesto "Scusami, mi ero distratta."

"Ho detto che ti ho messo davanti due candele, sono una accanto all'altra e abbastanza vicine, così che non sarà necessario che tu mantenga a lungo l'incantesimo. Ti chiedo di focalizzarti sulla fiamma di quella accesa, dovresti sentire una sorta di... connessione con l'elemento, quando la sentirai te ne renderai conto, è qualcosa di viscerale. Una volta connessa alla fiamma dovresti provare a manipolarne la forma, ed estenderla fino allo stoppino della candela spenta, per accenderla. È un esercizio di immaginazione, ma ti sorprenderebbe come immaginare qualcosa possa farla davvero accadere quando tu e l'elemento siete una cosa sola. So che è una qualcosa di diverso da quello che abbiamo fatto fino ad ora, ma ormai hai consolidato delle basi e vorrei alzare un po' l'asticella..."

"Non credo di volerci provare." Aveva detto lei, intimidita dalla fiammella accesa che aveva di fronte.

"Di cosa hai paura?"

"Non lo so. Di... fallire. Non sono riuscita a generare fiamme fino ad ora."

"Controllare l'elemento è più semplice che generarlo da zero." Aveva detto lui, provando a rassicurarla.

"Per me non è semplice, Andrealphus!" lo aveva quasi urlato, in preda ad una frustrazione dettata più dalla paura di una reazione negativa, che dal fallimento in sé.

Suo fratello le aveva rivolto uno sguardo che lei non si aspettava, uno sguardo paziente e rassicurante.

"Se non ci riesci non hai perso niente. Vorrà dire che riproveremo."

Se non ci riesco mi darà della stupida. Stella aveva chiuso e riaperto le dita in un pugno, ritmicamente. Non è vero, non è vero. Lui non è più così. Aveva preso un profondo respiro. Fantastico, parlo da sola.

"Possiamo fare una pausa?"

"È la terza volta che mi chiedi di fermarci oggi, che ti prende?"

"Non sono... tranquilla, Andre. Se non sono tranquilla non ci riuscirò mai."

Ma nel modulare la voce suonò più come una lamentela, che come una necessità. Lui le aveva posato una mano sulla spalla, e lei aveva avuto un sussulto. Ecco. Ora mi farà uno dei suoi soliti discorsi sul mio essere una ragazzina capricciosa, e non potrò che dargli ragione.

"Va bene. Ci fermiamo." Aveva detto invece Andrealphus, sembrava davvero che non volesse nient'altro che la sua tranquillità, aveva gli occhi velati di preoccupazione. Stella gli aveva scostato la mano con delicatezza e una punta di disagio.

"Lo sai che non devi farlo."

Suo fratello era stato colto da un moto di imbarazzo e aveva ritratto la mano. Era un automatismo. Ce la metteva tutta per non farlo, e non lo faceva più per controllarla, ma era il modo in cui avevano interagito fin da ragazzini e riprogrammare quel tipo di interazione gli veniva... innaturale.

"Scusami, lo sai che non lo faccio per..."

"Lo so."

Razionalmente lo sapeva, ma il pensiero irrazionale faceva capolino nei momenti peggiori, accompagnato da una sottile sensazione di sfiducia e assoggettamento. Stella si era chiesta spesso, in quei giorni cadenzati dalle lezioni di magia e dall'assenza di Stolas nella casa, come mai avesse ripreso a sentirsi in soggezione in presenza di Andrealphus, scrutata ed esaminata, pronta ad essere giudicata e ripresa. E l'unica risposta che aveva trovato era che, in realtà, quel timore reverenziale nei confronti di suo fratello non era mai svanito, semplicemente non erano più stati abbastanza tempo da soli perché potesse rendersene conto.

Lui non le aveva mai fatto davvero del male. A meno che non fosse necessario per placare papà. Eccolo, il pensiero che si insinuava bruciante nella sua mente. E lei, prontamente, lo metteva a tacere. Aveva capito da tempo che, quando lei era ancora piccola, anche Andrealphus era solo un ragazzino, e non aveva avuto gli strumenti per gestire una situazione più grande di lui. Se in passato lo aveva accusato di essere il lacchè di loro padre, o di essere lì con lei per farle la guardia, col tempo aveva compreso, se pur non del tutto accettato, che quella di suo fratello era stata una strategia rischiosa, ma efficace, per tenerla lontana da mali peggiori. Forse avrebbe dovuto metterlo al corrente anche di questo tipo di pensieri, ma non lo aveva fatto, si era invece limitata a dire:

"Non importa, non sono arrabbiata. Facciamo portare del tè? Vogliamo chiamare Via?"

E così la presenza di Via era tornata mitigare le loro interazioni, e Stella era tornata a vedere solo suo fratello, senza il ruolo del sorvegliante che anni di abitudine gli avevano cucito addosso. E tra una tazza di tè e qualche biscotto, tra le risate squillanti di Via e la sua parlantina spedita, aveva potuto godersi in pace anche la compagnia di suo fratello.

***

Era successo al tramonto, al quarto giorno dalla partenza di Stolas, poco prima dell'ora di cena. Si era presentato alla porta un uomo, alto e imponente, con l'uniforme delle guardie del re. Portava con sé una lettera che recava sopra l'inconfondibile sigillo di Paimon, e lo affiancavano due donne di mezza età in abito scuro, che non avevano proferito parola né si erano presentate.

Lo aveva accolto Andrealphus, ma l'uomo si era rifiutato di consegnargli la lettera, e aveva domandato, con una voce greve:

"Dov'è la principessa?"

Andrealphus aveva aggrottato la fronte, e aveva scrutato negli occhi della guardia, e in quelli delle donne alle sue spalle, e dentro non aveva trovato risposte alla preoccupazione che gli muoveva la loro presenza.

"Sono il fratello della principessa, e di certo saprete che sono autorizzato a ricevere."

"Il sovrano vuole che la lettera venga consegnata alla principessa, in assenza del principe Stolas."

Andrealphus era andato a chiamare Stella personalmente, e non si era premurato neppure di farli accomodare in salone, li aveva lasciati all'ingresso, con un paio di domestici, e aveva detto loro di aspettare. Aveva trovato Stella intenta a leggere nella penombra del suo salotto da tè, e quando lei lo aveva guardato, gli aveva letto negli occhi smarrimento e confusione. Si era allora alzata di scatto.

"È successo qualcosa a Stolas?" aveva domandato, come se l'inquietudine che aveva provato per la sua partenza potesse trovare spiegazione soltanto così.

"No. Cioè, non credo. Ma c'è un messo di Paimon. Porta una lettera. Per te."

Stella aveva sceso le scale più lentamente possibile, se suo fratello era confuso e inquieto, lei si sentiva atterrita. Perché mai tanta urgenza e tanta riservatezza? Perché non poter attendere l'indomani?

"Principessa..." l'uomo in divisa le aveva fatto un cenno di reverenza, e così le donne in abito scuro. Le consegnò la lettera senza proferire parola.

"Cos'è?" aveva domandato Stella.

"Non mi è dato saperlo, sono solo un messaggero." Si era sentita rispondere da quella stessa voce greve.

Allora aveva rotto il sigillo e aveva tirato fuori un biglietto, Andrealphus riconobbe il tipo di carta lussuosa e lo stesso color crema del biglietto con cui era stato invitato in assemblea molti anni prima. L'avrebbe riconosciuta dappertutto, solo Paimon la usava, grammatura, colore, filigrana. Persino l'inchiostro nerissimo in cui era scritto il biglietto gli era inconfondibile.

«Principessa Stella,

Siete convocata al cospetto del re nella giornata di domani, alla stessa ora a cui vi giunge questo invito. È richiesta, e inderogabile, la presenza di vostro fratello. Consapevole dell'assenza del Principe Stolas, il sovrano vi invita a portare con voi la principessa Octavia, le balie di corte, che conoscerete in occasione della consegna di questa missiva, si prenderanno cura di lei.»

Notes:

Inizia un arco che mi ha fatto perdere il sonno e la ragione (e mi ha fatto combattere in sogno alcuni dei miei cari personaggi, evidentemente non molto contenti delle mie scelte di trama.)

Paimon ci avrà preso gusto a mandare lettere a tutta la famiglia. Magari gli era solo arrivato un nuovo slot di carta pregiata e non vedeva l'ora di usarla... ma temo che le motivazioni non siano così semplici.

Non ci resta che vederci nel prossimo capitolo, al cospetto del re.

Armilla Lunastorta

Chapter 37: Sulla scacchiera

Summary:

Stella al cospetto del re, la situazione precipita

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Sulla scacchiera
 

Il mattino dopo Octavia era stata svegliata da Stella come sempre, un bacio sulla fronte, una carezza leggera e uno "Svegliati, amore." sussurrato appena, accompagnato dalla luce che irrorava la stanza per le tende scostate.

Ma quando aveva aperto gli occhi, Via aveva visto il viso di sua madre velato di un leggero pallore, gli occhi cerchiati di nero come se avesse riposato male, o come se non avesse dormito affatto. Aveva sentito una piccola morsa alla bocca dello stomaco quando Stella si era seduta sul letto e le aveva detto, con un tono pacato e sicuro, che sembrava non lasciare trasparire alcuna preoccupazione:

"Stasera siamo convocati al cospetto del re, ceneremo presto e poi partiremo, va bene?"

"Il re? Cioè il nonno?"

"Sì tesoro, il nonno."

"Che cosa vuole?" aveva domandato allora, scorgendo negli occhi di sua madre un'espressione che tradiva tutte le emozioni turbinose che la voce calma e serena era riuscita a celare.

"Non lo so, è arrivato un biglietto ieri sera, e dobbiamo andare."

"Senza papà?"

Octavia aveva avuto il coraggio di esprimere il pensiero che Stella aveva cercato invano di soffocare tutta la notte, rigirandosi nel letto fino alle tre della mattina, per poi presentarsi in camera di suo fratello; lo aveva trovato sveglio a sua volta che passeggiava avanti e indietro nella camera da letto rigirandosi il biglietto tra le mani, come se da un momento all'altro dovessero comparire magicamente altre righe di testo. Avevano parlato a lungo, ma non erano venuti a capo dei motivi della convocazione. Non avevano osato parlare dell'assenza di Stolas, ma sapevano che Paimon lo aveva fatto apposta. Poi, alle prime luci dell'alba, lei aveva finito per addormentarsi sul divano di Andrealphus senza accorgersene, e si era svegliata sola qualche ora dopo, coperta da una copertina di lana color ottanio. Sul tavolino tondo stava un biglietto:

«Sarò in assemblea fino al pomeriggio, non aspettatemi per pranzare.
Andremo insieme dal re Paimon al mio ritorno.
Per favore, informa Via, avresti dovuto farlo già ieri sera.

Torno presto,

Andre. »

Dunque, Octavia aveva avuto l'ardire di far emergere l'unica cosa di cui né lei né Andrealphus avevano avuto il coraggio di parlare.

"Senza papà, tesoro mio." Aveva risposto Stella, la voce si era incrinata in modo appena percettibile.

"E io? Starò con voi?"

"Starai con delle balie, come quando eri più piccola, finché non avremo finito di parlare."

"Non devi andarci per forza." Disse Via.

"Devo. Non si possono rifiutare gli inviti del re."

"È una regola stupida."

Stella sorrise "Già, lo è..." le diede un bacio sulla guancia e poi disse, con la stessa voce di simulata tranquillità che aveva adottato per l'occasione "...ora in piedi! È ora di colazione."

***

Entrare nel palazzo di suo nonno aveva riempito Via di mille emozioni contrastanti, c'era curiosità per un luogo nuovo che non conosceva, e che sembrava tanto diverso da quello in cui era cresciuta, una casa che aveva sui soffitti dipinto il firmamento e i tendaggi e l'arredo avevano colori tenui e luminosi. Il palazzo di Paimon era invece tutto un susseguirsi di saloni dagli alti soffitti affrescati, con dipinti che avevano per soggetto la guerra con il Paradiso, o storie di demoni e uomini, di tentazioni e inganni. Nei tendaggi e nei tessuti prevalevano il bordeaux e il vinaccia e gran parte dei mobili erano d'ebano scuro, e dappertutto c'era un dettaglio, o un intarsio, o una cornice, o un bracciolo color oro, o d'oro per davvero.

Alla curiosità si affiancava però una forte sensazione di smarrimento, e un timore apparentemente irrazionale, se non fosse stato motivato dal fatto che sia sua madre che suo zio sembravano non essere per nulla contenti di trovarsi lì. O forse la sua preoccupazione veniva dal fatto che Stella la teneva per mano troppo forte, e camminava troppo lenta, o che a stento le parlava, anche quando provava ad attirare la sua attenzione. O ancora dal fatto che sua madre aveva cercato la mano di Andrealphus e vi si era aggrappata con la stessa stretta, e con la stessa incertezza infantile, con cui Octavia si stava aggrappando alla sua.

La sala del trono aveva un alto un soffitto a cassettoni riccamente intagliato, che recava al centro, in rilievo, il sigillo di Paimon, e sulle pareti affrescate c'erano scene di battaglie che il sovrano aveva davvero combattuto. Vi era ritratto Paimon alla guida dell'esercito, o in trionfo, vittorioso, alla fine di una guerra avvenuta in tempi così lontani da sembrare una leggenda. In qualcuno dei dipinti si sarebbe potuto scorgere anche un generale dall'armatura integrale, su cui emergeva lo stemma della casata del Marchese. Gli affreschi, dai colori vibranti e dalle pennellate vive, erano intervallati da ampie finestre che di giorno avrebbero reso il salone di certo luminosissimo; quella sera l'ambiente era invece scarsamente illuminato.

Sul fondo della sala stava il trono, e sul trono sedeva Paimon, tutto vestito di scuro, come ogni volta che Stella lo aveva incontrato. Al suo fianco un uomo stava in piedi leggermente curvo su sé stesso, gli occhi incappucciati, l'ampia cicatrice di un'ustione sulla guancia sinistra, stava appoggiato al bastone con la testa di uccello. Stella spalancò gli occhi e stinse la mano di Andrealphus come volesse stritolargliela; anche Octavia lo riconobbe e fece lo stesso con la mano di sua madre.

"Benvenuti." La voce di Paimon riempì la stanza come un tuono "Vi informo che mia nipote non può stare qui, mentre parliamo. Verrà affidata alle cure delle mie balie di corte."

Le due donne in abito scuro che si erano presentate con la guardia la sera prima avanzarono verso Octavia, con la schiena dritta e l'andamento cadenzato da soldato. Via sentì Stella sobbalzare, e indietreggiare istintivamente di due passi. Percepì la presa nella sua mano farsi più stretta e notò che sua madre era rossa in volto con gli occhi lucidi e la mascella tirata. Sentì il petto stringersi in una morsa, e la paura invaderla.

"No!" esclamò allora "Io con loro non ci vado." E si aggrappò al braccio di Stella, quasi a volersi nascondere dietro di lei.

Stella ebbe l'impressione che il respiro le si mozzasse a metà della gola, non sapeva come Paimon avrebbe reagito ai "capricci" di Via, ma non voleva scoprirlo. E soprattutto, qualsiasi posto nel dannatissimo inferno sarebbe stato più sicuro di quella stanza in quel momento.

"Tesoro mio" disse a mezza voce "Non spaventarti. Va tutto bene. Vai con loro... parlerò con tuo nonno e quando avremo finito torneremo a casa, va bene?"

"No. Io resto." Disse ancora Octavia, poi guardò in direzione del Marchese e aggiunse "Ero piccola, ma mi ricordo."

"Amore, per favore. Non succederà niente. Di certo sono solo discorsi da grandi. Va' con loro."

"Non le conosco. Non ci vado."

Paimon scosse il capo e fece un cenno alle balie, un gesto che significava certo qualcosa come: portatela via, anche con la forza; poiché una delle due donne avanzò e afferrò Via per un polso, la presa di Stella si sciolse: almeno l'avrebbero allontanata da lì. Ma Octavia non era dello stesso avviso.

"Lasciami!" urlò. La donna la strattonò con più forza. "Lasciami ho detto!" Tentò di svincolarsi ma non ci riuscì. "Mamma!"

Stella aveva la sensazione che il cuore gli si fosse bloccato a metà della gola. Lontana da qui è più al sicuro. Si ripeteva, mentre ogni lamento di Via le trafiggeva il petto come una lama.

"Ho detto che devi lasciarmi!" Octavia afferrò il polso della balia con la mano libera provando a liberarsi dalla sua presa, ottenendo come risultato quello di mandare in cenere la manica dell'abito. L'aria si riempì di un odore di fumo e pelle bruciata. La donna lanciò un grido acutissimo e si ritrasse lasciando la presa. L'altra non osò avvicinarsi nemmeno.

Il cuore di Stella saltò in battito, Via aveva usato la magia pubblicamente, davanti a Paimon, e quella era una cosa che non sarebbe dovuta succedere. Corse verso sua figlia e le prese le mani tra le sue, colta da un tremore incontrollabile: "Ti prego amore mio, ti prego. Vai con loro." Mormorò con la voce rotta "Fallo per me. Fa' la brava. Non perché te lo chiede il nonno, non perché te lo chiedono loro. Perché te lo chiedo io. Per favore."

Via non aveva mai visto sua madre guardarla così, con gli occhi spalancati e velati di lacrime. Non aveva mai sentito sua madre rivolgerle parole di supplica, e non l'aveva mai vista davvero spaventata. Sentì le lacrime salirle agli occhi, ma capì che restare sarebbe stato peggio che andarsene. Fece cenno di sì con la testa e poi le disse "Lo faccio solo per te."

Octavia lasciò la sala del trono: adesso erano soli con Paimon, e con loro padre.

Stella si ricompose, si passò il dorso della mano sotto gli occhi e fece un respiro così ampio che echeggiò nel salone vuoto. Andrealphus, che non aveva osato parlare fino a quel momento, pensò che toccasse a lui fare la domanda, così che sua sorella potesse avere il tempo di riprendere il controllo.

"Vostra Altezza..." esordì con tono di reverenza "...nel biglietto non erano indicati i motivi di questa convocazione e io mi stavo chiedendo..."

Paimon lo guardò appena, poi rivolse lo sguardo verso Stella e disse piegando le labbra in un'espressione seria e cerimoniosa: "Ritenevo che le future nozze della principessa Octavia fossero un argomento di cui parlare di persona."

Sul viso di Stella si dipinse un'espressione indecifrabile di sgomento e rabbia insieme, adesso stava erta e immobile come una torre, con le braccia rigide lungo i fianchi e le dita strette in un pungo.

"Chiaramente scherzate." disse, e non ottenne alcuna risposta, se non un accenno di sorriso. Il silenzio calò sulla stanza come un'ombra. Lei guardò Andrealphus smarrita, ma trovò negli occhi di lui solo lo stesso smarrimento.

"Stolas lo sa?" domandò allora.

"Perché? Devo chiedere il permesso a mio figlio per questioni che riguardano la mia erede?"

"Non è la vostra erede, è la figlia di Stolas."

"E non è forse anche vostra figlia? Non posso discuterne con voi?"

"Fatemi capire, Vostra Altezza, finora non mi è stato permesso di prendere nessuna decisione senza un uomo a convalidare la mia opinione, ma per parlare del matrimonio di nostra figlia, mio marito, suo padre, può anche non esserci? Posso parlare per me stessa?"

"No." Paimon scosse il capo con l'espressione accondiscendente di chi deve proprio stare a spiegare tutto "Per questo vostro fratello è qui con voi. E per questo ho convocato vostro padre."

Lei fece un sorriso esasperato e spalancò gli occhi di incredulità.

"Mio padre non ha alcun diritto di mettere bocca su questioni che riguardano mia figlia, a stento è stato un padre per me. E mio fratello asseconderà ogni mia decisione. E, dato che non c'è Stolas, decido io per Octavia, e potete scordarvi il matrimonio, anzi, potete proprio scordarvi che possa lontanamente avvenire questa conversazione. Né ora, né mai."

"Non credo che abbiate compreso la situazione, non vi sto chiedendo se ne volete parlarne, ne stiamo già parlando. Anzi dovreste essermi grata per avervi incluso nella conversazione. O avreste preferito che la missiva vi arrivasse con il nome del promesso sposo e la data in cui si sarebbero incontrati per la prima volta?"

"Sire, se mi permettete..." intervenne Andrealphus.

"Nessuno vi ha dato la parola." Lo zittì Paimon, Andrealphus serrò le labbra in una linea sottile e abbassò gli occhi.

"Ma perché avete deciso di parlarne proprio adesso?" intervenne Stella, il viso era bianco come in cencio.

"Perché da qualche mese abbiamo avuto la conferma che la principessa è fertile."

Stella sgranò gli occhi. "E voi come diavolo fate a saperlo?"

"Ormai vi dovrebbe essere chiaro che non c'è cosa che di cui io non venga a conoscenza, di quanto succede nel vostro palazzo."

"Il nostro palazzo?" Stella alzò la voce e guardò Paimon, negli occhi del sovrano c'era solo una calma sicurezza, non turbata da alcuna emozione. "Oh, ma quel palazzo non è mio. Non è neppure di Stolas. Ci è cresciuto dentro, e negli armadi e nei cassetti è custodita la sua vita intera. Ma non è suo, non è nostro. Quel palazzo dove ha vissuto da solo bambino, dove si è fatto uomo, dove è nata nostra figlia. Non è nostro. È vostro. Voi date e voi togliete. E non c'è parete che non senta, specchio che non veda la nostra vita. Decidete cosa possiamo avere, chi possiamo frequentare, cosa è da eliminare e cosa è da tenere. Le emozioni, l'affetto, il capriccio non hanno spazio nel vostro contorto modo di vedere il mondo, esiste solo l'utile e l'inutile. Pensate che non sappia che avete suggerito a mio marito di gettarmi via se non gli avessi dato una figlia? O che avete minacciato mio fratello per lo stesso motivo?"

Amarezza e disprezzo percorrevano l'animo di Stella e non c'era modo di nascondere quei sentimenti dall'espressione del suo viso.

"Noi non siamo niente. Non abbiamo nemmeno la dignità di essere una torre o un alfiere sulla vostra scacchiera. Siamo banalissimi insignificanti pedoni da mandare avanti per essere mangiati, per spianare la strada a qualche malsana strategia. Quindi la domanda è, perché? Perché promettere Via? Stolas non è nemmeno il primo in linea di successione..."

"Il perché lo avete detto voi." La interruppe il re "Siete pedoni sulla mia scacchiera. E io devo assicurarmi una discendenza da una buona linea di sangue, che sia forte e vigorosa, e ad alto potenziale magico; e non il frutto guasto di uno stupido amore che potrebbe provare un giorno una ragazzina."

Stella sentì una fitta al petto insopportabile, vedeva il sovrano sedere in una posa rilassata sul trono, vedeva suo padre in piedi guardarla con disapprovazione, e annuire a qualsiasi follia uscisse dalla bocca di Paimon. Si voltò verso Andrealphus: aveva un viso cereo e il respiro irregolare, si torturava il colletto della camicia come se sentisse l'impulso di strapparsela di dosso per la sensazione di soffocamento.

"Una buona linea di sangue? Il frutto guasto? Ma vi ascoltate quando parlate?"

Andrealphus sussultò, il Marchese aggrottò la fronte e serrò la mascella in una smorfia di collera. Solo Paimon sembrava non essere stato scalfito.

"Non capisco cosa troviate di tanto sconveniente in questa pratica. Voi siete quello che siete anche perché vostro padre ha scelto con cura con chi procreare."

L'affermazione arrivò così inaspettata e stordente che Stella non seppe nemmeno come controbattere, rimase un momento sospesa a guardare il sovrano con gli occhi sgranati e la bocca appena socchiusa. Suo fratello, invece, sentì un grumo di bile bruciargli l'esofago e dovette raccogliere tutto l'autocontrollo che gli restava per non perdere i sensi in quell'istante.

"Non condannerò mia figlia a una vita infelice per una qualche forma di... convenienza."

Il sovrano inclinò leggermente la testa e socchiuse gli occhi in un'espressione pensosa.

"Non vi capisco, principessa. Perché mai pensate che una situazione di questo tipo non possa portare alcun giovamento a vostra figlia? Pensate non possa trovare la felicità? Voi non l'avete forse trovata? Se non in mio figlio, almeno in Octavia? Mi sfugge forse qualcosa?"

Stella sentì dapprima una strana calma invaderla, poi il cuore le si gonfiò nel petto come se potesse sfondargli il torace. Sentì una fiamma di collera divamparle nell'animo, le lacrime le salirono agli occhi ma non pianse, non lo avrebbe mai fatto davanti a quell'uomo. Adesso il viso era chiazzato di rosso e la voce era un grido di esasperazione.

"Giovamento? Felicità? E sentiamo, Sire, come dovrebbe trovarlo? Volete sapere come funziona? Volete sapere cosa vi sfugge? Vi sfugge che la prima notte di nozze tra me e vostro figlio si è consumato uno stupro di stato."

Andrealphus ebbe la sensazione che lo avessero colpito allo stomaco con un pugno. Il Marchese serrò la mascella in una stretta feroce. Il sovrano, invece, ascoltava in silenzio con un'aria di totale distacco. Stella sembrò non curarsi di qualsiasi reazione, o assenza di reazione, in coloro che la circondavano, e continuò a parlare:

"Che scelta potevamo avere? Eravamo due ragazzini, tenuti sotto controllo come prigionieri. Vi siete chiesti se fossi pronta? Se volessi farlo con lui, o con chiunque altro, in quel momento? Vi siete chiesti se lui lo voleva? Se non stava subendo a sua volta? Lo sapete che si è sentito in colpa come un violentatore? Io lo so. Perché mi sono sentita allo stesso modo. Ma col tempo ho capito che non era lui il colpevole, non ero io. È stata la corte reale che ci ha violato entrambi. Siete stato voi. Oh, ma non vi importava: volevate solo l'erede. L'erede non è una dannatissima cosa, è la mia bambina. E io non lascerò che mia figlia viva la stessa cosa, se non peggio. Io sono stata fortunata. Stolas, con me, è stato gentile. E lo so, lo so che è perlopiù un'eccezione. E voi? Vostra Altezza Reale, siete stato gentile con le vostre mogli? Oppure siete anche voi un maledetto colpevole come mio padre?"

"Non osare rivolgerti così al tuo re!" la voce del Marchese tagliò l'aria come un ringhio "Straparli, alzi la voce contro il sovrano, sei forse in preda al delirio? Dovresti vergognarti delle scellerate accuse che ci rivolgi!"

Stella rivolse a suo padre uno sguardo di disprezzo, deglutì un grumo di saliva amara e poi rispose: "Non devo vergognarmi della verità."

"Basta." Paimon si alzò in piedi, lentamente, calmo e composto com'era stato per tutto il tempo. Nella voce solo una punta di severità. "Non mi aspettavo una tale carenza di educazione da parte della vostra progenie, Marchese. Penso che sia arrivato il momento di ricordarle come ci si comporta a corte."

"Se il comportamento a corte è quello che tenete voi mi tengo la cattiva educazione." Disse Stella "Ora me ne vado. Riportatemi mia figlia."

Paimon alzò un sopracciglio. "Voi date ordini a me?" il tono della voce era ora duro e riempiva la stanza "Vi spiego come funzionerà. Ora voi seguirete vostro padre, e lui si occuperà di voi e della vostra rieducazione. Domattina, se avrete fatto il bravo pedone, per citare le vostre pittoresche parole, troverete Octavia qui ad aspettarvi. Adesso andatevene. Vale anche per voi, Andrealphus."

Stella si voltò sgomenta verso suo fratello in cerca di appoggio, di aiuto, di qualsiasi cosa che potesse allontanare da lei la soffocante sensazione di essere sola, abbandonata, sconfitta. Ma nel viso cereo di lui non trovò nulla di ciò che disperatamente cercava. Andrealphus non sembrava nemmeno pienamente presente a sé stesso. Capì che da lui non avrebbe avuto alcun sostegno, e un'insopportabile sensazione di impotenza le attanagliò le viscere, togliendole il fiato.

"Non seguirò nessuno e non andrò da nessuna parte." urlò allora.

Il sovrano aprì un portale che dava direttamente sull'androne della casa del Marchese.

"Lo farete, so che non volete che Octavia rimanga qui più a lungo del necessario."

Stella fu percorsa da un brivido, ebbe l'impulso di scagliarsi contro il sovrano, ma cosa avrebbe potuto fargli? Era debole, gli avrebbe appena bruciacchiato quel maledetto panciotto e sarebbero tornati allo stesso punto, o a un punto peggiore.

"Sappiate solo che non lo faccio perché me lo ordinate voi, non me ne importa niente dei vostri ordini. Lo faccio perché sono sotto ricatto, e per amore di mia figlia."

"Non mi importa perché lo fate, mi importa che lo facciate. Ora sparite dalla mia vista."

I due fratelli attraversarono il portale in silenzio, seguendo loro padre, e prima che il passaggio si richiudesse, Andrealphus si voltò indietro. Vide Paimon mettersi nuovamente a sedere sul trono, sul viso aveva ancora dipinta la stessa espressione stoica e indecifrabile.

Notes:

Vivere una partita di scacchi da giocatori è una cosa, viverla da pedoni sulla scacchiera è un'altra. Stella sapeva fin dall'inizio di non poter davvero scegliere di muoversi, poteva solo essere mossa dall'alto dalle mani di Paimon. Non la biasimo per averci provato, per essersi opposta. D'altronde sono l'autrice, e sono io a darle la voce. Ma credo anche che un po', al di là di me, abbia imparato a parlare per sè stessa.

Da questo momento in poi ricordate di allacciare le cinture, la strada è impervia e questo viaggio subirà qualche scossone.
Vi abbraccio forte,

(E voi abbracciate me, che ne ho bisogno.)

Armilla Lunastorta

Chapter 38

Summary:

Stella e Andrealphus stanno per passare la notte peggiore della loro vita.

Trigger Warning: violenza, sangue.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

«Due cose ha belle il mondo: amore e morte»


Un piccolo gruppo di domestici si raccolse attorno al bagliore del portale, e il Marchese ne uscì seguito dai suoi figli.

"Buonasera, Signore." Il più anziano tra loro fece un gesto di reverenza "Vedo che avete ospiti, possiamo approntare qualcos..."

"Per stasera siete tutti congedati." La voce del Marchese echeggiò nell'androne. "Andate ad informare gli altri di lasciare la casa, non fatevi rivedere prima di domani mattina."

Tra i domestici si levò un brusio di agitazione, il più anziano fece cenno di assenso e poi disse con un lieve tremore nella voce: "Come desiderate, Marchese." Poi si defilò assieme al piccolo gruppo, in una fuga ordinata ma venata di un malcelato timore.

Stella e Andrealphus seguirono loro padre per i corridoi della loro vecchia casa, in silenzio, fino a raggiungere l'ala del palazzo che accoglieva le sue stanze. Entrarono in una camera che non conoscevano, o che non ricordavano, aveva l'aspetto di un salotto: dal lato opposto alla porta d'ingresso erano presenti una poltrona e un divano di velluto verde; un tavolino di noce faceva angolo tra la poltrona e il divano e sopra stavano un set da whisky con quattro bicchieri, una caraffa d'acqua e una brocca di vino affiancata da due calici di cristallo. Il camino, che completava quello che avrebbe dovuto essere un angolo confortevole, era spento, segno che la stanza non veniva usata spesso. La scarsa illuminazione, un'enorme cassettiera di noce scuro e i pesanti tendaggi alle finestre davano al luogo un aspetto opprimente.

Lo sguardo del Marchese si posò su Stella, scrutandola con gli occhi piccoli e serrati in una linea sottile. La sua espressione era dura, la sua voce roca e tagliente. "Ci hai messo in imbarazzo davanti al sovrano." Disse rompendo il silenzio; camminava avanti e indietro facendo ticchettare il bastone sul pavimento. "Non siamo riusciti ad aggiustarti, sei una bambola rotta e inutile. Non capisco che cosa ho sbagliato con te."

Stella non parlava. Era livida in volto e gonfia di angoscia. Sua figlia. Volevano sua figlia. E lei avrebbe dovuto stare zitta? Poteva esserci Lucifero in persona su quel trono del cazzo, gli avrebbe detto le stesse cose. Andrealphus adesso aveva gli occhi fissi sul pavimento, un sapore amaro gli invadeva la bocca. Il cuore gonfio nel petto, e la sensazione che stesse per succedere qualcosa di terribile.

"E tu, buono a nulla di un figlio." Disse il Marchese rivolto a lui "Non sei mai stato in grado di controllarla."

Andrealphus lo guardò sgomento, non capendo dove volesse arrivare con quell'accusa.

"Beh..." La bocca del Marchese era un ghigno tagliente "Immagino che un giorno dovrai succedermi. Devi dimostrami che ne sarai capace."

Andrealphus non rispose, prese un ampio respiro cercando di rimettere insieme qualche briciola di autocontrollo.

"Quando qualcuno oltraggia l'autorità, va punito." continuò allora suo padre "Vuoi assumere il mio ruolo? Vuoi fare il marchese?" poi si fermò e guardò ancora verso di loro, le labbra si piegarono in una curva divertita.

"Allora puniscila, marchesino."

Un silenzio irreale sembrò calare sulla stanza. Andrealphus poteva sentire chiaramente i battiti del proprio cuore martellare ad un ritmo fuori controllo, rabbrividì, provò a dominare ogni emozione. Era già successo in passato. Bastava allontanarsi, portarla via, fare passare una mezz'ora e tornare per dirgli - nel modo più convincente possibile - che era tutto risolto, che Stella aveva pianto, che si era pentita, che aveva capito. Assunse un'espressione seria e disse:

"E sia. Stella, andiamo."

"No." la voce del Marchese rimbombò nella stanza "Davanti a me."

Andrealphus sentiva un macigno sul petto. La gola stretta in un nodo insolvibile. Poteva ancora risolvere, poteva ancora proteggerla. Iniziò a parlare con voce alta e severa:

"Stella, sei stata estremamente inopportuna nella sala del trono. Non avresti dovuto..."

"Non ti ho detto di rimproverarla. Ti ho detto di pulirla."

"Ma padre...Ha trent'anni. Non è...non è più una bambina. È sposata." Balbettò.

"Hai detto di averla punita in questi anni. Allora fallo. Ora. Davanti a me. Fino a quando non si sarà realmente pentita." Incalzò loro padre.

Andrealphus si sentiva perduto, non riusciva a respirare, ma non poteva andare nel panico, non era per niente il momento di avere uno dei suoi stupidi cedimenti. Si avvicinò a lei tremante.

"Fai sul serio, Andrealphus?"

Stella era pallida e pietrificata. Suo fratello la fissava con occhi lucidi e smarriti.

"Andre..." Disse lei con la voce che le moriva in gola "Non puoi fare sul serio..."

Tremava. E voleva piangere, ma non piangeva. Andrealphus serrò la mascella e ingoiò un grumo amaro di lacrime trattenute. Le si piantò davanti e le diede un forte schiaffo sulla guancia.

"Chiedi scusa a nostro padre." disse serio. Mi dispiace. Pensò così forte da sperare potesse sentirlo. E sperò che a suo padre bastasse. Perché era già successo, da bambini. A volte uno schiaffo era stato abbastanza. Ma quella volta non gli bastò.

Il Marchese rise forte "No, Andrealphus, che fai? Non rovinarle il viso." lo ammonì in tono di scherno "Suo marito non potrebbe più sfoggiarla."

Andrealphus lo guardò confuso e pervaso da una sottile sensazione di panico: "E cosa mi state chiedendo di fare?" Si ribellò.

"Tua sorella non è più una bambina." Il Marchese rise ancora "Ogni età ha la sua punizione."

Si diresse verso la cassettiera di noce e vi estrasse da dentro qualcosa, poi gettò ai piedi di suo figlio l'oggetto, che atterrò sul marmo con un tonfo e uno schiocco.

"Falle scoprire la schiena." Aggiunse allora il Marchese, e poi si mise a sedere sulla poltrona di velluto verde.

Andrealphus non capì subito che cosa fosse l'oggetto che giaceva per terra, perché non poteva essere, perché non riusciva nemmeno a immaginarlo possibile, perché nemmeno nei suoi incubi peggiori dettati dall'assenzio avrebbe mai potuto trovarsi in una situazione del genere. Ma intanto là, ai suoi piedi, stava una frusta di cuoio.

"Non sono un barbaro." mormorò a denti serrati "Mia sorella non è un animale. Non la colpirò con... con quella cosa." e guardò il Marchese in cerca di clemenza, ma non la trovò, trovò invece un lampo di sfida in quegli occhi incappucciati.

"Lo farai." Il Marchese sguainò la lama sacra dal suo bastone "Oppure preferisci che anche lei, come te, riceva una punizione che le lasci un segno indelebile?"

Andrealphus vide negli occhi di suo padre una luce di follia. Non c'era modo di farlo ragionare. Il Marchese era pronto a farle del male, più di quanto lui stesso avrebbe mai potuto fargliene. Perché era chiaro che volesse vederla davvero soffrireAllora si chinò e raccolse la frusta. A mala pena riusciva a trattenerla nel palmo sudato.

"Scopriti la schiena, per favore." disse rivolto a Stella con voce tremante. Lei si era fatta piccola, agli occhi di lui tornava ad avere l'aspetto di una bambina.

"Non puoi fare sul serio..." la sentiva sussurrare ancora, sgomenta "Andre... hai perso la ragione?"

Stella si sentiva impotente. Perché non riusciva a muoversi? Perché non riusciva a urlare? Perché si sentiva di nuovo soltanto una bambina indifesa? Era una donna ormai, era cresciuta, era cambiata, aveva dato alla luce una figlia. Allora perché non riusciva a reagire?

"Stella, ti prego, scopriti la schiena." ripeté Andrealphus, sentiva le dita intorpidite e pervase da un formicolio e aveva la sensazione che il sangue gli si fosse gelato nelle vene. Gli occhi gli bruciavano, lucidi e rossi, la gola stretta in un nodo di colpa.

"Non ti aiuterò a picchiarmi" fece lei, quando la rabbia riuscì a riemergere scalfendo lo strato della paura. L'animo le bruciava di collera, e la tormentava la sensazione di essere stata tradita dalla stessa persona che le aveva promesso che l'avrebbe sempre tenuta al sicuro"Se vuoi davvero farlo, scopritela da solo. Con le tue mani." e gli diede le spalle. Respirare per lui si faceva sempre più difficile, avvicinò le mani ai nastrini dell'abito rosa e sciolse ad uno ad uno con dita tremanti e impacciate i cinque fiocchi che lo tenevano insieme, e glielo fece ricadere giù dalle spalle, finché il tessuto non si accumulò sui fianchi, e lei rimase nuda dalla vita in su. Stella sentì la carne esposta al freddo della stanza e si sentì ardere di umiliazione, la sua pelle bianchissima era coperta di una patina di sudore freddo. Si coprì i seni con le braccia, imponendosi un atteggiamento impassibile da martire. Ma il suo pallore e i suoi occhi vitrei tradivano la sua paura.

"Perdonami." mormorò lui, e suonò come un sussurro di supplica.

"Fa' questa maledetta cosa malata e lasciami libera." ringhiò lei "Così potrò andare a riprendermi Via."

E allora lui la colpì. Cercò di misurare il gesto in modo che facesse più rumore che male. Il cuoio toccò la carne e la bocca di lei si riempì di saliva.

"Scusati, Stella." Mormorò. Ti prego non peggiorare le cose. Aggiunse mentalmente.

"Sei un traditore." gemette lei.

Una coltellata avrebbe fatto meno male. La colpì ancora. Gli occhi di lei si riempirono di lacrime.

"Sei troppo gentile, Andrealphus, più forte." intervenne il Marchese. E allora lui serrò la mascella, e la colpì più forte, mentre le lacrime gli scorrevano dagli occhi senza che se ne accorgesse.

"Chiedi. Scusa." Ti prego chiedi scusa. Ti prego.

Lei urlò e si sentì morire per il dolore. Ma dentro bruciava. Di rabbia, di disprezzo, di delusione.

"Mi scuso... di non aver mostrato prima a Paimon tutto il mio disprezzo."

Ti prego, ti prego, fallo per Via. Fallo per me. Fammi smettere di farti del male.

La colpì ancora, e l'impatto le tagliò la carne tra le scapole. Un singhiozzo disperato echeggiò nella stanza.

"Mi dispiace...di avere un fratello codardo." disse lei a denti stretti.

Un altro colpo. Vide il sangue rigarle la pelle bianca. Un lamento straziante.

"Ti odio!" gridò ancora lei. "E odio Paimon e nostro padre. Odio tutti voi."

Una fitta sorda al petto. Un altro colpo. Lei cadde in ginocchio con un tonfo. La realtà era annacquata dalle lacrime che le appannavano gli occhi.

"...sei un...debole..." la sua voce ora era flebile e stanca.

Un altro colpo.

"È la mia maledizione..."

Un altro.

"...essere circondata da uomini deboli."

Andrealphus la colpì ancora, e colpì la ferita aperta, e lei sentì che il suo corpo non le rispondeva. Sentì le forze lasciarla. L'umiliazione la faceva soffocare. Il dolore le faceva martellare la testa. Poteva sentire ogni piaga così distintamente che avrebbe potuto descrivere dettagliatamente l'aspetto della sua schiena. Poteva sentire con spaventosa precisione il rivolo di sangue che da sotto la scapola le percorreva la spina dorsale. E poteva sentire un dolore più forte e diverso: il senso di abbandono, il senso di tradimento. La stavano facendo impazzire. Qualcosa in lei si spezzò. Voleva dire qualcosa, voleva urlare, voleva piangere più forte, ma si sentì solo mancare. Sentì un dolore acuto, lancinante, insopportabile, e non seppe dire se fossero le ferite del corpo o quelle dell'anima. Cadde bocconi sul pavimento, la schiena nuda e l'ampia gonna rosa a coprirle i fianchi e le gambe. Un ultimo pensiero le attraversò la mente: ora sembro davvero una bambola rotta e inutile. Poi tutto si fece nero.

Andrealphus si fermò. Sentiva il petto trafitto da una lama. Le lacrime che gli colavano dal mento gli avevano inzuppato la camicia. Era un mostro. Non c'era modo di espiare quella colpa. Non riusciva a fare niente, era pietrificato e sgomento.

"Perché ti sei fermato?" la voce del Marchese arrivò come un tuono.

"È... è svenuta." la voce di Andrealphus era il sussurro di un morto.

"Continua. Ora non lo sente. Ma lo sentirà. Domani."

Andrealphus lo guardò pieno di odio e di incredulità: forse in quella stanza non era ancora lui la creatura più mostruosa dell'inferno.

Poi sentí suo padre ridere e riprendere a parlare.

"Finora sei stato bravino. Non ti credevo abbastanza uomo, ma forse mi sbagliavo."

Vide il Marchese allungare il braccio verso il tavolino e versare del vino in uno dei calici.

"Dovremmo brindare. In fondo te lo meriti, il marchesato."

Ma al posto di porgergli il calice, se lo portò alle labbra e bevve un grosso sorso. Andrealphus fu percorso da una sensazione nuova, terribile e disumana. O forse si trattava solo di un impulso a lungo sopito, che per troppo tempo non aveva voluto o non aveva saputo ascoltare. Nel vedere suo padre godersi il vino, compiaciuto dell'immagine dei suoi figli che si torturavano sotto i suoi ordini, riconobbe la bestia che aveva sempre albergato dentro l'uomo.

Solo il sangue lava il sangue.

Ebbe l'impressione che un coro di voci gli sussurrasse nelle orecchie, con un tono incalzante e carezzevole.

Sangue per il perdono.

E assieme a quei sussurri giunsero immagini turbinose di un altro tempo, spettri di una colpa mai superata.

Sangue per l'espiazione.

Del sangue versato anni prima, della persona che era troppo piccolo per essere in grado di proteggere. Del sangue versato dalle sue stesse mani, della persona che aveva giurato di proteggere sempre.

Sangue per l'assoluzione.

Ma non era il suo che chiedevano. Chiedevano quello della bestia che ora gli sedeva davanti.

E lui non poté che prestar loro ascolto. Per la prima volta tutta la paura svanì, sostituita da una sensazione nuova, che somigliava a una limpida quiete. La frusta gli scivolò dalle dita ricadendo ai suoi piedi. E poi lo fece: congelò il vino nel calice, e nella gola di suo padre.

Il Marchese dapprima percepì solo freddo, e una sensazione di soffocamento, senza capire. Poi vide Andrealphus sorridere calmo, le lacrime avevano smesso di rigargli le guance, i suoi occhi brillavano come diamanti irrorati di luce, i palmi emanavano un bagliore azzurrino.

"Tu..." sibilò. Tossí, si portò le mani alla gola, sbarrò gli occhi incappucciati, impallidì. Gli occhi di Andrealphus brillarono di una scintilla più scura, color zaffiro, e la sensazione di soffocamento si fece più intensa, il Marchese sentiva il ghiaccio espandersi e invadergli l'esofago, era freddo, e bruciava.

Si alzò dalla poltrona e avanzò verso suo figlio, ma inciampò per il panico e per la vecchiaia, tentò di aggrapparsi al tavolino, la caraffa si rovesciò e i bicchieri andarono in frantumi. Ora, a vederlo riverso sul pavimento, ad Andrealphus sembrava solo un patetico vecchio, e si chiese come avesse potuto temerlo per tutta la vita. Suo padre non riusciva a parlare, col vino che era un blocco di ghiaccio congelato nel suo esofago, e non riusciva a respirare.

"Tutti questi anni passati a nascondermi da un mostro, ma sei solo un vecchio senza valore." disse Andrealphus avvicinandosi a suo padre. Lui tentò di alzare una mano, come a voler lanciare un incantesimo, ma suo figlio la calpestò, impedendone il movimento.

"Che cosa vorresti fare? Stordirmi? Accecarmi? Sai bene che una volta preso il controllo dell'elemento non ho bisogno di vederlo per controllarlo." Con il tacco della scarpa ruppe il sigillo magico che portava sull'anulare. "Senza questo anello non hai più niente. Sei un essere inutile." aggiunse piantando più forte il tacco sulla mano di lui.

"È per questo che hai voluto la mamma?" incalzò "Per una discendenza con la magia? Spero che tu non rimpianga di aver ottenuto quello che tanto desideravi."
Il Marchese lanciò un rantolo.

"Tutta la vita ad aspettare da te una qualche forma di approvazione. E non lo fai perché sono un ottimo diplomatico, non per i miei studi di retorica, non perché so usare egregiamente la magia. Lo fai perché sono stato così meschino, così disperato, così spaventato da te da arrivare a frustare mia sorella." e la voce gli tremò di vergogna nel pronunciare l'ultima frase.

Il volto del Marchese era bluastro, gli occhi lucidi e colmi di terrore.

"Lo sai, padre, non importa che io meriti o meno il marchesato, importa che me lo stia prendendo. Ero troppo piccolo per reagire e crescendo sono diventato troppo succube. Finite le guerre, e tolta la divisa militare, sotto non ti restava niente di valore. Tutto ciò che ha ottenuto la famiglia lo hai rubato ad altri: da nostra madre hai rubato la magia, da Stella il favore del Re, e su di me, non appena ho compiuto sedici anni, hai scaricato tutte quelle responsabilità che eri troppo inetto per prenderti. E hai avuto anche il coraggio di sminuirmi. Sei un parassita che è sopravvissuto divorando tutto ciò che lo circondava.

Mi hai portato via mia madre. E l'unico motivo per cui ho sostenuto il matrimonio di Stella, per cui ho lasciato che la relegassi a una vita di obblighi e imposizioni, è stato per portarla il più lontano possibile da te. Stella e la mamma sono state l'unica fiamma d'amore che ho saputo intravedere tra le mura di questo palazzo. Far morire la mamma non ti è bastato, dovevi portarmi via anche Stella. E così per una vita sei stato un'ombra opprimente che provava piacere a tormentarci, a metterci l'uno contro l'altra. Un patetico e meschino verme come te non poteva sopportare che le volessi bene? Che lei me ne volesse? L'affetto che provavamo l'uno per l'altra, e qualsiasi barlume di felicità, ti disgustava a tal punto da sentire l'impulso di trascinarci sul fondo dove vivevi la tua miserabile e arida vita.

Le ho fatto del male quando avrei dovuto proteggerla, perché credevo che facendole del male la stessi proteggendo. Capisci a che punto mi ha portato il terrore per un fantasma? Per l'ombra di quello che eri? Ma ora ti vedo, sei uno scheletro di carne, eppure lei non sarà mai al sicuro se continui a camminare su questa terra. Io non perdonerò mai me stesso per quello che le ho fatto; ma forse, consegnarle la vita di quel mostro di padre che sei stato potrà farmi ottenere il suo perdono."

Il Marchese gli afferrò una caviglia con la mano libera e gemette piano, ma era la stretta debole delle dita di uno scheletro. "Volevi un figlio senza scrupoli? Eccolo. Lo sono diventato." Andrealphus si divincolò. Poi lo spinse a terra, e gli piantò un piede sul petto. La pressione strappò a suo padre un altro rantolo e se ne rallegrò.

Il Marchese lo guardava con occhi vitrei e imploranti. "Potrei finirti così, trafiggerti con una stalattite di ghiaccio, ma temo che non ci sia nessuno cuore alla sinistra del tuo sterno. E poi...farlo sarebbe mostrarti pietà, e tu non la meriti. Per una volta sarai tu a soffrire lentamente, a strisciare per terra, a guardare dal basso verso l'alto, a sperare di ricevere un aiuto che non arriverà, a supplicare di fermarsi qualcuno che per te vuole solo dolore."

Lasciò la presa e si diresse verso la poltrona di velluto. Si sedette. Generò dall'acqua riversa sul tavolino una coppa di ghiaccio e ci si versò dentro del vino.

"Avevi ragione, questo momento merita un brindisi."

Diede un sorso. E sorrise.

"Oh, e... voglio che tu sappia, prima che quel grumo di melma che chiami anima lasci il tuo ignobile corpo, che non lo sto facendo per tutto l'odio che provo per te. Lo sto facendo per tutto l'amore che provo per Stella."

Il Marchese spirò, di quella morte ingloriosa e patetica. Andrealphus sprofondò per un istante nella poltrona, cercando di controllare il respiro, di fronte ai suoi occhi suo padre stava riverso sulla schiena, l'anello in frantumi, il viso bluastro e gli occhi semiaperti, non respirava più. Le voci nella sua testa avevano smesso di sussurrargli seducenti parole di vendetta. Ora c'erano solo lui e il silenzio.

Si alzò con movimenti misurati e si avvicinò a sua sorella, la coprì con la giacca e la prese tra le braccia, il corpo molle di lei bruciava di febbre. Attraversò così il lungo corridoio desolato. Sentiva solo il rumore dei propri passi, e del proprio respiro.

La condusse in braccio nelle sue vecchie stanze e la adagiò sul letto; la pelle di Stella scottava e il suo viso era velato di un pallore spettrale. Frugò nell'armadio e trovò una camicia da notte bianca di quand'era ragazzina e viveva ancora in quella casa. La liberò dell'abito rosa e le mise addosso la camicia da notte. Aveva la sensazione di maneggiare una bambola di pezza, e quel pensiero lo fece rabbrividire. La sentì tremare, per il freddo o la febbre, e la coprì con delicatezza. Poi le fece una carezza sulla fronte. Stella aprì gli occhi a fessura e lo vide.

"Voglio la mamma... Andre..." mormorò, una lacrima le rigò la guancia "...chiama la mamma."
"Oh, Stella, adesso siamo solo noi." Andrealphus sentì il cuore stringersi forte, le avvolse una mano tra le sue. "Sta' tranquilla. Ci sono io." Ma lei aveva già richiuso le palpebre.

Poi crollò sulle ginocchia accanto al letto e così rimase a vegliarla. Prese a parlarle in un sussurro dei pochi e preziosi momenti felici della loro infanzia.

"Ti ricordi" le diceva "quando volevi imparare a tutti i costi a tirare di scherma? Eri buffissima."
Ti prego, perdonami.
"Ti ricordi, quella volta, con la mamma, arrivammo fino al fiume dell'oblio. Il cielo era violetto e tu portavi un vestito con i nontiscordardime."
Ti prego, perdonami.
"Ti ricordi che giocavamo a rincorrerci finché non avevamo più fiato e facevamo impazzire i domestici?"
Ti prego, perdonami.
"Ti ricordi quella notte al tuo settimo compleanno? Restammo svegli a parlare. Io mi immaginavo un potente marchese, e tu una bellissima principessa. Ci immaginavamo al sicuro, ci immaginavamo liberi. Ora lo siamo, sorellina, lo siamo."

E mentre le parlava teneva ancora la mano di lei stretta tra le sue e piangeva in silenzio. Ti prego, perdonami.

Iniziò a nevicare. Nevicò tutta la notte e tutto il giorno successivo, e quello dopo ancora e, in verità, da quel giorno la neve non avrebbe mai smesso di cadere sopra il palazzo del nuovo Marchese.




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Angolo Autore

Ehm... probabilmente dopo questo capitolo dovrò andare a confessarmi, questo vorrà dire che entrerò dopo dieci anni in una chiesa per avere con un prete la seguente conversazione:

"Signor prete, ho costretto un fratello a frustare la sorella sotto direttive del padre e gli ho poi fatto uccidere il suddetto padre..."
"Buon Dio! Ma è terribile!"
"Cioè, ovviamente si parla di personaggi immaginari..."
*Il prete procede a buttarla fuori dalla chiesa*

"Ti prego, perdonami." sono proprio io, evviva! Andrealphus, perdonami. Stella, perdonami. Lettori...perdonatemi. Per la prima parte del capitolo, si intende, perché per la seconda parte...

...lo so, lo so benissimo che volevate vedere schiattare il vecchio di merda!

Una curiosità prima di proseguire... nelle scene riguardanti la madre di Stelle e Andrealphus, avevo inserito alcuni "echi leopardiani" come piccoli Easter Egg. In questo capitolo, che a suo modo "chiude il cerchio", mi sembrava coerente e giusto citare ancora Leopardi, perciò il titolo Due cose ha belle il mondo: amore e morte, è un verso tratto da "Consalvo", uno dei Canti del "Ciclo di Aspasia". 

Ma adesso parliamo di cose serie: ovvero tutte le memate che la mia mente ha partorito per sopravvivere alla stesura di questo capitolo.

In primo luogo, la colonna sonora adatta ad Andrealphus che ha la magica wake up call e decide di freddare il vecchiaccio... All'inizio ho immaginato partisse "Thuderpriest" dei Powerwolf, avrebbe avuto una vena trash che secondo me era proprio da prendere in considerazione! (Eccola: https://www.youtube.com/watch?v=3WzC_1eWoKE)
Ma poi ho trovato la colonna sonora PERFETTA: "Our Solemn Hour" dei Within Temptation, ascoltare per credere! (Qui: https://www.youtube.com/watch?v=sNDPsFrnnnU)

Chiudiamo con un magico meme:

Chiudiamo con un magico memino rubato a -Cthylla- con il suo benestare

 

Notes:

Ad ogni modo...brindiamo alla morte della merdaccia! Cin cin!

Oh e... se pensate che la notte sia finita non è così... il prossimo capitolo riserva ulteriori sorprese, perciò restate sintonizzati!

Grazie sempre di leggermi.

- Armilla Lunastorta

Chapter 39

Summary:

Una lunga notte attende Stella e Andrealphus

Chapter Text

Cicatrici invisibili
 

L'unico suono che fendeva il silenzio della notte era il respiro lieve di Stella; ad una breve veglia febbricitante era seguito un sonno agitato: il viso di lei era contratto in una smorfia di angoscia, gli occhi si muovevano all'impazzata sotto il velo delle palpebre chiuse. Un dolore acutissimo squarciava il petto di Andrealphus, come se gli avessero conficcato un pugnale e se ne stesse ancora lì senza poter essere estratto. Non aveva più lacrime, e comunque sentiva che non gli sarebbero bastate, e le sue membra si erano fatte pesanti, come se tutta l'energia avesse lasciato il suo corpo insieme alle lacrime.

Ma non poteva cedere, non in quel momento, c'erano delle cose che andavano sistemate. La morte di un marchese non sarebbe passata inosservata, a maggior ragione se il suddetto marchese si trovava in casa con il figlio, nonché unico erede maschio, a maggior ragione se il sovrano stesso poteva testimoniare che fosse lì.

Rivolse lo sguardo di nuovo verso Stella, avrebbe potuto giurare di averle visto muovere appena le labbra nel tentativo di pronunciare, flebilmente, il nome di Via.

Via. Dovremmo riprenderla al mattino. E per farlo dovrò dare una spiegazione valida e plausibile a Paimon sul disastro che ho combinato questa notte. Stella... le sue ferite racconteranno la storia di una punizione, di una rieducazione, come voleva il sovrano. Dovrà ridarci Via, abbiamo obbedito. Ma io? Io come faccio a non raccontare la storia di un assassinio? Un incidente? Un malore? No. Paimon non è uno stupido.

"Stella..." le disse in un sussurro, e le scostò dalla fronte una ciocca di capelli, la pelle di lei scottava ancora "Ora mi devo allontanare, devo sistemare una cosa importante. Torno presto da te, tu sta' tranquilla."

Si alzò in piedi, sentiva le gambe rigide e il cuore pesante. Lasciò la camera di Stella e ripercorse a ritroso il cammino verso quella stanza maledetta.

Quando entrò nel salotto, il corpo di suo padre era ancora lì, riverso tra i cocci di vetro, con la frusta abbandonata poco distante. E lì trovò anche Paimon, erto e immobile, nero e impalpabile come uno spettro, col mantello, e i guanti, e un'espressione indecifrabile sul viso.

Andrealphus si sentì gelare il sangue.

Ecco. È finita.

"Sembra che vostro padre abbia avuto un incidente..." Il re piegò appena in su le labbra "...è un vero peccato, era uno degli uomini che mi erano più fedeli."

Che cosa?

Paimon ora sorrideva senza alcun tentativo di nascondere un'espressione di soddisfazione.

"Oh, lo sguardo che avete negli occhi mi strazia l'animo. Lasciate che mi occupi io di far portare via il corpo di vostro padre, se non altro come segno di gratitudine per la devozione con cui mi ha servito in vita. Un figlio non dovrebbe occuparsi di tali incombenze dopo la tragica perdita di un genitore."

Andrealphus scrutò negli occhi del sovrano la volontà dell'inganno, ma non la trovò. Solo il compiacimento emergeva da quegli occhi luminosi e penetranti.

"Io... immagino di dover ringraziarvi, Sire."

Paimon si avvicinò a lui a passi lenti, e lo avvolse in un abbraccio che gli riempì l'animo di terrore.

"Vi porgo le mie più sentite condoglianze, Marchese. Sono certo che anche voi, da oggi in poi, mi sarete altrettanto devoto e fedele."

Il sovrano doveva avergli detto qualcosa riguardo alla scelta della sepoltura al posto della cremazione, doveva aver parlato anche del funerale: suo padre era stato un generale che aveva servito il re in persona, aveva contribuito all'espansione e al consolidamento del regno, doveva c'entrare con il fatto che Paimon aveva accennato a qualcosa riguardante la solennità della cerimonia. Doveva aver detto qualcosa anche riguardo ad un certo discorso che Andrealphus avrebbe dovuto tenere in onore del caro defunto, e qualcosa riguardo a Stella e su come farla vestire, ma aveva smesso di ascoltarlo. Le parole gli arrivavano ovattate e lontane, e in verità anche il volto del sovrano gli appariva sfocato e sfuggente come un miraggio.

Andrealphus non avrebbe saputo dire come si era ritrovato nel bagno della stanza patronale, in ginocchio davanti al water, a rimettere bile e tossire incontrollabilmente alla ricerca spasmodica d'aria, nel tentativo di regolarizzare il respiro. Non avrebbe nemmeno saputo dire quanto tempo fosse passato prima che i conati si fermassero, e che il cuore smettesse di martellargli nelle orecchie e nel petto. Solo allora si era rimesso in piedi e si era sciacquato il viso più volte, doveva riprendere il dominio di sé.

Fu quando alzò gli occhi verso lo specchio e vide il proprio volto riflesso, che un'incontenibile sensazione di odio lo invase. Il volto che vedeva nello specchio era quello di un traditore e di un codardo, e ora era anche il volto di un ostaggio. Mi guardate anche adesso, Vostra Maestà? Appoggiò il palmo sullo specchio e sulla superficie si espanse lento e inesorabile un sottilissimo strato di ghiaccio, e quando Andrealphus decretò che si crepasse, anche lo specchio sotto andò in frantumi.

Dovrei tornare da mia sorella. Ma si accasciò di nuovo sul pavimento, il volto tra le mani, il pugnale invisibile conficcato ancora nel petto. Un minuto. Solo un altro minuto.

***

C'era una presenza nella stanza, o c'era una presenza nell'incubo che stava facendo; o forse il mostro con la cappa e il panciotto damascato, e i guanti e la camicia accollata che abitava i suoi incubi era uscito dal sogno e ora se ne stava in silenzio davanti al suo letto.

Quando Stella aveva aperto gli occhi aveva creduto di essere caduta in quell'inganno della mente che sveglia i sensi senza svegliare il corpo, e aveva sperato intensamente che l'uomo vestito di scuro che incombeva su di lei come un'ombra, fosse davvero solo lo spettro di una paralisi del sonno. Ma quando lo spettro aveva parlato, aveva compreso che le sue speranze erano state disattese.

"Siete sveglia, principessa."

Stella aveva avuto l'impulso di alzarsi, di mettersi in una posizione qualsiasi che la rendesse, almeno apparentemente, meno vulnerabile. Aveva spinto i palmi sul materasso per fare leva, ma il suo corpo le aveva restituito solo un dolore acutissimo e bruciante sulla schiena che le aveva mozzato il respiro e l'aveva fatta ricadere sul letto. Aveva spalancato gli occhi in un'espressione di terrore, e aveva sentito il cuore accelerarle nel petto ad un ritmo insopportabile.

"Agitarvi non vi fa bene, avete la febbre alta." Continuò il sovrano con una voce pacata e paterna.

"Dov'è Via?" domandò Stella in un filo di voce.

"A palazzo. Al sicuro. È mia nipote, ha il mio sangue. Non capisco perché tanta apprensione nel saperla sotto la mia custodia."

Stella era ancora in allerta, ma qualcosa nel modo in cui Paimon aveva pronunciato quelle parole la portò a credere che dicesse il vero, Octavia era al sicuro. Riguardo a sé stessa, non ne era ancora poi così certa.

"Siete venuto ad ammirare l'opera di rieducazione?" lo disse con l'intenzione di suonare sprezzante, ma non ci riuscì, le parole le uscivano dalla bocca come un sibilo appena udibile.

Paimon la ignorò completamente e afferrò un lembo della coperta con l'intenzione di scostarla; lei mosse le braccia d'istinto nel tentativo di impedirglielo, ma realizzò che ogni movimento le costava fatica e dolore. E un senso di avvilente impotenza le avvelenò l'animo quando il sovrano la scoprì.

"Il lavoro di uno che non ha mai frustato neanche un cavallo." Commentò Paimon.

Stella sentì un brivido invaderle le membra, accompagnato da una forte sensazione di nausea.

"È evidente che non siate qui mosso dal buon cuore." Sputò con quella voce fioca "Quindi, che cosa volete?"

"Ritengo che vostra figlia non dovrebbe vedervi in queste condizioni, domani."

L'ombra di un sorriso le comparve per un istante sulle labbra. Domani vedrò la mia bambina. E poi il sorriso si mutò in un'espressione amara. No, no che non voglio che mi veda così.

"E sarebbe meglio" continuò il sovrano "...che mio figlio non venga a sapere cosa è successo tra voi e vostro fratello, questa notte. Se ho capito qualcosa di voi, è che non vorreste mai che a vostro fratello accadesse qualcosa di spiacevole, e Stolas ha già dato prova di poter reagire in modo imprevedibile..."

"Dove volete arrivare?" lo interruppe lei. "Sono stanca, Sire. Basta girarci attorno."

"Vi guarirò, queste ferite devono sparire."

"Mi aggiustate così da potermi rompere di nuovo?"

"Che vi riduceste in questo stato non era previsto." La voce del sovrano si incrinò per un'istante, non era certo un moto di pietà, ma qualcosa che somigliava alla delusione. "Qualcuno ha scoperto troppo tardi di possedere una spina dorsale."

"Che cosa significa?"

La domanda cadde nel vuoto.

"Allora? Volete essere guarita? O volete ancora crogiolarvi in un'inutile sofferenza?"

Avrebbe voluto dirgli di no. Avrebbe voluto urlargli in faccia che sarebbe rimasta a letto per giorni, per settimane se fosse stato necessario. Che si sarebbe tenuta le piaghe prima e le cicatrici poi, piuttosto che accettare la sua insulsa pietà. Avrebbe voluto dirgli di tornarsene a palazzo, di starle lontano. Avrebbe voluto addossargli la colpa, rimarcare ancora tutto il disprezzo che provava per lui. Ma non poteva farlo. Via era poco più che una bambina, come avrebbe potuto spiegarglielo? E come avrebbe potuto spiegarlo a Stolas senza tradire Andrealphus? E come avrebbe potuto spiegarlo a chiunque senza provare vergogna?

"Fate quello che dovete." Rispose allora.

"Inizialmente, potrà farvi male." La avvertì il sovrano.

"Con tutto il rispetto, Sire. Non può essere peggio di quello che ho subito stanotte."

Il sovrano sedette accanto a lei sul letto con un atteggiamento severo da sacerdote, poi si sfilò il guanto della mano destra. Percorse con le dita le ferite sulla schiena di lei, in un tocco delicato, lento e misurato. La sensazione iniziale le ricordò quella di quando Stolas le aveva guarito il taglio sulle labbra, era un calore leggero e piacevole; ma presto il calore si fece bruciante e insopportabile, simile a una cauterizzazione. Sentì le lacrime bagnarle le guance e il cuscino senza che ne avesse il controllo. Poi le parve di rivivere ogni colpo nitidamente, come se stesse riaccadendo di nuovo, a ritroso, dall'ultimo al primo. Le sfuggì un singhiozzo, e se ne vergognò. Infine, un formicolio lieve portò via con sé qualsiasi traccia degli eventi della notte: adesso non c'erano più segni, dolore o ferite, non nel corpo, perlomeno.

"Non piangete, è tutto finito." Il sovrano parlò ancora con quel tono pacato e paterno, poi indossò nuovamente il guanto.

La porta della camera da letto si aprì, una lama di luce tagliò la penombra, ed Andrealphus entrò provando a fare meno rumore possibile, quando rivolse lo sguardo verso il letto notò sua sorella con la schiena scoperta, la pelle candida e intatta. Seduto accanto a lei sul letto stava Paimon. Andrealphus pensò che fosse un incubo da cui non sarebbe riuscito a fuggire. Poi notò che Stella era sveglia e lo stava guardando, e il suo animo si riempì di vergogna, abbassò gli occhi senza riuscire a sostenere il suo sguardo.

"Siete davvero troppo scosso, Marchese, dovreste prendervi del tempo per riposare." Disse il sovrano.

"Siete stato voi?" domandò Andrealphus indicando in direzione di Stella, non aveva bisogno di specificare a cosa si stesse riferendo.

"Qualcuno doveva aggiustare ciò che avevate rotto." Gli rispose Paimon con noncuranza, e poi aggiunse con un tono teatralmente amareggiato "È un vero peccato che vostro padre non abbia avuto quell'incidente prima che qualcun altro si facesse male."

Stella aggrottò la fronte e gli rivolse uno sguardo interrogativo, poi guardò suo fratello in cerca di risposte, ma lui teneva ancora gli occhi bassi non osando rivolgerli verso di lei.

"Ad ogni modo... ho altre incombenze che mi attendono a corte. Domani vi farò riportare Octavia qui. Quella ragazzina è estenuante. Ha ustionato una delle balie e dato alle fiamme una porta nel tentativo di fuggire, mi costerà un'indennità e una riparazione. Non ha fatto che chiedere di voi..." disse poi rivolto a Stella "... e ha minacciato di friggermi la faccia come avete fatto voi con l'altro nonno." Paimon accompagnò il racconto con una risata. "Riposate, principessa. E anche voi, Marchese. Domani sarà una lunga giornata."

Il sovrano uscì dalla stanza e dopo pochi passi parve svanire, com'era comparso.

Ora era tornato il silenzio nella camera da letto, Andrealphus rifuggiva ancora gli occhi di lei, non si aspettava di trovarla sveglia. E guarita. Non era pronto ad affrontarla, non sapeva nemmeno se lo sarebbe mai stato.

"Quale incidente?" Stella parlò per prima.

Suo fratello esitò, guardava il pavimento e stava in piedi lontano dal letto, come se avesse paura di avvicinarsi troppo.

"Di quale incidente parlava, Andrealphus?" lo incalzò lei.

Lui sobbalzò a sentirle pronunciare il suo nome e rimase ancora zitto, gonfio di vergona.

"Se non mi vuoi rispondere, almeno guardami in faccia." Stella ora si era messa a sedere sul letto, la carne era guarita ma una stanchezza opprimente sembrava essersi radicata in lei fin dentro alle ossa, la febbre non era ancora scesa.

Dove dovrei trovare il coraggio di guardarti in faccia.

"Nostro padre è morto." Andrealphus pronunciò quelle parole senza guardarla, con un tono cerimonioso.

Lei socchiuse gli occhi in una linea sottile, e sul momento non riuscì a processare l'informazione, rimase in silenzio come se si aspettasse che dicesse qualcos'altro, o che confermasse quello che aveva appena detto.

"Nostro padre è morto." Ripeté suo fratello.

Lei ebbe la sensazione che un nodo le si sciogliesse nel petto, ma era un sollievo tiepido, misto ad incredulità.

"Che significa?"

"Significa che solo il sangue lava il sangue." rispose lui "Avrei dovuto accorgermene tanto tempo fa."

Lei si alzò in piedi e si avvicinò a lui di qualche passo.

"Tu...?"

"Sì."

"Come?"

Andrealphus le raccontò tutto, del fatto che quando era svenuta loro padre lo avesse incitato a continuare, e del fatto che si era opposto, sgomento, a quella richiesta. Le disse del sorriso compiaciuto e del brindisi in suo onore per l'orribile gesto che lo aveva portato a compiere, e che ai suoi occhi lo avevano reso abbastanza uomo. Le disse di aver ripensato alla loro madre, a tutto il male che il Marchese le aveva fatto, le disse di aver ripensato a lei, a loro, alla loro infanzia, a tutti gli sbagli che aveva commesso, a tutta la sofferenza che le aveva causato, a tutte le volte che aveva fallito nel tenerla al sicuro. Non le parlò delle voci, ma le parlò di un sentimento istintivo e feroce che aveva preso il dominio di lui; le parò anche dell'improvvisa assenza di paura, e dell'istante in cui aveva deciso di condannarlo a morte. Le raccontò del vino congelato nella gola del Marchese, dell'anello in frantumi, e del fatto che lo aveva guardato morire. Non le disse del brindisi nella coppa di ghiaccio, era una stupida rivalsa che si era voluto prendere, e non aveva importanza.

Stella rimase impassibile, non provò niente. Solo una scintilla di liberazione.

"Ha sofferto?" domandò poi, la voce era ancora flebile e Andrealphus vi colse un leggero tremore.

"Ho fatto in modo che provasse tutto il dolore, tutta l'impotenza, che abbiamo dovuto sopportare in una vita."

Andrealphus si era fatto forza e l'aveva guardata, era pallida, aveva pianto da poco, piccole ciocche di capelli le stavano appiccicate alla fronte, le leggeva negli occhi sgomento, incredulità, un timore sottile, e capì che anche lei stava facendo uno sforzo enorme per reggere il suo sguardo. E dall'atteggiamento controllato che era riuscito a mantenere, sentì il cuore farsi pesante e cedere all'angoscia e alla vergogna. All'inizio una sola lacrima gli rigò una guancia, ma presto scoppiò in singhiozzi incontrollati. Si accasciò per terra, ai suoi piedi, abbracciandole le ginocchia. Lei sussultò incredula ma non si ritrasse, sentì a sua volta il petto stringersi in una morsa.

"Mi dispiace, Stella. Mi dispiace. Ti chiedo perdono."

Piangeva così forte da non riuscire a respirare. Non lo aveva mai visto piangere così.

"Lui non c'è più. Lui...Non volevo farti del male. Non avevo scelta... Pensavo di non avere scelta. Lui... Lui non è più un problema. È morto. L'ho fatto per te. Stella, perdonami. Perdonami."

I singhiozzi echeggiavano nella camera da letto.

"Lo so." Stella lo disse in un sussurro.

Lui sussultò, alzò gli occhi verso di lei.

"Lo so che non avevi scelta." continuò lei "Ma..." piegò le labbra in un'espressione amareggiata "...se alla fine dovevi scegliere di ucciderlo, avresti potuto farlo prima."

Andrealphus sentì una fitta al petto lancinante, e lanciò un gemito come se fosse stato colpito da una lama.

"Era quello che si aspettava Paimon." mormorò infine.

"Siamo stati dei bravi pedoni, a quanto pare." Stella ebbe la sensazione che un sapore amaro le riempisse la bocca.

Suo fratello era ancora riverso per terra, in ginocchio di fronte a lei, con il viso bagnato di lacrime, pallido come un cencio, consumato dalla colpa, tormentato dall'immagine di lei in lacrime mentre la colpiva.

"So che non merito la tua indulgenza."

Stella sapeva che non sarebbe riuscita guardarlo per giorni, settimane, mesi. Sapeva che sarebbe caduta spesso nella tentazione di rinfacciarglielo, sapeva che avrebbe pianto da sola di notte, che per lungo tempo non avrebbero condiviso la colazione della domenica, che forse mai più sarebbe riuscita a parlargli di nuovo con la stessa spensieratezza. Sapeva che il seme dell'odio era lì, da qualche parte, tra le ferite che ora non si vedevano più, ma sapeva anche che non voleva dargli modo di attecchire e di crescere. Se aveva una qualche certezza in quell'assurdo momento, era quella di non essere disposta a perdere l'unica persona con cui aveva davvero condiviso tutta la vita.

"Ho solo bisogno di tempo, Andrealphus."

"Il tempo non può aggiustare tutto."

"Può. Sei mio fratello."

Forse quelle parole avrebbero dovuto rassicurarlo, ma invece gli fecero solo più male, e sentì di meritare il suo perdono ancor meno di quanto già credesse.

"So che è quello che Paimon voleva, ma io non l'ho fatto per lui, l'ho fatto solo per te."

Il viso di Stella aveva riacquistato un leggero colore, ora lo guardava dall'alto, nella camicia da notte bianca, come un angelo del giudizio. Gli accarezzò i capelli in un gesto di straniante tenerezza.

"Adesso alzati e asciugati le lacrime." gli disse, la voce era ancora flebile, ma decisa. "Abbiamo già sprecato troppi anni a piangere. L'orco è morto, c'è solo da ridere e festeggiare."


Chapter 40: Ritorni

Summary:

Octavia torna da Stella, Stolas viene richiamato nel regno per via dell "incidente".
Si sente tutto il peso dei non detti

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Ritorni
 

Una notte insonne: era questo che Andrealphus si aspettava quando si era trascinato a passi lenti nella propria camera da letto. Si era tolto i vestiti man mano che avanzava verso il letto, una scarpa, poi l'altra, la camicia, ridotta ad uno straccio intriso di sangue e sudore, l'aveva abbandonata per terra sul tappeto persiano, e lo stesso destino aveva riservato al pantalone ormai logoro all'altezza delle ginocchia.

Non aveva avuto la forza di cercarsi una vestaglia e si era rintanato seminudo sotto la coperta; aveva avuto la sensazione che una voragine gli si aprisse nel petto, mentre un sentimento di smarrimento gli stringeva la bocca dello stomaco.

Una notte insonne: era questo che si aspettava quando il suo cervello aveva preso a turbinare ancora e ancora sugli eventi di quella sera, accompagnato da un senso di vertigine. Ma in realtà gli erano bastati poco più di un paio di minuti avvolto nella coperta per farlo sprofondare, sfinito, tra le trame del sonno.

Quando aveva riaperto gli occhi una pallida luce invernale riempiva le sue stanze, l'orologio a parete segnava che mancava appena qualche minuto a mezzogiorno.

Rimase sdraiato a letto per interminabili minuti, a fissare il soffitto e a provare a scacciare, con tutta la buona volontà e senza risultato, il dolore alla testa; le tempie gli martellavano senza tregua come se non avesse riposato affatto, sentiva un peso opprimente sul petto e ancora quella morsa alla bocca dello stomaco che gli rendevano difficile persino respirare.

Devo darmi una calmata. Si mise a sedere sul letto e sentì di nuovo la sensazione di nausea della sera prima. Non devo davvero vomitare. Sono digiuno. È solo l'ansia. Si stropicciò gli occhi con l'indice e il pollice e scivolò fuori dal letto. Guardò i vestiti della sera prima abbandonati sul pavimento, erano in condizioni pietose e promise a sé stesso che li avrebbe bruciati appena possibile.

Negli armadi non trovò nulla di suo, ma trovò diverse giacche da camera e un paio di completi di suo padre. Gli stavano larghi e indossarli gli acuiva soltanto la sensazione di nausea, ma non aveva molta scelta. In giornata avrebbe mandato qualcuno a prendere i suoi abiti, e si sarebbe procurato anche qualcosa di adatto ad una parvenza di lutto.

Quando andò a cercare Stella nelle sue vecchie stanze, lei non c'era. La camera era però in ordine, le cose sparse e abbandonate di un altro tempo erano raggruppate insieme in un angolo dell'armadio semichiuso, il letto era stato rifatto alla buona ma con cura, la bambola di porcellana senza un braccio era appoggiata ai cuscini, l'abito rosa giaceva abbandonato su una sedia come l'involucro ormai vuoto di una crisalide. Le imposte della finestra erano aperte e le tende scostate, fuori si vedeva solo un'immensa distesa bianca e un nevischio fitto fitto che avvolgeva il palazzo nel silenzio e sembrava isolarlo dal mondo.

L'ordine delle stanze di Stella contrastava però con una scia di devastazione che attraversava il resto del palazzo: nel lungo corridoio austero, che per loro padre fungeva da museo delle sue imprese, giacevano sul marmo in frantumi tutti quegli oggetti che negli anni aveva tenuto esposti come trofei di guerra; alle pareti i ritratti del Marchese erano stati squarciati da una lama, la sua lama, meticolosamente uno per uno, e la tela pendeva a brandelli dalle cornici intarsiate. Nei dipinti che li ritraevano insieme, la tela era invece bucata e annerita, come se fosse stata data alle fiamme, solo nel punto dove prima avrebbe dovuto esserci il volto di loro padre.

Seguì con il cuore pesante i frammenti dei trofei e i ritratti a brandelli finchè la vide da lontano, ergersi sulla soglia del salottino in cui si erano svolti gli eventi della notte prima. Stella aveva addosso un abito verde smeraldo che spiccava, tra i colori tristi e spenti di quella casa, come il primo germoglio di primavera dopo un lungo inverno. Il taglio era modesto, le maniche leggermente a sbuffo all'altezza delle braccia si stringevano sugli avambracci, il colletto alto aveva appena un accenno di pizzo color salvia che lo adornava e un piccolo ricamo, che doveva ricordare le foglie di edera, era l'unico decoro del corpetto altrimenti liscio.

Quando le vide quell'abito addosso un solo pensiero gli attraverso la mente:

È giusto. Ora è lei che sta punendo me.

"Dove... dove lo hai preso?" furono le prime parole che Andrealphus le rivolse quel mattino, e suonarono spezzate e rotte da un balbettio leggero.

"In uno dei bauli nelle stanze della mamma." Rispose Stella guardandolo appena, poi aggiunse in tono neutro. "Puzza di chiuso, ma di sicuro non puzza di merda come i vestiti che ti sei messo addosso."

Andrealphus incassò il colpo senza controbattere, gli occhi gli si velarono di lacrime e vergogna, poi rivolse lo sguardo sul fondo della stanza e notò che alcuni domestici erano indaffarati a prendere delle misure alle finestre e alle pareti; la poltrona su cui la sera prima sedeva loro padre era in cenere e dallo scheletro di legno e tessuto che restava emergevano brandelli di imbottitura. Il camino era acceso, le imposte aperte, le tende tirate giù e abbandonate sul pavimento. Sulla cassettiera di noce erano appoggiati un campionario di tessuti nei colori tenui dell'azzurro polvere, del rosa cipria e del pervinca.

"Da quanto sei..." si bloccò, un'altra domanda aveva la priorità "Che cosa stavi...stai facendo?"

"Sarà il tuo palazzo. Ti piacciono i colori chiari, no?" Stella gli rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Andrealphus lanciò un'occhiata alla servitù e ricevette di rimando solo un "Buongiorno, Marchese." Che gli fece gelare il sangue, subito seguito da una serie di sguardi colpevoli e imbarazzati.

Lui ebbe l'impulso di afferrarla per un polso, trascinarla lontano, rimproverarla per la sconsideratezza con cui stava affrontando la situazione. Avrebbero dovuto essere in lutto. I tristi orfani di uomo che godeva della benevolenza del re. Quella era la facciata che avrebbero dovuto mantenere. Non smantellare la casa come se non aspettassero altro che la sua dipartita. La gente si sarebbe posta domande, avrebbe parlato, qualcuno della servitù avrebbe spifferato qualcosa, i sospetti sarebbero diventati voci, le voci sarebbero diventate verità. Non era il modo di comportarsi; era forse impazzita? Voleva rovinarli?

Si mosse di scatto per prenderle il polso, già pronto a sgridarla, ma si bloccò a metà del movimento. È qualcosa che avrebbe fatto mio padre. Il pensiero gli attraversò la mente velenoso e bruciante. E io non sono come lui. Un leggero tremore gli percorse il braccio e la mano, la avvicinò a quella di sua sorella senza osare sfiorarla, lei intercettò il movimento e la afferrò in una stretta leggera.

"Parla. Lo so che vuoi dirmi qualcosa." Gli disse.

"Stella..." le rispose in un sussurro appena udibile, e pronunciò il suo nome come fosse una parola magica o una preghiera "... anche io voglio cancellare qualsiasi traccia di lui da questo posto..." E dalla mia mente e dai miei gesti. Dai miei ricordi e dai miei incubi, e da ogni goccia del mio sangue, se possibile. "...tu ne hai più diritto di me. Ma dobbiamo stare attenti, o la gente si accorgerà che non siamo disperati come ci si aspetterebbe, e inizierà a farsi domande."

"Nessuno ci biasimerà nel vederci sollevatiLo sapevano tutti, Andre."

Il nomignolo risvegliò in lui un leggero tepore nel petto, e gli fece provare una felicità inconsueta.

"Ieri sera non era di certo la prima volta che succedeva una cosa del genere qui dentro." Continuò lei, con una certa durezza nella voce "La servitù era addestrata a defilarsi, e nessuno tiene una frusta in un cassetto del salotto, a meno che quello che è successo ieri non fosse... prassi. Almeno questa stanza, Andre, lasciamela distruggere oggi stesso."

***

Riportarono Octavia alle tre del pomeriggio, indossava gli abiti del giorno prima sgualciti e logori come se ci avesse combattuto una guerra. Aveva sul viso un'espressione seria e fiera, i capelli arruffati le incorniciavano le guance arrossate di pianto.

Ad accompagnarla c'era la guardia che aveva consegnato la lettera, e una delle due balie, quella che non era stata ferita. Li accolse Andrealphus al portone d'ingresso, come un déjà-vu di due sere prima. Lui rivolse loro uno sguardo di disprezzo e non li lasciò neppure entrare.

"Non aspettatevi convenevoli." Disse piatto "Riconsegnatemi mia nipote e andate via."

"Si è rifiutata di mangiare." Lo informò la balia "Mi scuso per gli abiti, sono state ore... concitate. Non ha voluto che gli dessimo un cambio per la notte. Ha dormito vestita."

"Veramente non ho dormito. E tu lo sai, eri dietro la porta a farmi la guardia." La corresse Via. "E non accetto cibo e vestiti da chi mi tiene prigioniera."

"Ti ho già spiegato che eri ospite del re." Fece la balia con una punta di esasperazione nella voce.

"Che io sappia gli ospiti sono liberi di andarsene quando vogliono." Disse Via, prima di sgusciare all'interno del portone, di fianco a suo zio.

"C'è anche una missiva per la principessa, mi è stato ordinato di consegnarla personalmen..." la guardia iniziò a parlare porgendo una busta, Andrealphus gliela strappò dalle mani "Non me ne frega niente delle direttive che avete." Disse, prima di sbattergli la porta in faccia.

Via lo guardava in silenzio, era sollevata di essere lì, ma voleva chiedere il perché l'avessero portata a casa dell'altro nonno, o perché non fossero andati a riprenderla la sera prima e voleva chiedere di sua madre, ma la invadeva un timore paralizzante, come se a tutte quelle domande potessero esserci solo risposte che non voleva sentire.

"Via!" la voce di Stella riempì l'aria "Amore mio!"

Octavia la vide affrettarsi giù per le scale, sentì il cuore farsi più leggero e un calore dolce irradiarsi nel petto. Le corse incontro ai piedi delle scale e le si gettò tra le braccia. Stella la abbracciò più forte di quanto avesse mai fatto e le fece fare un mezzo giro quasi volteggiando nell'aria.

"Stai bene? Ti hanno fatto qualcosa di male?" Stella scrutò negli occhi di sua figlia, le accarezzò le guance ed i capelli, percorse con lo sguardo il corpo esile di lei, il vestito rovinato.

"Sto bene." Octavia fu colta da un'improvvisa timidezza "Non mi hanno fatto niente. Solo tenuta chiusa in una stanza."

Poi notò un livido bluastro sul polso sinistro di Via.

"E questo?"

Lo esaminò in preda all'apprensione.

"Quello lo hai visto com'è successo." Continuò Octavia "È stato quando mi ha preso per trascinarmi via. Comunque, dopo la fiammata non hanno più avuto il coraggio di toccarmi. Le ho spaventate." lo disse con un sorriso di soddisfazione che contagiò Stella, e la fece sorridere per la prima volta in quasi ventiquattr'ore.

"Ho provato a tornare da te. So che mi avevi detto di non farlo. Sono riuscita ad aprire la porta della stanza, diciamo. Ma mi hanno preso subito dopo."

"Aprire?" domandò Stella alzando un sopracciglio.

"Cioè, gli ho dato fuoco... so che non si fa ma era chiusa ed era un'emergenza..."

Via strofinava nervosamente tra le dita i polsini del vestito, doveva averlo fatto come tic nervoso per ore, dato che risultavano leggermente sfilacciati.

"...hanno anche chiamato il... Re ad un certo punto, dicevano che dovevo calmarmi. Ma non potevo. Non ci riuscivo. Non sapevo dov'eri, non c'era papà! Io gli ho detto che se non mi avesse lasciata andare gli avrei fritto la guancia come tu hai fatto con l'altro nonno. Mi ha riso in faccia, mi ha fatta infuriare, ma più mi arrabbiavo più rideva... Quando ha finito di ridere mi ha detto che siccome sapeva che mi piace leggere mi aveva portato un libro per passare il tempo. Era uno stupido libro noioso su questi due popolani che si devono sposare e per qualche motivo un nobile vuole impedirglielo. Ha borbottato qualcosa sul fatto che un libro del genere sarebbe dovuto piacere a una ragazzina. Mi sono arrabbiata di più."

Stella la guardava tra l'amareggiato e il divertito.

"Ora sei qui con me, e va tutto bene." Le aveva detto infine, e l'aveva stretta ancora a sé.

"Mamma... Tu stai bene?"

Stella sentì una piccola fitta nel petto, e sentì gli occhi pizzicare.

"Sì, tesoro mio, sto bene."

"Cos'è successo ieri notte?"

"Qualsiasi cosa sia successa non ha importanza. Importa che tu stia bene, e che ora siamo insieme."

"Sì ma... io voglio sapere che cosa è successo."

"Noi... abbiamo avuto una lunga discussione col sovrano riguardo al tuo futuro. E gli ho detto che il tuo futuro è solo tuo e che non volevo sentire ragioni."

"Sì ma..." Via stava già per controbattere di nuovo, quando la voce di Andrealphus riempì l'androne.

"Stella..." Suo fratello teneva in mano il biglietto di Paimon con un'espressione sorpresa e colma di confusione "...so che è un momento importante ma dovresti leggere qui."

Principessa Stella,
Vista l'indole "ardente" che ha dimostrato di avere la principessa Octavia ritengo che dovremmo rivedere l'idea iniziale riguardo alle sue nozze. Pertanto, per il momento, non verrà combinato alcun matrimonio.
Un temperamento così focoso dovrebbe trovare spazio in un ambito che sia più coerente con le sue inclinazioni, e più utile al regno.

Avremo modo di approfondire,
Anche in presenza del principe Stolas.

Stella lesse il biglietto, lo rilesse due volte per essere sicura, poi guardò suo fratello ed esclamò, con un tono stizzito:

"Quindi ci ha presi per il culo?"

"Mamma!"

"Oh! Scusa amore!"

"Che dice il biglietto?"

"Che è... tutto risolto, credo. Evidentemente hai fatto bene a dare fuoco ad una porta."

"Perché mi hanno portata qui? E dov'è l'altro nonno?" domandò Via poi, tutto d'un fiato, come se stesse cercando pian piano di fare luce tra tutte le sue domande.

Stella sussultò, piegò la bocca in un'espressione indefinita di disgusto e amarezza.

"È morto."

"Ma... ieri sembrava..."

"Dopo l'incontro con Paimon ha avuto un incidente. Siamo qui perché domani si svolgeranno i funerali e come figli abbiamo il dovere di occuparcene."

Via aggrottò la fronte e guardò sua madre come a voler decifrare qualcosa di non detto.

"Oh. Ho capito. Credo..."

Poi si rivolse verso suo zio e domandò, mantenendo quell'aria pensosa.

"Zio Andre anche tu puoi... trasformarti come papà?"

Andrealphus sussultò. "Io? Perché? Io non... No. Non posso."

"Mh." Via assottigliò ancora la linea delle palpebre.

"Vuoi fare un bagno tesoro?" fece Stella, sperando con tutta sé stessa di riuscire a cambiare discorso "Mangiare qualcosa? Dormire un po'?"

"Sì, forse mangiare." Disse Via, iniziava a sentirsi debole e percepì improvvisamente una voragine nello stomaco. Prima di seguire sua madre verso la cucina rivolse a suo zio uno sguardo di curiosità "Zio Andre..."

"Sì, piccola?"

"Perché nevica sulla casa?"

Andrealphus sentì stingersi il petto. Cosa avrebbe potuto dire? Come avrebbe potuto spiegarle il perché senza rivelarle tutto il resto? Era poco più che una bambina ma mentirle non faceva che acuire il suo senso di colpa.

"Anche ai grandi, a volte, può succedere di perdere il controllo sulla propria magia." Non spiegava niente, ma non era una bugia.

Octavia si fece pensosa, suo zio era sempre stato criptico, schivo, aveva sempre parlato poco. Lo ricordava da bambina sedere sul tappeto accanto a lei, mentre Stella le raccontava una fiaba, e ascoltarla assorto come se la stesse raccontando anche a lui. Aveva questo ricordo di lui che la raccoglieva in corridoio dopo averla trovata a piangere per un litigio dei suoi genitori, ed era stato carino e impacciato nel tentativo di consolarla. Pochi altri momenti li avevano legati, qualcuno in più da quando aveva manifestato i poteri magici, ma lui le era sempre sembrato quasi intimorito da lei, come se non sapesse come comportarsi. Manteneva sempre un'aria seria, anche quando le concedeva qualche gesto di affetto, o le poche volte che l'aveva convito a giocare. Girava per casa come un fantasma, una presenza sfuggente, ma sapeva che le voleva bene, e che ne voleva a sua madre. E sapeva anche che quell'espressione di preoccupazione sul suo viso voleva dire che non le avrebbe detto nient'altro.

"Va bene." Rispose "Ora io vado con mamma. Tu però non... non ti preoccupare, per la magia."

Ad Andrealphus scappò un mezzo sorriso. "Starò bene, piccola. Va' a magiare qualcosa."

***

"Che cosa significa questa missiva, padre?" Stolas comparve da un portale aperto nelle stanze private di Paimon senza aver cura di annunciarsi. Era tarda sera, lo trovò in maniche di camicia che si era appena sfilato il panciotto.

"Hai un pessimo tempismo, mi stanno preparando un bagno." Gli rispose Paimon senza nemmeno guardarlo.

"Mentre questo ha un ottimo tempismo, non trovate?" lo disse sbattendogli in faccia la lettera aperta e stropicciata.

"Non capisco a cosa tu ti stia riferendo." Paimon si scostò di due passi e si mise a sedere sul letto "Ti ho fatto richiamare perché domani ci saranno i funerali solenni di tuo suocero, il Marchese, il mio miglior generale. E sarebbe stato disdicevole per te non presiedere."

"Mi riferisco al fatto che mio suocero sia venuto a mancare durante l'unica settimana, negli ultimi trent'anni, in cui sono stato lontano dal regno."

"È quello che è successo."

"Mi volete dire che è una tragica coincidenza?"

"Intendo dire che, presto o tardi, doveva succedere. Il Marchese non era più quello di un tempo, un generale fedele e lucido è utile e controllabile. Un vecchio pazzo non lo è. Al Consiglio degli anziani, negli ultimi anni, non ha fatto che creare scompiglio, per non parlare della scenata al banchetto. Era un problema che tu non sei stato in grado di risolvere a modo. E no, quella volta, con la servitù in casa e con tutti gli invitati del Granduca che vi avevano visto allontanarvi insieme dal ricevimento, non sarebbe stato risolvere. Sarebbe stato uno scandalo per il tuo nome e per il mio. Eliminare un problema vuol dire non creare problemi collaterali nel farlo; ed è anche meglio se nell'eliminarlo si generano anche situazioni di vantaggio."

"Che cosa intendete per situazioni di vantaggio?"

"Mi sono assicurato che tuo cognato non tradisca a cuor leggero la corona."

Stolas sentì un brivido percorrergli la spina dorsale.

"Che cosa avete fatto?"

"Ancora non ti è chiaro, figlio mio? Io non ho fatto nulla. Quando metti le persone nelle giuste condizioni, devi solo aspettare che gli eventi facciano il loro corso."

"Le persone nelle giuste condizioni? È della mia famiglia che state parlando."

"Ho fatto quello che andava fatto, con i mezzi migliori che avevo a disposizione."

Qualsiasi forma di rispetto o di stima che Stolas avesse mai provato nei confronti di suo padre sfumarono in quell'istante.

"In cosa avete li avete coinvolti?"

"Sei sempre stato intelligente, fin da piccolo. Ma la conoscenza non porta sempre solo giovamento."

"Sono stanco delle vostre perifrasi, esigo una risposta chiara."

"E io esigo che tu la smetta di farmi perdere tempo. Se sei preoccupato per la tua famiglia, va' da loro, li troverai tutti al palazzo del defunto Marchese."

"Perlomeno quando volete siete in grado di dare un'informazione di una qualche utilità." Disse Stolas con una punta di disprezzo nella voce, e fece per attraversare il portale che aveva evocato.

"Ah, Stolas..." Paimon si rimise in piedi e si avvicinò a suo figlio "Ho già informato tua moglie per lettera. Di quello di cui abbiamo parlato ieri sera riguardo ad Octavia, non se ne fa niente."

"Ieri sera? Quante altre cose avete fatto alle mie spalle?"

"Nulla di rilevante, si è discusso delle possibili nozze di mia nipote."

"Che cosa?!" fu quasi un grido di incredulità e disapprovazione.

"Non ti agitare. Ho visto le potenzialità della ragazzina, non le sprecheremo in un matrimonio. Una carica magica così alta già a quell'età è cosa rara. Portala in Accademia con te tra un paio d'anni, falla studiare davvero. Potrebbe diventare un ottimo elemento del nostro esercito."

Stolas si sentì stordito da tutte quelle informazioni in una volta, guardò suo padre senza parlare.

"Un mago militare." Precisò Paimon "È potente, e ha il giusto...temperamento."

"Padre è... è una femmina. Sarebbe la prima volta che un mago militare..." Non gli venne in mente nessuna scusa migliore per dissuaderlo.

"E allora? I tempi sono cambiati. Se tu puoi stare ad annaffiare le piante, lei può stare su un campo di battaglia."

Stolas spalancò la bocca come a voler dire qualcosa, ma Paimon lo spinse quasi attraverso il portale.

"Ora va' dalla tua bambina, ieri ti ha cercato disperatamente."

***

La casa del defunto Marchese era buia e silenziosa, d'istinto si diresse verso le stanze dove avevano alloggiato per la notte dell'equinozio, ma le trovò vuote. Percorse allora quella che anni prima era stata l'ala chiusa del palazzo, verso le vecchie stanze di lei. La trovò addormentata, stretta a Via in un abbraccio protettivo.

Le sfiorò una spalla.

"Stella..." sussurrò.

Lei sussultò, strinse Via più forte a sé e spalancò gli occhi in stato di allerta.

"Ci avete preso gusto a fissarmi mentre dormo?" Si voltò in direzione della voce sulla difensiva, ma quando vide il viso di Stolas nella penombra si rilassò "Stols... sei...sei tu." mormorò a mezza voce. "Come sapevi che ero qui? Non tornavi domani sera?"

"Mio padre mi ha richiamato dall'incarico."

Stella sgusciò fuori dal letto, Via mormorò qualcosa e si rigirò nelle coperte senza svegliarsi. Si allontanarono di qualche passo, e si misero a parlare di fronte alla grande finestra.

Lui vide il volto di lei illuminato dalla fievole luce azzurrina del cielo notturno, gli occhi cerchiati di nero, il viso pallido, le prese le mani tra le sue e le trovò gelide al tocco.

"Via sta bene?" domandò, sentendo il cuore stringersi nel petto. "E tu?"

"Stiamo bene." Stella accennò un sorriso che sembrò costarle un'immensa fatica. "Siamo solo molto stanche."

"So che mio padre vi ha convocati in mia assenza." Continuò Stolas. "Mi ha detto delle nozze."

"Ha parlato di nozze e poi oggi se l'è rimangiato."

Il principe fece un ampio respiro e cercò il coraggio per domandare l'altra cosa, quella che più gli premeva.

"Mi ha anche detto che tuo padre è..."

"Morto." Completò lei, fredda.

Lui le strinse le mani in una stretta leggera, ora le sentiva tremare leggermente nelle sue.

"Stella, io devo chiedertelo..." Una preoccupazione bruciante gli attanagliava il petto "...tuo padre, ieri sera, ti ha fatto del male? O tu hai fatto del male a lui per... difenderti?"

"No Stols. Mio padre non mi ha toccata." La voce di Stella si incrinò. "E io non gli ho fatto niente."

"Allora che cosa è successo?"

"Un incidente."

"Che tipo di incidente?"

"Un incidente patetico per un vecchio patetico. Si è strozzato col vino." Disse lei, non osando guardarlo.

"Lo sai che puoi dirmi la verità, qualsiasi verità. So com'era tuo padre. Se è successo qualcosa..."

"Ti prego Stols. Non chiedermi altro. Ti imploro."

"Voglio solo capire. Se c'entra Andrealphus..."

Stella sentì la gola stringersi in un modo insolvibile, ebbe l'impressione di poter crollare da un momento all'altro.

"Non mettere in mezzo mio fratello."

"Non arrabbiarti, per favore..." lui la guardava con due occhi colmi di preoccupazione "Se Andrealphus ha fatto qualcosa di brutto, se lo ha fatto per proteggerti..."

"Stolas..." lei lo interruppe con voce strozzata, il suo viso era pallido, gli occhi violetti erano umidi e brillavano nel buio "...se in questi anni hai imparato a volermi anche solo un po' di bene, ti prego. Non costringermi a parlare di ieri notte. Non posso farlo, né stanotte, né mai."

"Io..." Una confusione spaventosa gli vorticava in testa, il senso di smarrimento e di impotenza lo facevano sentire, in qualche modo, corresponsabile di qualsiasi cosa fosse accaduta la notte prima. "...io vorrei solo..."

"Andiamo a dormire?" Stella lo chiese come una supplica "Tutti e tre, nel lettone, come quando Via era piccola? Sono sfinita, Stolas. Per favore."

Lui le lesse negli occhi una vena di disperazione, e una stanchezza che sembrava scavarla da dentro. Non si oppose a quella richiesta, e la seguì a letto.

Ora Stella era in mezzo a loro, stringeva Via tra le braccia e sentiva irradiarsi al suo fianco il calore del corpo di Stolas, e gli teneva una mano nella penombra, stretta come se temesse potesse sfuggirgli. Presto si addormentò, sfinita, e rassicurata da quella presenza familiare.

Quanto a Stolas, non riuscì a prendere sonno: imparò a memoria i dettagli della vecchia stanza di lei, la fantasia della carta da parati, la forma dei pomelli dell'armadio, gli intarsi delle colonne del letto a baldacchino, e nelle ore cadenzate della notte, annegò in un turbinare di domande che, temeva, non avrebbero avuto risposta.

Notes:

Ehm... Questa volta la lunghezza del capitolo mi è proprio sfuggita di mano, e vi chiedo scusa!

Perciò non mi dilungherò molto nell'angolo autrice, mi limiterò a ringraziarvi per aver avuto la pazienza di leggermi fin qui❤️

Ci leggiamo presto, e questa volta al funerale della merdaccia!

Mi raccomando, come da moda vittoriana, mi aspetto le donne in lutto stretto con gli abiti in crêpe.

Anche se nel cuore so che saremo tutte vestite di giallo/arcobaleno fluo/paillettes scintillanti. ✨🌈🪩✨

Armilla Lunastorta

Chapter 41: Addii

Summary:

Il funerale del Marchese prende pieghe inaspettate

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Addii

 

Paimon aveva fatto le cose in grande stile, funerali solenni per un uomo del quale declamava tanto il valore. Tuttavia, non un valore tale da necessitare una piazza o un palazzo di stato. I funerali si sarebbero svolti nella sala ricevimenti del palazzo del defunto, poco importava della neve; coloro che ne avrebbero preso parte, nobili di rilievo e membri dell'assemblea, erano avvezzi a situazioni ben peggiori in cui far mostra dei loro convenevoli di facciata.

Quella mattina Andrealphus si era svegliato presto. Aveva indossato un abito scuro che si era fatto adattare in tutta fretta; la cravatta lo soffocava, il taglio era così austero da farlo sentire a stento sé stesso, e il colore nero gli dava la straniante sensazione che il suo volto apparisse come un teschio di cera, con solo le iridi azzurre a romperne il pallore spettrale, e lo portava a domandarsi se non dovesse apparire anche lui come un morto che cammina. Ora era nel suo studiolo, mentre cercava invano di buttare giù qualche riga sul discorso che avrebbe dovuto tenere, che non trasudasse in maniera troppo evidente disprezzo o soddisfazione.

Non sapeva che Stolas fosse tornato, ma non fu sorpreso di vederselo comparire davanti, non fu neppure sorpreso dell'espressione seria sul suo viso, e del leggero smarrimento che traspariva dagli occhi appena un po' sgranati. Quello che invece lo sorprese fu la presa decisa del principe sul bavero della sua giacca di seta, e l'accusa rivolta senza neppure un saluto di circostanza:

"Sei stato tu? Dimmelo."

Andrealphus gli restituì uno sguardo che trasudava colpevolezza, ma la bocca pronunciò parole diverse.

"Di cosa mi stai accusando, esattamente?"

"Nessuno in questa famiglia si degna di dirmi che cosa è successo ieri sera. Non sono uno stupido. So che c'entri tu. Altrimenti Stella avrebbe parlato."

Andrealphus deglutì "Lasciami il bavero, Stolas." Disse serio, mantenendo il contatto visivo.

Il principe mollò la presa, e vide suo cognato allisciare il tessuto della giacca nell'evidente intento di prendere tempo.

"Lo hai ucciso tu." Stolas non lo disse come una domanda, ma come una certezza che aspettava solo una conferma di circostanza. "Solo che non so perché."

Suo cognato gli rivolse uno sguardo indecifrabile e si irrigidì, poi parlò con una voce priva di emozione.

"Mettiamo pure che io c'entri qualcosa, Stolas, tu sai cosa succede all'assassino di un membro della nobiltà. E se non lo sai, o se non te lo ricordi, faresti meglio a domandare a tuo padre."

"Lo so benissimo, ma tu sai che in simili circostanze non esiterei a darti la mia protezione."

"No. Non lo faresti." Gli occhi di Andrealphus erano velati di una patina lucida. "Ad ogni modo non mi serve. Come ha detto il mio re, si è trattato di un incidente."

"Dopo tutto quello che abbiamo passato, Andrealphus, merito un trattamento migliore."

"Che noi abbiamo passato? Tu non c'eri. Non sempre si ha quello che ci si merita. Stella meritava certo di meglio, e in cambio ha avuto te come marito e me come fratello."

"Chiedo solo la verità."

"La verità non porterebbe nessun giovamento, a nessuno di noi."

"Parli come mio padre."

"Chiediti il perché, sei tu quello intelligente in questa famiglia."

"Papà..."

Octavia comparve sulla porta, in un abitino nero con i pizzi sulle maniche e sul collo, e un cerchietto nero a sua volta, che si sarebbe confuso con i capelli se non fosse stato per il tessuto lucido. A Stolas non piacque vederla così, sentiva che il Marchese non meritasse di toglierle i colori, nemmeno per un giorno. Ad Andrealphus fece invece impressione, gli sembrò come se tutte le donne della sua vita, prima o poi, dovessero assumere l'aspetto di strane bambole. E Via, con gli occhi grandi e violetti, col viso pallido dalle gote rosate incorniciato dai capelli corvini, in quell'abito nero in crêpe, faceva l'effetto di una bambola di porcellana.

"Che c'è, tesoro?" domandò Stolas.

"Alla porta ci sono persone che ti cercano. La mamma dice che non ha voglia di parlarci e che devi occupartene tu."

Stolas provò una vena di irritazione per quella richiesta. Sua moglie non era addolorata per la morte del Marchese, non c'era motivo che non si occupasse lei degli ospiti. Ma è turbata per qualcos'altro. Anche se non me lo dice. Quella consapevolezza lo portò a non rifiutare l'incombenza della massa di nobiltà leccapiedi che si era riversata al palazzo del defunto solo per due motivi: mantenere la facciata, e cogliere l'occasione di parlare a tu per tu con uno dei figli di Paimon. A dire il vero c'era anche un terzo motivo, ovvero controllare se davvero uno dalla pellaccia dura come il Marchese, che non erano riusciti ad uccidere le guerre né il tempo, fosse davvero morto in casa sua per un non ben definito incidente.

"Hanno chiesto proprio di me o di tuo zio?" domandò allora a sua figlia.

"Di te, papà."

Stolas roteò gli occhi e seguì Octavia, lanciò un'occhiata di sbieco a suo cognato prima di lasciare la stanza.

***

Gran parte della nobiltà era già nella sala ricevimenti, l'unico posto del palazzo in cui si sarebbe potuta accogliere la folla, accorsa per quello che somigliava più ad un evento di società che ad un funerale, quando il Marchese Andrealphus fece il suo ingresso; lo affiancava sua sorella al braccio del principe Stolas, che teneva a sua volta per mano la principessa Octavia.

A nessuno dei presentì sfuggì la nota dissonante dell'abbigliamento della principessa Stella: certo l'abito era nero, e il taglio della gonna e delle maniche somigliava molto a quello che imponeva la moda del lutto, il tessuto però era la seta lucidissima e sontuosa degli abiti da sera. E la parte alta dell'abito, che avrebbe dovuto consistere in una linea semplice e accollata, si componeva invece di un corpetto che le stringeva la vita e in una scollatura quadrata che, se pur modesta, tradiva una punta di sensualità. Al collo portava un collier di perle bianche con al centro, incastonato nell'oro, un rubino tagliato a goccia. Così anche per gli orecchini, fatti di una perla bianca e di un rubino a goccia a sua volta. Né Stolas, né Andrealphus avevano osato contraddirla su quella scelta. E ad Octavia, che troppo poco sapeva di aspettative e tradizioni, quella strana versione di sua madre piaceva, le sembrava una di quelle maghe potenti di cui aveva letto nei suoi libri di avventura. Il vestito che Stella avrebbe dovuto indossare, fatto confezionare e recapitare da Paimon, era rimasto in una scatola, avvolto nella carta velina in cui era arrivato.

Ma non era solo il bizzarro abbigliamento della principessa a rendere quella cerimonia funebre tanto singolare. In primo luogo, saltava subito all'occhio come non ci fosse neppure un'immagine del defunto. Su quel particolare nessuno aveva osato chiedere e nessuno aveva dato spiegazioni. Tuttavia, ai presenti non era sfuggito come nemmeno alle pareti, né nell'androne, né nel corridoio che lo collegava alla sala ricevimenti, si potesse scorgere alcun ritratto di famiglia.

Un'altra cosa insolita era la quasi totale assenza di fiori, con la sola eccezione di una corona di gigli bianchi posta sopra la bara. Il feretro stava in fondo alla sala, ai piedi del palchetto dove, durante i ricevimenti, prendeva di solito posto il quartetto d'archi. E sul palchetto stava una poltroncina senza braccioli e appoggiato alla sedia un violoncello senza il musicista che, agli occhi degli ospiti, non aveva alcun motivo di essere lì.

La cerimonia si era svolta forse troppo velocemente, tra frasi di rito ed encomi al defunto, ed era stata celebrata da un funzionario del regno che nessuno aveva mai visto e che non avrebbero visto mai più. Era stato Paimon ad aprire i discorsi della famiglia: sul palchetto dove prima stava l'officiante aveva parlato con voce profonda e tonante del valore del suo generale in battaglia, e delle guerre che aveva combattuto al suo fianco. Non aveva detto nessuna frase di circostanza sul dolore della famiglia, né su un viaggio sereno oltre la morte, né del suo valore come uomo. E poi si era congedato, adducendo incombenze inerenti al regno, e scusandosi senza troppa convinzione con tutti i presenti.

Dopo l'intervento del sovrano c'era stato un momento di vuoto, seguito dal brusio generale quando la principessa aveva lasciato il suo posto in prima fila, accanto alla famiglia, per avvicinarsi al tavolino del rinfresco e versarsi con la nonchalance di chi è ad un banchetto e non ad un funerale, un bicchiere di vino: lo aveva buttato giù in due sorsi e aveva riempito nuovamente il calice.

"Papà..." aveva bisbigliato Via all'orecchio di Stolas "...che sta facendo la mamma?"

Ma, prima che Stolas potesse rispondere, Stella era già sul palchetto. Aveva appoggiato il bicchiere accanto alla poltroncina e si era sistemata il violoncello tra le ginocchia. Non aveva detto una parola, aveva afferrato l'archetto tra le dita e iniziato a suonare a memoria. Note grevi e solenni avevano riempito la stanza, ma presto era stato chiaro ai più che non si trattava di un Requiem o di un'Elegia. I pochi che un po' se ne intendevano di musica avevano riconosciuto che si trattava di Bach, e che era di certo una Sarabanda. Chi di musica non ne sapeva nulla, aveva avuto solo la straniante sensazione che, seppure la melodia fosse intrisa di solennità, lasciava trasparire qualcosa di oscuro e lugubre che poco aveva a che fare con la malinconia pacificatrice delle melodie funebri, ed era sembrato loro un addio sulle note di una maledizione. Presto si sarebbero fatti raccontare, da chi ne sapeva di più, che la figlia del Marchese aveva suonato una danza al funerale di suo padre.

Poi sempre senza parlare Stella si era alzata, aveva appoggiato nuovamente lo strumento contro la poltroncina e aveva afferrato di nuovo il calice.

"Non ho preparato un discorso, quello dei discorsi è mio fratello." Aveva esordito "Io non sono brava con le regole e convenevoli, e non so mai quale sia la cosa giusta da dire o da fare. Mio padre me lo rimproverava sempre."

Il brusio delle voci aveva lasciato il posto ad un silenzio di sgomento.

"Potrei dire che gli eventi degli ultimi giorni mi hanno distrutta, che ho sentito un dolore così forte da avere la sensazione che la carne si lacerasse assieme all'anima. Potrei dire che sono stati giorni terribili, e che non riesco a credere che in una notte si possa riscrivere la storia di un'esistenza. Ma sono certa che, se avete mai conosciuto la sofferenza, sono tutte cose che potete immaginare da soli. Per favore, non considerate disdicevole che io sia qui a parlare con un calice in mano, mio padre adorava questo vino, e mi sembra giusto offrirglielo come una libagione." Aveva alzato il calice come per brindare "Dunque, a mio padre! E a tutte le delusioni che non potrò più dargli!"

Poi, dato un piccolo sorso, aveva versato il resto del contenuto sulla corona di gigli, macchiandoli irrimediabilmente di rosso.

La folla era rimasta impietrita, e Stolas si era fiondato sul palchetto e le aveva avvolto le spalle con un braccio, come in un gesto consolatorio, e poi aveva detto con la voce sicura che sfoggiava quando indossava la maschera del principe e del mago:

"Vi chiedo di perdonare mia moglie. È ancora molto scossa per l'accaduto."

E l'aveva riportata in prima fila, accanto ad Octavia che le aveva rivolto uno sguardo che trasudava preoccupazione, e poi le aveva preso la mano e sussurrato un flebile ma convinto: "Ci sono io, mamma". Stella le aveva rivolto un tenero sorriso senza rispondere, e le aveva stretto più forte la mano.

Andrealphus non l'aveva neppure guardata, era troppo intento a controllare il respiro. E da fuori, con gli occhi cerchiati di nero e il volto scavato dalla stanchezza, sembrava davvero consumato dal dolore della perdita. Quando si era sentito abbastanza sicuro di riuscire a controllarsi, aveva preso il posto di sua sorella sul palchetto rialzato, e si era scusato ancora per la bizzarra libagione e il discorso di lei, aveva detto che gli eventi l'avevano provata e che dopo la cerimonia avrebbe avuto bisogno di riposare. E poi aveva preso a parlare. Aveva detto molte cose, e nessuna era stata davvero una bugia. Infine, aveva chiuso con un discorso di commiato dalle parole accuratamente scelte:

"Mi consola almeno sapere che mio padre sia morto in compagnia dei suoi figli, e che nonostante tutto abbia avuto la possibilità di conoscerci davvero, di vedere che tipo di persone eravamo diventate grazie al modo in cui ci aveva educato.

Ha avuto il tempo di comprendere il coraggio e la forza di sua figlia e di essere, in qualche modo, fiero di me. E mi consola che prima di morire sia riuscito a vedere con i suoi occhi i risultati di ciò che, nel corso della vita, aveva costruito. Mi consola sapere che ciò che aveva desiderato per noi si sia realizzato, e che abbia potuto vederne all'opera i frutti.

Perdonatemi se non mi dilungo, se la voce trema e le parole mi si congelano in gola, ma mille discorsi non basterebbero per descrivere le intense emozioni che turbinano nel mio animo in questo giorno. Mio padre è stato una figura determinante per il regno, e la sua presenza ha lasciato un segno indelebile nella vita di molte persone.

Come Marchese mi impegnerò pertanto a rendere onore al ruolo che le circostanze mi portano a ricoprire. Come figlio, nutro almeno la speranza che nella morte, se qualcosa ci attende dall'altra parte, mio padre possa ricevere tutto quello che in vita ha dato al prossimo."

***

Il Marchese sarebbe stato sepolto nel cimitero monumentale riservato agli alti dignitari del re. Paimon doveva averglielo detto, assieme a tutti i discorsi che gli aveva rivolto due notti prima, ma Andrealphus lo aveva dimenticato. Sapeva solo che se ne sarebbe occupato il sovrano e tanto bastava. Anche quella era stata una delle bizzarrie che avevano contraddistinto quell'insolito funerale: non avevano seguito il feretro per accompagnarlo alla sepoltura; così, la folla di baroni e di conti, di duchi e marchesi, era stata subito catapultata al momento del rifresco, con la straniante sensazione che quel passaggio mancante vanificasse la solennità che il sovrano stesso, ponendo nel regno le bandiere a mezz'asta e presentandosi personalmente a parlare in memoria del defunto, aveva cercato di dare all'evento.

Tuttavia, ne erano stati allo stesso tempo sollevati, tolta l'opprimente presenza della bara, che rendeva disdicevole cercare di entrare nelle grazie del nuovo Marchese, avrebbero potuto avvicinarsi ad Andrealphus senza l'impressione di fare un torto al morto.

Stella turbinava tra la folla della nobiltà con un'aria che si sarebbe detta afflitta, se non fosse stato per l'ombra di un sorriso che le vagava sulle labbra, gli ospiti decisero che si trattava di uno dei tanti modi che le persone usano per esorcizzare il dolore della perdita. Perciò si avvicinavano, con le loro frasi preimpostate, e le porgevano le loro condoglianze, e sciorinavano tutte quelle parole vuote che venivano richieste dalle circostanze, e lei dapprima rispondeva con un cenno del capo, con un grazie appena abbozzato. Ma poi, quando le parole di circostanza si erano fatte specifiche, quando la vecchia guardia che aveva davvero conosciuto suo padre le si era avvicinata, le sue risposte avevano assunto l'aspetto tagliente di un malcelato sarcasmo.

"Almeno potrà finalmente ricongiungersi con la vostra cara mamma." gli aveva detto un uomo vecchio, che ricordava frequentasse la loro casa quando erano bambini.
"Se c'è della giustizia in questo mondo, ciascuno di loro avrà raggiunto il posto che si merita di più." Aveva risposto lei con voce seria e cerimoniosa, sfoggiando il più sereno dei sorrisi.

E quando una signora di mezza età, che portava il lutto stretto come se fosse stata lei a perdere un padre, le aveva detto in un lamento: "Deve essere stata davvero dura perderlo così all'improvviso."
Stella aveva risposto, coccolandosi un calice tra le dita: "Non vi mentirò, è stato come ricevere una frustata." La donna l'aveva guardata confusa.
"È una pittoresca metafora..."
"Grazie, personalmente la trovo appropriata."

Si era appena riempita il secondo bicchiere, quando una coppia di vecchi baroni aveva voluto manifestarle la sua vicinanza con parole banali come: "Ci mancherà, era un uomo davvero nobile."
Lei aveva risposto, soffocando una risata di compiacimento: "In quanto Marchese mi stupirebbe se non lo fosse."
"Perdonatemi?" la coppia aveva strabuzzato gli occhi.
"No, dico..." Aveva precisato allora Stella con lo sguardo più ingenuo che riuscisse a simulare "Il titolo lo rendeva sicuramente nobile."

Andrealphus, nel frattempo, era troppo intento a soffocare il disagio e l'imbarazzo; si destreggiava tra le condoglianze dei numerosi amanti che aveva collezionato negli anni e che, per l'occasione, avevano scelto di presentarsi con le mogli a seguito, o con la prole. Perciò aveva scelto di ignorare sua sorella, anche quando al suo orecchio era giunto un discorso che gli aveva rivoltato lo stomaco.

"Me lo ricordo ai tempi della guerra..." un uomo in uniforme parlava con Stella "pensavo che nulla avrebbe potuto scalfire un uomo del genere."
"E invece è arrivato anche per lui il freddo bacio della morte."
L'uomo l'aveva guardata impietrito.
"Purtroppo, si intende." Si era affrettata a precisare lei, scuotendo il capo con sguardo addolorato, come a supporto delle proprie parole.

Così come aveva scelto di ignorare lo scambio con uno dei duchi che presiedevano il consiglio degli anziani: "Era veramente un grand'uomo, mancherà a tutti noi."
"Sapete..." Stella aveva piegato appena in su l'angolo della bocca "...a volte mi chiedo se desse il meglio di sé solo fuori di casa."

Anche Stolas non si era immischiato, principalmente per non turbare Via. Ma poi aveva captato la voce di Stella mentre conversava con un vecchio compagno d'armi del Marchese.

"Vostro padre mi mancherà tantissimo, ci conoscevamo fin dalla prima giovinezza, ci siamo anche sposati nello stesso anno."
"Ah sì? E vostra moglie come sta? È felice?"
"Veramente... lei... non è più tra noi."
"Oh beh, dovevate avere davvero molte cose in comune con mio padre."

"Amore mio." Aveva detto Stolas rivolto a sua figlia "Stai qui, per favore? Cinque minuti. Cerco di tranquillizzare la mamma e torno. Se qualcosa non va, vai dallo zio Andre. Cinque minuti e torno da te. Promesso." Via aveva annuito.

Stolas si era allora avvicinato a Stella con discrezione, sperando di non tradire un'urgenza nei movimenti o nella voce, l'aveva presa per un braccio e aveva detto, rivolto al suo interlocutore: "Vogliate scusarmi, la principessa è ancora molto turbata dagli ultimi eventi." E l'aveva trascinata con sé nel corridoio, fino ad una stanza più arretrata. Octavia li aveva seguiti.

"Stai esagerando, Stella. Non puoi comportarti così."

"Oh, e io che credevo che mio padre fosse morto, e invece no, ecco un padre nuovo di zecca!"

"Stai turbando Via. Non sei in te!"

"Sono perfettamente in me! Sono solo finalmente libera di dire in faccia a quella gente che non c'è bisogno che fingano ancora di non sapere quello che succedeva in casa mia!"

"Stella, te ne prego. Quando saremo soli potremo anche stappare lo champagne se è quello che desideri, ma davanti agli ospiti devi darti una calmata."

"E se non lo facessi, Stolas? Che vorresti fare? Picchiarmi?"

Stolas sentì una fitta al petto, e le rivolse uno sguardo sgomento e ferito.

"Come puoi anche solo pensare che ti farei mai una cosa del genere?" le disse, colmo di risentimento. Stella si sentì attanagliata dalla colpa.

"Mamma... papà..." Via se ne stava sulla porta e li guardava avendo la sensazione che le mancassero troppi pezzi e troppi anni per comprendere tutto quello che era accaduto, e che stava accadendo in quelle ore. Aveva la voce rotta e gli occhi lucidi come se stesse per piangere "...per favore, non litigate."

***

Senza il brusio della folla e il tintinnare dei bicchieri o di qualche posata il palazzo era avvolto da un soffocante silenzio, spezzato solo dal crepitio dei camini accesi, fuori non accennava a smettere di nevicare. La funzione era finita, gli ospiti se ne erano andati, e Stella desiderava soltanto tornarsene a casa, nella luce e nei colori chiari e ariosi del palazzo di Stolas. Sarebbe stato semplice: un portale, un passo in avanti, e avrebbe rivisto le sue stanze, avrebbe cenato insieme a Via, e le avrebbe raccontato una storia della buonanotte anche se ormai era troppo grande.

Lo aveva detto a Stolas, non così, ma qualcosa di più semplice come: "Ho bisogno di tornare a casa."

E poi aveva lasciato per un po' Stolas e Via da soli, nel grande androne vuoto, ed era andata a cercare Andrealphus.

"Come possono tenermi all'oscuro di cosa sia successo". Aveva mormorato Stolas, come se parlasse con sé stesso. "Mio padre ti ha praticamente tenuta prigioniera, ed io non sapevo nulla."

Via gli aveva preso le mani in una stretta delicata. "Papà, sto bene. Non è successo nulla... puoi stare tranquillo."

"Non dovresti essere tu a rassicurarmi." Aveva mormorato lui di rimando "Stai diventando una ragazzina straordinaria."

"Sto diventando grande! Anche se non sono sicura che mi piaccia."

Nemmeno io sono sicuro mi piaccia. Pensò il principe.

"Su questo non devi preoccuparti! Per me sarai sempre la mia piccolina." Le disse poi, strappandole un sorriso imbarazzato.

"Tesoro mio... Davvero non sai nulla di cosa sia successo l'altra sera?" aveva domandato Stolas d'un tratto.

"No, mi hanno tenuta in quella stanza fino a quando non mi hanno rimportato da mamma. Ma..."

Via esitò, guardò suo padre negli occhi con lo sguardo di chi soppesava una decisione.

"Ma?"

"Non so cosa sia successo, papà. Ma ho paura sia successo qualcosa di brutto. La mamma e lo zio sono strani... e se il nonno avesse fatto male alla mamma?"

Stolas sentì stringersi il petto, da quando era tornato lo stesso timore lo tormentava. E odiava che anche l'innocenza di Via fosse scalfita da quel pensiero. Non avrebbe voluto dire quello che aveva detto ma le parole gli uscirono senza pensarci

"Quale nonno?" domandò.

"Il papà della mamma. Ma io credo, che anche il re abbia fatto qualcosa.... Cioè, lo so che è il tuo papà ma..."

"Non ti preoccupare, tesoro."

"Ma credo che a farle del male sia stato più l'altro nonno..."

"Perché dici così?"

"Ti ricordi quando ero piccola? Mi ha dato uno schiaffo, e ha colpito la mamma quando mi aveva difesa. E ti ha fatto molto arrabbiare, e tu stavi per... stavi per..."

"Lo ricordo."

"Papà..." Via prese un ampio respiro "...io ho paura che il nonno abbia fatto male alla mamma, e lo zio Andre si sia davvero arrabbiato..."

Stolas rimase in silenzio, il cuore prese ad accelerargli nel petto e sentiva un dolore sordo sotto lo sterno. Via, vedendo che non diceva nulla, continuò.

"Lo so che lo zio Andre è buono. Ma anche tu sei buono, e quando il nonno mi ha fatto male quella volta..."

"Amore mio..." La voce di Stolas si incrinò leggermente "Tu sei una ragazzina sveglia e curiosa. La tua mente brilla come un milione di stelle. E voglio che tu sappia che con me potrai sempre parlare. Ogni volta che avrai dei dubbi e dei timori, potrai sempre rivolgerti a me o alla mamma. Però da oggi voglio che tu stia attenta. Non tutte le persone sono buone o vogliono il nostro bene, e potrebbero prendere le tue ipotesi come verità assolute."

Via aggrottò la fronte, poi annuì. Quella risposta fu per lei la conferma che i suoi sospetti erano fondati.

"Vorrei solo sapere cos'è successo alla mamma."

"Anche io, amore mio, anche io."

***

Andrealphus era nelle stanze della loro madre, in piedi davanti alla grande finestra, assorto a guardare la distesa di neve che copriva i giardini, i cancelli, e i campi oltre quelli; la neve arrivava fino alle colline dove, al limite con l'orizzonte, si scorgeva il sole illuminare finalmente distese verdeggianti. Era straniante, e sapeva che non avrebbe potuto controllarlo neppure se avesse voluto, eppure gli sembrava giusto.

"Andre..." Stella lo aveva cercato dappertutto, e quando lo aveva visto lì, in silenzio e raccolto in sé stesso, era stata colta dal timore di poterlo, in qualche modo, disturbare. Per questo motivo la sua voce si era fatta timida e lieve "Noi torniamo a casa. Vieni?"

"Oh. Pensavo avremmo avuto più tempo." Disse lui con una punta di malinconia nella voce. "Allora penso che dovrei farlo adesso."

Stella lo guardò senza capire, lo vide lasciare la camera ma non lo seguì. Sedette invece sul divanetto color ocra nel silenzio di quella stanza, e rimase in attesa. Quando suo fratello tornò teneva tra le mani un grosso tomo rilegato in pelle scarlatta. Sedette accanto a lei sul divanetto e glielo porse.

"Cos'è?" domandò lei.

"Uno dei Grimori della famiglia della mamma, facevano parte della sua dote, nostro padre non sapeva che farsene, così ci ho studiato io. È la nostra eredità. Magia elementale, controllo e generazione del fuoco, c'è tutto quello che devi imparare. Adesso è tuo."

"So a mala pena controllare la fiamma di una candela, perché me lo consegni adesso?"

"Così potrai continuare a studiare."

"Portiamolo a palazzo, me lo darai più in là, quando mi avrai insegnato di più."

Rivolse lo sguardo verso di lui smarrita, e trovò negli occhi di suo fratello solo dolore.

"Stella... io non torno a palazzo. Resterò qui. Farò mandare qualcuno a recuperare tutte le mie cose."

"Ma...Tu sei la mia famiglia!"

"La tua famiglia sono Stolas e Octavia. Io non... Non ho mai avuto un posto..."

"Non è il momento di infantili gelosie, il palazzo è casa tua. Non puoi lasciarmi da sola."

"Non saresti da sola."

"Ma tu lo saresti. E io non lo voglio."

"Per favore, non rendermelo più difficile."

"Verrai almeno a trovarmi?"

"Ti scriverò."

"Davvero, Andre? Non vuoi nemmeno più vedermi? Proprio ora? Adesso che siamo liberi di essere una vera famiglia senza di lui? Proprio ora che possiamo..."

Stella sentì l'animo riempirsi di collera, ma fu un fuoco fatuo che si mutò presto in un senso di triste impotenza. Una lacrima le percorse la guancia fino al mento e bagnò l'abito di seta.

"Ti prego, non sopporto più di vederti piangere a causa mia."

"Mi stai dicendo addio e vuoi anche che io la prenda bene."

"Questo non è un addio."

"È proprio quello che sembra però."

"Tu mi hai detto di aver bisogno di tempo."

"È così, ma..."

"Anche io ho bisogno di tempo."

Quando Stella lo lasciò solo, portando con sé il grimorio scarlatto, lui volse lo sguardo ancora alla finestra.

La neve protegge le radici dal gelo.

Si chiese se e quando, in quel luogo desolato, qualcosa di bello avrebbe potuto di nuovo fiorire.

Notes:

Con questo capitolo si chiude il penultimo arco narrativo, e dal prossimo c'è l'inizio della fine. Ok...detta così suona malissimo ahahaah

Insomma, inizierà l'ultimo arco. Non saranno pochissimi capitoli, ma dopo più di otto mesi mi sembra davvero strano vedere all'orizzonte una conclusione.

Intanto vi ringrazio per avermi letta, per aver avuto la pazienza di essere arrivati fin qui in questa "fanfiction-AU-quasi original" o qualsiasi cosa sia diventato questo racconto.

Se volete sapere quale brano ha suonato Stella al funerale, eccola qui: https://www.youtube.com/watch?v=ki9ySiWQNu8&t=1s
Si tratta dela sarabande della Suite n°2 in Re minore di Bach, nel link c'è l'intera Suite, la sarabande inizia al minuto 10:36.

Mi sono dilungata anche troppo, ci leggiamo nel prossimo capitolo!

Armilla Lunastorta.

Chapter 42: Quale pietra regge il ponte?

Summary:

Dopo la morte del nemico comune le cose iniziano ad andare storto tra i nostri giovani sposi

Chapter Text

Quale pietra regge il ponte?
 

"Non eri andata a chiamare tuo fratello?" quella era stata l'unica domanda che Stolas le aveva rivolto quando l'aveva vista tornare, dopo un tempo che era sembrato lunghissimo, con in mano un libro ben rilegato e senza Andrealphus ad accompagnarla.

"Non torna a palazzo." Stella aveva scosso la testa, il viso contratto in una smorfia di amarezza. "Ma non posso biasimarlo. Questo è il suo posto adesso, ha un ruolo e dei doveri."

Stolas aveva solo annuito e non aveva chiesto nient'altro, nemmeno che cosa fosse il tomo di pelle che stava riportando indietro con sé, temeva in cuor suo che lei gli negasse altre risposte, e non domandare significava evitare un'altra delusione.

Il palazzo li aveva accolti in un abbraccio di rassicurante normalità, e Stella aveva potuto fare tutto quello che aveva desiderato nei giorni che l'avevano tenuta lontana. Avevano cenato tutti insieme, di gusto, come se venissero da giorni di digiuno e, anche se non avevano parlato molto, quel momento conviviale era sembrato loro una benedizione.

Stella aveva raccontato a Via la storia della buonanotte, come non faceva da tempo, e Via aveva lasciato che lei lo facesse di buon grado: quella singola notte lontana da sua madre le aveva fatto desiderare più che mai che la sua voce la cullasse tra le trame del sonno.

E poi, quando Via si era addormentata, Stella aveva raggiunto Stolas nella loro camera da letto. Si era sfilata in tutta fretta l'abito scuro come se ogni istante che ci passava dentro avesse potuto consumarla. Stolas l'aveva guardata sfilarsi il corpetto, scoprirsi la schiena, lasciare scivolare il vestito sui fianchi, lasciare cadere la gonna alle caviglie e uscirne un passo alla volta; e non aveva potuto evitare di analizzare ogni centimetro della sua pelle, chiedendosi come fosse possibile che quella notte non le fosse davvero accaduto nulla, di come il suo corpo non portasse alcun segno che potesse lasciar trasparire l'ombra della menzogna. Quando Stella si era voltata, con addosso solo il collier e le mutandine di seta, lui non aveva ancora smesso di guardarla e lei non aveva capito, o aveva fatto finta di non capire, i motivi che si celavano dietro il suo sguardo.

"Che c'è?" aveva domandato, rivolgendogli un mezzo sorriso "Ti sono forse mancata?"

Stolas non aveva risposto, aveva solo ricambiato il sorriso. Era stato allora che lei, ancora mezza svestita, lo aveva raggiunto nel letto e gli aveva posato un bacio sulle labbra.

"Sono felice di essere a casa."

E poi si era abbandonata al profumo di lavanda delle lenzuola, e quello, altrettanto noto e rassicurante, del corpo di lui.

***

La prima ad accorgersi che qualcosa negli equilibri della famiglia era irrimediabilmente cambiato era stata Octavia.

I primi mesi dopo la morte di suo nonno erano stati intrisi di una bonaccia straniante, non c'erano stati giorni cattivi, il problema è che non c'erano stati neppure giorni buoni.

Quando sua madre aveva annunciato che lo zio Andrealphus si sarebbe trasferito al palazzo che gli spettava per nascita, Via aveva creduto che non sarebbe stato un grande problema: suo padre sapeva aprire portali, e così sua madre avrebbe potuto andare a trovare il fratello ogni volta che avesse voluto, o sarebbe venuto lui, magari alle solite colazioni della domenica. E poi, anche se il viaggio per il palazzo era lungo, si sarebbe potuto benissimo raggiungere anche senza ricorrere alla magia, e lì c'era la vecchia camera di sua madre, e se lei lo avesse desiderato avrebbe potuto restare lì un giorno o due.

Aveva preso da poco a chiedersi che cosa si provasse ad avere un fratello, e se la sua assenza potesse davvero turbare così tanto; a lei non era mai pesato essere l'unica figlia e non ci aveva mai davvero riflettuto, non prima che suo zio lasciasse la casa. E non prima che le sue aspettative riguardo alle frequenti visite al loro palazzo erano state disattese.

Andrealphus non si faceva vedere da più di tre mesi, e Stella non era mai andata a trovarlo per altrettanto tempo. Octavia era quasi certa che suo padre lo incontrasse in Assemblea, ma se questo accadeva non ne faceva parola con Stella, e lei non domandava niente. Sapeva anche che sua madre gli aveva scritto delle lettere, ma non era sicura che lui le avesse risposto, o che nel rispondergli avesse saputo dirle le cose giuste.

Nella sua mente si andava formando il pensiero che sua madre fosse triste. All'inizio l'aveva sfiorata l'idea che quell'infelicità fosse stata causata dalla morte del nonno, diceva a sé stessa che anche se non era una persona buona, come spesso le aveva ripetuto sua madre, si trattava pur sempre di perdere un padre; e si trovava a riflettere su come si sarebbe sentita se Stolas fosse morto, e ogni volta che ci pensava la invadeva una sensazione amara di angoscia. Ma ben presto aveva abbandonato l'idea che l'umore di sua madre fosse determinato dalla morte del Marchese; si era convinta sempre di più che avesse invece a che fare con l'allontanamento, in apparenza ingiustificato, di suo zio o, più genericamente, con qualsiasi cosa fosse successa, o le avessero fatto, la notte in cui Paimon l'aveva tenuta lontana da lei.

Questa sua tristezza Stella non lo dava subito vedere: le sorrideva come sempre quando la svegliava al mattino, aveva continuato a scrivere pagine e pagine sui quadernini rosa con un'espressione serena e concentrata sul viso, così come aveva continuato ad esercitarsi al violoncello. E aveva ripreso a vestire come vestiva sempre, abbandonando il nero già il mattino dopo che si erano svolti i funerali.

Ma Octavia lo sapeva che sua madre non era felice. Quando le sorrideva al mattino la bocca le si piegava all'insù, ma gli occhi non sembravano seguirne il movimento; i quadernini rosa, che prima abbandonava dappertutto, poché sapeva tacitamente che né Stolas, né lei, li avrebbero letti, ora li portava con sé sempre, e poi li nascondeva chissà dove lontano da tutti, come se contenessero segreti inconfessabili. A volte si chiudeva nella sala musica per ore, adducendo la scusa di doversi esercitare, ma presto Via non sentiva più alcun suono provenire dalla stanza; e dopo qualche volta che ciò si era ripetuto, quando Via aveva trovato il coraggio di avvicinarsi alla porta chiusa, aveva sentito, nel silenzio, solo quelli che sembravano singhiozzi sommessi e soffocati.

Suo padre sembrava invece quello di sempre. Certo, c'era stato un periodo, nelle settimane che avevano seguito quella notte, in cui gli era sembrato eccessivamente apprensivo, la metteva a letto anche se era ormai grande, e controllava che fosse in camera prima di andare a dormire a sua volta. Lo sapeva perché sentiva i passi lievi di suo padre avvicinarsi alla porta, e poi una lama di luce irrorava la sua stanza quanto bastava per guardarci all'interno, infine la porta veniva richiusa e i passi si allontanavano lievi com'erano venuti.

Quell'apprensione, all'inizio, si era riversata anche nei confronti di sua madre, ma presto era scemata in qualcosa di indefinito, che somigliava ad un controllo di routine, Stolas le chiedeva ogni giorno come si sentisse, e insisteva affinché finisse almeno il cibo che le avevano servito nel piatto. Ma presto i "come stai" si erano fatti più radi, forse perché Stella non dava mai una risposta che fosse diversa dal "Bene, non preoccuparti." Oppure "Non capisco perché tanta apprensione, mi vedi turbata? Sono forse pallida?", e presto aveva smesso anche di domandarle come mai non finisse il pranzo o la cena, o di insistere che mangiasse qualcosa di più che un paio di biscotti a colazione.

Per qualche tempo, comunque, le cose erano sembrate se non "come prima", perlomeno tranquille. Anche se Stella mangiava meno del solito, pian piano aveva ripreso a mangiare abbastanza da non risultare preoccupante. Facevano ancora colazione tutti insieme chiacchierando nella luce rossastra del giorno, suo padre raggiungeva ogni sera sua madre nella loro stanza, e mai dopo mezzanotte e, per quanto ne sapesse, non litigavano da quella volta al funerale del nonno.

La prima ad accorgersi che qualcosa negli equilibri della famiglia era irrimediabilmente cambiato era stata Octavia, e se prima era solo un timore vago e spaventoso, si era mutato ben presto in una realtà che non riusciva più ad ignorare.

Non poteva ignorare che il momento, fino ad allora sacro della colazione, non fosse più tanto sacro.
Succedeva sempre più spesso che, quando veniva svegliata da Stella e scendeva con lei al piano terra nella verandina chiusa, Stolas fosse già in piedi a sistemarsi addosso la toga e a far portare via la sua tazza da tè e il piattino della sua colazione e dicesse loro con il solito tono gentile: "Buongiorno, sono in ritardo." Poi le dava un bacio sulla fronte, e uno fugace sulla guancia a sua madre, e spariva oltre un portale violetto. Oppure che, quando si svegliava da sola, disturbata dalla luce che filtrava dalle tende, e scendeva al piano di sotto per la colazione, trovasse suo padre seduto da solo al tavolo che le diceva: "Buongiorno tesoro, fai colazione con me?" e se lei domandava dove fosse Stella, lui le rispondeva sempre qualcosa come: "Tua madre oggi era stanca e l'ho lasciata dormire."

Octavia aveva l'impressione che per Stella non sarebbe stato un gran sacrificio svegliarsi mezz'ora prima, e che Stolas avrebbe potuto allentare quell'improvvisa ansia da puntualità che lo portava a presentarsi in Accademia ogni mattina mezz'ora in anticipo. Due mezz'ore facevano un'ora, l'ora della colazione, l'ora in cui stavano insieme, parlavano, in cui raccontava dei suoi progressi con la magia, o di come immaginasse il suo ingresso in Accademia, o dell'erbario che ormai era quasi pieno e raccoglieva più di cinquanta specie di piante, o di mille altre cose sciocche e cose importanti. Un'ora in cui si sorrideva, un'ora preziosa di cui avevano deciso di derubarla per qualche motivo che non era riuscita a spiegarsi.

Una cosa che non aveva notato subito, e su cui ancora nutriva qualche sospetto, era invece il fatto che i suoi genitori avevano smesso di dormire insieme. In realtà quella definizione non era del tutto esatta, condividevano ancora la camera solo che, se andava bene, la condividevano soltanto per qualche ora al mattino. Suo padre aveva ripreso la vecchia abitudine di trascorrere le notti a leggere nel salottino da tè. Via sapeva che era sveglio perché vedeva filtrare la luce da sotto la porta chiusa, e perché a volte lo sentiva percorrere il corridoio verso l'ala del palazzo in cui c'era la biblioteca. Ricordava un periodo lontano, prima dei suoi cinque anni, in cui questo comportamento di suo padre era prassi. Ricordava anche che in quegli anni i suoi genitori litigavano spesso, e uno dei motivi aveva vagamente a che fare con questa cattiva abitudine.

Quello che Via non sapeva e non poteva immaginare era che, quando Stolas passava le notti nel salotto da tè, e Stella passava le lunghe ore della notte da sola, sua madre era oppressa da una malinconia tale da sfociare nel risentimento; e quando alle prima luci dell'alba lui tornava nella loro camera da letto, non di rado Stella si alzava senza parlare, percorreva il cammino verso le sue stanze, e aspettava lì, intenta a leggere un romanzo o a sonnecchiare nel letto vuoto avvolta in una coperta, le poche ore che la separavano da quella che considerava un' ora consona per svegliare sua figlia.

E che tutte le volte che Stolas le aveva detto "Tua madre era stanca, l'ho lasciata dormire." Si riferiva al fatto che l'aveva sorpresa addormentata nelle sue stanze e non aveva avuto il coraggio di svegliarla in quel letto che non era il loro letto, ma solo il letto di lei, per non dover ammettere in qualche misura, che qualcosa tra loro era cambiato. Poteva ancora fingere di essersi svegliato con lei accanto nel letto, così come lei poteva ancora fingere di aver passato la notte con lui.

I suoi genitori non avevano mai parlato apertamente di quella situazione e, dal momento che non litigavano, Via non riusciva neppure ad avere un appiglio per chiedere che cosa stesse succedendo. E poi aveva la sensazione che le loro questioni non la riguardassero, nei suoi confronti avevano continuato a comportarsi come sempre, ma tra di loro le cose erano diverse.

Anche questo aveva a che fare con quella notte, ne aveva la certezza, ma non ne comprendeva fino in fondo i motivi. Il "cattivo" era morto, sconfitto probabilmente da un "cavaliere" che nella sua immaginazione aveva il volto di suo zio. Ora non c'erano pericoli, e i due "innamorati" finalmente liberi e riuniti, avrebbero dovuto vivere sereni e in armonia il resto dei loro giorni. Ma allora, perché non era successo? Che cosa, in quello schema che somigliava tanto a quello delle sue fiabe di bambina, era andato storto?

Anche se adesso era diventata grande, aveva ereditato da Stolas un'indole da sognatrice, e non le andava giù che le cose non andassero quasi mai come nei racconti d'invenzione. D'altronde i presupposti c'erano tutti, le era sembrato che i suoi genitori provassero l'uno per l'altra un affetto sincero, ed era certa che la amassero profondamente. Non si sbagliava su nessuna delle due cose. Ma c'erano molte cose che i suoi dodici anni, "quasi tredici", le impedivano di vedere.

Una domenica, nel corso della tarda mattinata, quando era corsa in giardino con un romanzo sotto il braccio intenzionata a godersi i primi raggi della primavera, Octavia si era trovata di fronte una mezza dozzina di donne altolocate che chiacchieravano amabilmente sedute attorno a due tavolini in ferro battuto, imbanditi di tè, pasticcini, succhi e frutta fresca. Stella era in mezzo a loro, pettinata e benvestita come se fosse ad un gala, sorrideva e le ascoltava mascherando tra piccoli sorsi di tè noia o insoddisfazione, ogni tanto rideva a qualche battuta, o raccontava un aneddoto, o le pregava di metterla al corrente di qualche pettegolezzo, poiché non partecipava agli eventi di società da più di sei mesi.

"Mamma... chi sono queste persone?"

Così era venuta a sapere che si trattava di vecchie amiche di sua madre "dei tempi del collegio", calcolò che, dato che lei non ne aveva memoria, Stella non vedesse quella gente da prima che lei nascesse, o da subito dopo.

Da quella domenica, questo incontro aveva iniziato a ripetersi a settimane alterne, per poi trasformarsi in un evento settimanale. Avrebbe dovuto essere felice che sua madre avesse delle amiche, ma la presenza di quelle donne la turbava, come se avessero appena ottenuto un posto in prima fila su quello che accadeva nella vita della sua famiglia. E poi aveva l'impressione che sei di loro non fossero un rimpiazzo sufficiente all'assenza di Andrealphus. Con loro sua madre era annoiata e spenta e non si arrabbiava mai, tendeva a riempire il tempo di parole vuote e di sorrisi di circostanza. Nelle domeniche che Stella passava con suo fratello l'aveva vista arrabbiarsi, battibeccare, ma l'aveva vista anche ridere di gusto. Octavia decise che avere un fratello doveva essere una cosa bella, e che doveva somigliare molto alle poche amicizie sincere che era riuscita a costruirsi negli anni ai banchetti o alle lezioni di scherma che dagli undici anni aveva preso a frequentare. Decise anche che, se non sapevano farla ridere, quelle donne non erano davvero amiche di sua madre.

Se sua madre si circondava di chiunque, pur di non soffocare sotto il peso della solitudine, suo padre aveva iniziato ad isolarsi sempre più spesso. Quella, al contrario dello sciame di nobildonne che invadevano la casa nel fine settimana, non era una novità: quando Via era bambina ricordava le lunghe ore che Stolas passava da solo nell'osservatorio, nel silenzio e nel buio delle prime ore della sera, a scrutare il cielo notturno, ad appuntare con una grafia minuta coordinate indecifrabili. Oppure lo ricordava seduto, in silenzio, a guardare il cielo senza alcuna intenzione di studiarlo davvero. O le lunghe giornate trascorse nella serra senza dire una parola, intento a travasare le piante diventate ormai troppo grandi, o a potare il roseto. Ma nei suoi ricordi quelli non erano giorni felici, perché se con lei suo padre era dolce e attento, premuroso e presente, nei momenti del suo raccoglimento, tendeva a sparire dalla vita di sua madre. E ricordava che di questo, quand'era bambina, Stella ne aveva sofferto, e temeva potesse soffrirne ancora.

Ma intanto Stella sembrava non prestarvi attenzione, lei aveva la sua schiera di dame di corte e di pasticcini, e quando era sola aveva i quaderni e il violoncello. E Stolas aveva la serra, e l'osservatorio, e la biblioteca, e fuori lo aspettavano ogni mattina l'Accademia o l'Assemblea, e nemmeno lui sembrava curarsi di lei.

Due mondi a sé avevano preso ad abitare la casa, Via ne ignorava il motivo e credeva che neppure i suoi genitori avrebbero saputo dirglielo. Aveva solo la straniante sensazione che lei fosse l'unico ponte rimasto tra due lembi di terra che si stavano, inesorabilmente, allontanando. Poteva solo sperare che il ponte fosse abbastanza lungo e che i piloni reggessero ai colpi.

Chapter 43: Crepe da cedimento

Summary:

Le divergenze tra Stella e Stolas iniziano ad allontanarli davvero. Octavia ne paga le conseguenze.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Crepe da cedimento

 

Quando la bonaccia aveva ceduto il passo alla tempesta sia Stella che Stolas sembravano essere stati presi alla sprovvista, l'unica che non ne era sembrata sorpresa era stata Octavia. All'inizio si era addirittura sentita sollevata dal fatto che, al posto di ignorarsi reciprocamente, i suoi avessero iniziato a litigare. Le dava l'impressione che almeno l'uno vedesse di nuovo l'altra, e sperava che ogni litigio potesse portare ad una riappacificazione, e che la pace potesse avvicinarli di nuovo.

Forse quel pensiero le serviva a rassicurare sé stessa quando li sentiva discutere dietro una porta chiusa, quando sentiva qualcosa andare in frantumi e la voce di suo padre dire in tono accondiscendente:

"Ti prego Stella, non siamo più ragazzini, possiamo discutere anche senza rompere le cose."

Ma forse non la rassicurava abbastanza da zittire l'eco della voce sprezzante di sua madre che rispondeva.

"Se tu avessi imparato a prestarmi attenzione anche senza il bisogno che io rompa qualcosa, magari riuscirei a darti ragione."

Ora, mentre si allontanava il più possibile dalle stanze, sempre diverse (e agli orari, sempre diversi) in cui si svolgevano i litigi dei suoi genitori, anche Octavia iniziava a sentire la mancanza di Andrealphus. Aveva la sensazione che la sua presenza fosse riuscita, in tutti quegli anni, a mitigare gli scontri tra di loro, e che la sua assenza ne avesse inasprito le divergenze fino a impedire una riconciliazione che durasse più di qualche giorno.

Octavia non poteva saperlo ma suo zio aveva avuto per sua madre il ruolo di consigliere, ma anche di amico, sfogo, rifugio. A porte chiuse, nelle stanze azzurre di suo fratello, Stella, in quegli anni, aveva potuto piangere tutte le sue lacrime, esternare tutta la propria frustrazione, rompere e ricomprare all'infinito i vasi di porcellana che tanto piacevano ad Andrealphus. E aveva potuto ascoltare la voce calma di lui tranquillizzarla su questa o quella cosa che tanto la faceva soffrire. Aveva visto ridimensionare i castelli di problemi che gli vomitava addosso, perché lui era in grado di farglieli vedere da una prospettiva differente. E aveva potuto, quando le preoccupazioni sembravano impossibili da arginare, starsene semplicemente seduta accanto a lui. E lo aveva ascoltato con gli occhi chiusi, accasciata sul divanetto, mentre la rassicurava sul fatto che, anche nei momenti peggiori, avrebbe sempre trovato il suo appoggio dietro quella porta d'acero chiaro.

Andrealphus, d'altro canto, era stato per Stolas una presenza sottile e costante, si era intromesso il giusto, e solo per assicurarsi che l'arrendevolezza del principe non ne ostacolasse le qualità. Lo aveva tenuto d'occhio al suo esame di Guardiano, quando Stella si era convinta di essere riuscita a nascondergli le debolezze del marito; ma lui aveva capito e con discrezione lo aveva guidato a dare il meglio.

Aveva osservato, in silenzio, il modo in cui il rapporto con sua sorella era mutato negli anni, dai primi mesi di matrimonio alla nascita di Via fino all'innumerevole numero di giorni buoni che si erano susseguiti tra i dieci e i dodici anni di sua nipote, e quando aveva compreso che Stolas teneva a Stella allo stesso modo in cui ci teneva lui, contrariamente all'infantile gelosia che aveva manifestato con lei, aveva preso invece a rispettarlo di più, ed era stato per lui un gran sollievo constatare che sua sorella avesse accanto a sé un uomo buono, così tanto diverso da loro padre.

E poi, soprattutto da quando, dieci anni prima, aveva sostituito suo padre in Assemblea, Andrealphus era stato per Stolas la cosa più vicina ad un amico che entrambi avessero potuto conoscere nel corso della loro vita di adulti, anche se nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso. Perciò anche Stolas soffriva della sua assenza, solo che non ne era pienamente cosciente, sapeva solo che i saluti formali che nell'ultimo anno gli aveva rivolto in Assemblea gli apparivano ingiusti e stranianti e, quando tornava a casa, aveva l'impressione che non ci fosse più nessuno tra quelle mura a rivolgergli un commento saccente, una risposta piccata, o un suggerimento camuffato da pensiero ad alta voce, su come avrebbe dovuto sistemare le cose con la propria moglie.

Adesso le cose con Stella doveva sistemarle da solo. E si trattava di una Stella più triste e scostante di quanto non fosse mai stata nel corso dei loro tredici anni di matrimonio. Ma d'altronde, anche lui era un uomo diverso, gli sprazzi di malinconia erano tornati a tormentarlo, e a quella malinconia si affiancava sempre un'insoddisfazione latente che non trovava giovamento né tra le pagine dei libri, né nelle molte ore passate nella serra.

***

Una sera d'estate, a pochi mesi dai quattordici anni di Via, mentre era intenta a scegliersi con pacificata rassegnazione il romanzo che l'avrebbe accompagnata nell'ennesima alba solitaria, Stella notò sullo scrittoio di Stolas un pacchetto che aveva tutto l'aspetto della scatola in cui Paimon le aveva fatto recapitare gli abiti del lutto quasi due anni prima. Si diresse allora a passo incerto verso l'insolito oggetto. Aperto il coperchio, ci trovò all'interno una giacca da donna con il sigillo di Paimon ricamato sul bavero, e intarsi dorati che risaltavano sul nero del tessuto. Lì accanto stava un biglietto, nella solita carta pregiata, e col solito sigillo apposto in luogo di firma. Stella non pensò neppure per un istante che non avesse il diritto di leggerlo.

«Figlio mio,
Con questa missiva ti giunge un piccolo dono per mia nipote, la mia erede, per il suo ingresso in Accademia previsto per settembre. So che sei contrario che questa cosa si faccia, conosco le tue remore e i tuoi dubbi. Ma per quanto negli ultimi mesi tu mi abbia pregato di non farle intraprendere questo percorso, ritengo che non ci sia altro luogo a cui Octavia potrebbe appartenere.
Consegnale la giacca, assieme alla mia benedizione.

Confido nell'assennatezza di cui ti sei sempre fregiato.»

Rilesse più volte il biglietto, per essere certa di averne compreso il contenuto e poi si sentì invasa da una sensazione di tradimento senza precedenti: il cuore le batteva come se volesse sfondarle lo sterno, il sangue le affluiva alle tempie, e la rabbia le faceva tremare le dita.

"Che cosa significa questo?" entrò senza annunciarsi nella torre dell'osservatorio, dove Stolas aveva ripreso a trascorrere le notti più limpide, e sbatté sull'ampio tavolo di mogano il biglietto di carta pregiata. "Spiegamelo, Stolas."

Stolas sobbalzò, lasciò la postazione al telescopio e si avvicinò al tavolo, non ebbe bisogno di leggerlo per capire di cosa si trattasse.

"Dove lo hai trovato?" domandò.

"Sul tuo scrittoio." Disse lei "Ora dammi una dannata risposta."

"Frughi tra le mie cose adesso?"

"Se lasci le tue cose in bella vista, sì! Specialmente se riguardano il futuro di mia figlia."

"È anche mia."

"Quando ti conviene." Rispose lei "Tipo quando devi decidere, senza consultarmi, che non debba entrare in Accademia."

"Non ho ancora deciso niente." Si difese Stolas.

"Bene. Perché lei ci va. Ne parla di continuo." Fece Stella "Maledizione, Stolas. Non ne hai parlato con me, a lei lo hai almeno chiesto che cosa desidera?"

Stolas si rabbuiò di colpo.

"Allora?"

"No." Rispose lui in un filo di voce "Pensavo non fosse necessario prima di..."

"Prima di cosa, Stolas? Prima di decidere al posto suo? Oppure prima di scavalcarmi?"

"Mi stai attaccando e non mi lasci nemmeno spiegare!"

"Sei andato a parlare con tuo padre per convincerlo a non far entrare Octavia in Accademia?"

"Sì, ma..."

"E non solo una volta. Da come ne parla nel biglietto."

"Sì, l'ho fatto... ma devi capire..."

Stella aveva gli occhi sgranati e colmi di risentimento, tremava di rabbia, il senso di tradimento la invadeva e le offuscava i pensieri.

"Non vuoi che impari ad usare la magia come si deve? Vuoi che diventi solo una brava donnina, buona solo per fare da arredamento per la casa?"

Stolas si sentì ardere di offesa per quell'accusa, allentò il colletto della camicia con due dita nel tentativo di prendere fiato, e mantenere il più possibile una parvenza di calma.

"Mio padre non vuole che lei diventi una studiosa..." spiegò "...non la lascerà tra i libri polverosi e le pergamene. Lui vuole un soldato. Entrare in accademia è il primo passo per farla finire nel suo esercito."

"È di questo che si tratta? E dimmi, Stolas, cos'è peggio? Vederla sfornare figli per un uomo scelto da tuo padre o vederla indossare una ridicola divisa nella remota possibilità che scoppi un'altra guerra?"

"In ognuno dei due casi apparterrà comunque a mio padre più di quanto non appartenga a me o a te, e allora tanto vale tenerla al sicuro." Il principe pronunciò quelle parole con il tono di una massima antica.

"Essere relegata tra quattro mura non è essere al sicuro. Essere al sicuro è avere i mezzi per affrontare le situazioni, Stolas. E l'Accademia glieli darà."

"Glieli darà e poi la butteranno in un campo di battaglia e ce la rimanderanno a casa morta."

"Oh, sì che morirà! Morirà di noia!" fece Stella roteando gli occhi "Nel caso non te le fossi accorto, viviamo in tempi di pace."

"Vuoi solo riscattarti attraverso di lei." Stolas non lo disse in tono di accusa, ma come chi mostra un dato di fatto. "Vuoi che lei diventi quello che avresti voluto essere."

In tutta risposta Stella scoppio in una risata amara. "Riscattarmi attraverso di lei? Io non ho possibilità di riscatto." Rispose sprezzante "Cerco solo di evitarle un destino infelice, cerco di darle delle alternative. Credi che non mi importi del benessere di mia figlia? E perché pensi che la voglia in Accademia? Per non destinarla aprire le gambe per uno sconosciuto come è toccato fare a me."

Lo disse senza pensarci, e se ne pentì subito. Stolas pensò che forse, se lei lo avesse schiaffeggiato, gli avrebbe fatto meno male e il colpo sarebbe arrivato meno inaspettato, rispetto alle parole che le aveva appena sentito pronunciare.

"Come puoi dire una cosa del genere dopo tutti questi anni?" ora lui si era fatto rosso sulle guance e sul collo, come se al livore si sommasse la vergogna "Sono evidentemente uno stupido, se pensavo avessimo superato la cosa."

Il risentimento di lui non fece che amplificare in lei la sensazione di essere andata troppo oltre.

"Sai che non è quello che volevo dire." Si affrettò a giustificarsi. "Sai che non ti faccio una colpa per il passato, sai bene che non ti faccio una colpa per come sono andate le cose la prima volta." Se solo tu mi avessi sentita, Stols, al cospetto di tuo padre. Il pensiero la attraversò e un sapore amaro le riempì la bocca "Lo sai che tutti questi anni sono stati..." avrebbe voluto dire 'belli' ma le sembrava così sbagliato durante quella discussione.

"...belli." Completò Stolas. "Sono stati belli. Così come gli ultimi due non lo sono stati."

Non era una tregua. Il fuoco del litigio non era spento. Ma forse avevano avuto il bisogno di dirsi che in tutto quello che si sarebbero sputati addosso le menzogne si mescolavano con la verità, e che non tutte le verità avevano lo stesso peso. Se era vero che Stella aveva aperto le gambe per uno sconosciuto, era anche vero che quello sconosciuto non aveva voluto ferirla allora e non voleva ferirla adesso che sconosciuto non lo era più. Era vero che lei non gli portava più rancore per le infelici premesse del loro matrimonio, ma era anche vero che non voleva che sua figlia provasse mai l'opprimente sensazione della loro prima notte.

Stella sapeva anche che Stolas, a suo modo, aveva ragione. Che fare di Octavia un soldato piuttosto che una moglie sarebbe stata, in fondo, la stessa cosa. Ma Stella sapeva anche che non mandare Octavia in Accademia avrebbe voluto dire che Paimon, il giorno dopo il suo quattordicesimo compleanno, avrebbe fatto recapitare una lista di candidati, e loro avrebbero solo potuto spuntare le caselle dei prescelti.

Entrare in Accademia significava invece avere circa quattro anni di tempo prima che la seconda fase della vita di Via, quella per cui Stolas era tanto preoccupato, avesse inizio. E in quattro anni avrebbe padroneggiato la magia egregiamente. Sarebbe cresciuta. Sarebbe diventata forte. E le carte in tavola sarebbero potute mutare. Quattro anni erano un tempo più lungo di qualche mese, e a lei bastava sapere che il tempo era dalla sua parte.

Stella si accasciò su una delle panche di legno dell'osservatorio, tra le carte astrali arrotolate e incomprensibili coordinate scritte a mano, si stropicciò gli occhi con due dita e fece un ampio sospiro.

"Non sopporto che tu me lo abbia tenuto nascosto."

"Cercavo solo di ottenere un accordo migliore con mio padre." Rispose Stolas "E, sinceramente, sapevo che l'avresti presa male."

"Beh? L'ho presa solo peggio, dato che l'ho scoperto da una stupida lettera allegata ad un ridicolo regalo di pessimo gusto."

"Sono anni che a stento mi parli, Stella. Come avrei potuto iniziare un discorso simile a cuor leggero?"

"Sei tu che hai smesso di parlarmi." Disse lei "A un certo punto interagire con te è diventato un dannato monologo."

"Solo perché ad ogni domanda che ti facevo ottenevo il silenzio, oppure una risposta generica."

"Forse avresti dovuto semplicemente smetterla di fare domande, allora."

"L'ho fatto."

"E quindi questo silenzio è stato dovuto al fatto che avevi solo domande da fare e nient'altro di meglio da dire? Beh, questa volta era proprio il caso di dire: Sai Stella, sono preoccupato per nostra figlia, vorrei rideterminare i termini dell'accordo con mio padre. Forse dovrei parlargli. O dovremmo parlargli insieme."

"Tu non saresti mai venuta a parlare con mio padre."

"Lo disprezzo. Oserei dire che lo odio. Ma per Octavia lo avrei fatto. Tu non hai idea di quello che ho fatto per la mia bambina. Tu non puoi nemmeno immaginare che cosa sono stata disposta a sopportare per mia figlia. E se ora le togli l'Accademia è stato tutto inutile."

"Ah. Quindi finalmente ne parleremo? Beh, meglio tardi che mai, immagino."

Stella sgranò gli occhi di esasperazione.

"Di cosa Stolas, di che diavolo vuoi parlare?"

"Della notte in cui è morto tuo padre."

"Non esiste."

"Sei tu che hai ritirato fuori l'argomento. Io ho smesso di fare domande solo perché me lo hai chiesto. Ma non è giusto. Andrealphus si è esiliato, perché è questo che ha fatto, e anche un idiota lo avrebbe capito. E tu lo piangi come se fosse morto, ogni giorno, chiusa nella sala musica. È stata Octavia ad accorgersene, è stata lei a dirmelo. Ed io continuo ad essere tenuto all'oscuro di tutto."

Ora Stolas camminava nervosamente di fronte a lei, riversando in un fiume di parole tutti i pensieri che non aveva avuto il coraggio di manifestarle prima di allora.

"Al mio fianco ho ormai una donna che non mi dice più nulla, ma che si perde in chiacchiere frivole in compagnia di donne ancora più frivole. Una donna che quando pensa che nessuno le presti attenzione, piange in segreto. Ma io devo far finta che tutto vada bene, che non sia successo nulla e devo limitarmi a stare al mio posto. E ovviamente non posso far domande per tenere fede ad una promessa fatta una notte di due anni fa. Notte dalla quale non riesco più a riconoscerti."

"Ancora con questa storia, Stolas? Ogni scusa è buona per riprendere questo dannato discorso. Ci tieni davvero così tanto a torturarmi su cosa è successo quella notte? Saranno passati due anni, ma la situazione non è cambiata. Non posso parlartene."

"Non puoi o non vuoi, Stella? Perché è diverso!"

"Maledizione Stolas, non posso!"

Lui vide gli occhi di lei riempirsi di lacrime.

"Io ti guardo e non ti riconosco. È passato così tanto tempo che stento a ricordarmi com'eri."

"Com'ero Stolas? Non ti sei mai premurato di darmi quel tipo di attenzioni per sapere com'ero o come sono adesso."

"Di certo eri più felice"

Lei rise, una risata amara, e una lacrima le rigò la guancia.

"Felice? Forse lo ero. Perché forse ti importava un po' più di me."

"Mi importa ancora di te."

"No Stolas. Non ti importa più di me. Forse, neanche prima. Non nel modo giusto. Quell'equilibrio che avevamo creato è andato distrutto con la morte di mio padre. E con esso, è andata via anche la premura che avevi per me."

Stolas trasalì, la guardò senza capire.

"La morte di tuo padre ci ha liberati da un'ombra che portava solo disperazione e paura."

"La sua morte ci ha liberato dal mostro che minacciava la nostra famiglia. Il mostro da cui il principe ci voleva difendere. Mi voleva difendere."

"Ovvio che volevo difenderti, cosa avrei dovuto fare?"

"Tu hai fatto tutto giusto, finché ero in pericolo hai continuato a tenermi in considerazione. Ora che sono al sicuro hai perso ogni interesse per me."

"Oh Satana, con che parole devo dirtelo che mi importa ancora di te?"

"Non sono le parole Stols, sono i fatti. E io non ne vedo. Vedo un uomo che ha paura di venire a dormire con me perché lo spaventa che io sia stata per una volta fragile, e che si nasconde dietro un dito presentandosi in camera all'alba assolvendo sé stesso con la scusa dell'insonnia."

"Sono davvero insonne."

"No, non lo sei. Queste scuse non me le bevevo dieci anni fa e non me le bevo adesso. Ti ho trovato addormentato sul divano del salottino, in biblioteca, persino qui dentro! Dappertutto, tranne nel nostro dannatissimo letto!"

"Io non... tu avresti potuto..." Stolas avrebbe voluto dire qualcosa, ma non seppe come controbattere.

"Stiamo divagando Stolas." Riprese lei "Il punto è che a te importa di me solo fino a quando c'è un problema che puoi risolvere."

"Questo non è assolutamente vero."

"Dici questo, ma anche in questo caso ne hai approfittato solo per potermi chiedere di nuovo di quella notte. Per nutrire il tuo bisogno di dramma. Hai detto che sai che piango da sola, ma non mi hai chiesto perché. Ti sei dato da solo la risposta che fosse per Andrealphus, e te la sei fatta bastare."

Stolas restò senza parole.

"Tu vuoi un problema. Qualcosa da risolvere." Sentenziò lei "Ma non ti interessa di me, o di come sono ora. O di come sono mai stata."

Fu come se un pugnale invisibile lo avesse colpito al petto, e avesse aperto una ferita profonda. Ma con il dolore, iniziò a montare nell'animo di Stolas anche un'inusuale rabbia.

"Continui ad accusarmi di non essermi mai interessato. Che questo ti ha ferita. Che non ho saputo gestire la tua fragilità. Ma tu non credi di aver fatto lo stesso? Anche tu, dopo anni in cui non hai mai provato a parlarmi veramente di nulla, sei venuta da me solo per litigare. Solo per accusarmi di qualcosa."

Stella lo guardò stizzita, si alzò nuovamente dalla panca e gli si piantò davanti.

"Non sono venuta ad accusarti. Sono venuta a parlare di Via."

"No. Hai usato Octavia come scusa per attaccarmi. Volevi litigare, è qualcosa che hai sempre fatto. Se non avessi trovato il biglietto avresti trovato un altro motivo per venire a buttarmi addosso tutta la tua frustrazione, per usarmi come capro espiatorio della tua infelicità."

Stella sentì lo stomaco chiudersi in una morsa, e le lacrime ripresero a scorrere senza controllo.

"Ora sei ingiusto, Stolas."

"Un uomo ingiusto per una donna crudele."

"Forse sei tu a rendermi così."

"C'è una sola cosa in questa vita di cui tu non mi dia la colpa?"

"Del futuro di Via, se farai la scelta giusta."

"Dannazione, Stella!"

Ora Stolas aveva alzato davvero la voce. Lei era indietreggiata di tre passi.

"Andrà in Accademia, d'accordo? Sei contenta? Le metteremo addosso la ridicola giacca di mio padre e la spingeremo oltre i cancelli come un bravo soldatino. E adesso sono stanco. Ho solo domande e tu non vuoi sentirle. Quindi non abbiamo più niente di cui parlare."

"Non decidi tu quando finisce una discussione."

"Perché mai? Tu hai deciso quando iniziarla, e non mi hai chiesto il permesso."

Quella sera Stella si diresse direttamente verso le sue stanze, richiuse la porta dietro di sé e si infilò nel letto vuoto. E poi pianse, per la prima volta dopo anni, per un motivo che non c'entrava con suo padre, con Andrealphus o con quella notte. Il giorno dopo non si alzò prima di mezzogiorno.

Quella sera, Stolas, non si avvicinò nemmeno alla loro camera da letto, rimase nell'osservatorio seduto sul pavimento, accasciato con la schiena contro la panca di legno. Non pianse, ma non riuscì a scacciare il dolore sordo al petto. All'alba aveva già indossato la toga e si era presentato, in anticipo di più di un'ora, in Accademia.

Octavia, quel mattino, fece colazione da sola. La verandina coperta, colma di fiori e irrorata di luce, non le era mai sembrata così desolata.

Notes:

Avete presente quella brutta sensazione di assistere ad un litigio in cui hanno torto entrambe le parti e allo stesso tempo entrambe le parti hanno le loro ragioni e l'unica cosa che pensate è:

"Ma dannatissimi stupidi perché diavolo state litigando?!?"

Ma certo che ce l'avete presente!

Dunque...se avete consigli su come far ragionare i miei personaggi sono ben accetti, ma temo che ormai si siano impossessati del libero arbitrio e si stiano auto-sabotando. Io me ne lavo le mani. Colpa loro. Hanno voluto la libertà e ne pagano le conseguenze!

Deliri sui personaggi a parte, vi avevo avvertito delle tempeste, spero vi siate muniti di ombrelli, impermeabili e un posto sicuro in cui ripararvi.

Nel dubbio io ripasserei anche le linee guida su come comportarsi in caso di terremoto. Non si sa mai.

Sempre grazie di leggermi,

Armilla Lunastorta

Chapter 44: Disfunzione magico-emotiva

Summary:

Octavia prova a rimettere insieme i pezzi della famiglia

Chapter Text

Disfunzione magico-emotiva
 

Una domenica di fine estate le nobildonne non si presentarono, o forse Stella non le aveva invitate, Via non avrebbe saputo dirlo; sua madre era elegante come al solito, stava seduta ad uno dei tavolini di ferro battuto, imbandito di tutto punto, ma Via non era certa si trattasse di una premura per gli ospiti o di un capriccio per sé.

Stella sedeva assorta, seguiva con lo sguardo questa o quella farfalla muoversi tra le siepi del giardino: il quadernino rosa abbandonato e rigorosamente chiuso sul tavolino tondo, un romanzo lasciato a metà posto a faccia in giù sulle sue ginocchia. Forse non aspettava davvero nessuno.

"Buongiorno mamma." Via le sorrise, poi trascinò una delle sedioline accanto a quella di sua madre e sedette di fianco a lei.

"Buongiorno piccola mia."

Via fece un sorriso canzonatorio e rispose "Non sono più tanto piccola!" Si allungò sulla sedia e le stampò un bacio sulla guancia "In privato puoi continuare a chiamarmi così, ma magari non farlo in pubblico."

A Stella scappò una risata. "Potevi somigliarmi un po' meno." Affermò.

"Ma se sono tutta papà!"

"D'aspetto sei tutta tuo padre, ma la sfacciataggine l'hai presa da me."

"Potevo prendere da te anche le tette."

"Via!" Stella arrossì di colpo e spalancò la bocca.

Via scoppiò a ridere di gusto. "Dai mamma, scherzavo! E comunque, per quelle c'è tempo."

"Decisamente la sfacciataggine l'hai presa da me." Confermò Stella ridendo a sua volta. "Hai fatto colazione?" domandò poi.

"Non ancora." Mentì Via.

"Allora scegli quello che più ti piace, stamattina ho fatto preparare di tutto."

"Per le tue amiche?"

"Sì."

"Quindi... arriveranno tra poco?"

"No. Mi è passata la voglia di vederle. Ho mandato un messo a disdire."

"Perché?"

"Credevo di voler stare un po' per conto mio." Le rispose Stella "Ma stare con te è una prospettiva migliore."

"Magari più tardi puoi... farmi sentire qualcosa al violoncello." Via si versò un bicchiere di succo e scelse accuratamente una treccina alle noci e sciroppo d'acero. "Oppure possiamo stare qui insieme e basta, e chiacchierare." Diede un morso alla treccina di sfoglia "O puoi raccontarmi di cosa parla il libro che stai leggendo..."

Un sorriso affiorò sulle labbra di Stella, sentì il petto stringersi e un calore dolce invaderle il cuore. Octavia bevve un sorso del suo succo e poi continuò imperterrita l'elenco delle possibili cose da fare.

"...o magari puoi aiutarmi a ripassare qualche incantesimo." Completò.

Sua madre le rivolse uno sguardo sorpreso. "Ma, tesoro mio, tu sei mille volte più avanti di me con quelle cose!"

"Allora posso aiutarti io." Si propose Via. "È da un po' che... che studi da sola."

Stella pensò che avrebbe potuto piangere tutte le sue lacrime in quel momento. Comprese che Via non era capitata lì per caso, e che probabilmente aveva pure già fatto colazione visto che la treccina, che di solito divorava in tre bocconi, giaceva abbandonata sul piattino con un piccolo pezzo mancante dove l'aveva morsa poco prima.

"Credo che in due rischieremmo davvero di mandare in cenere il palazzo."

"Ma io adesso so gestire benissimo il fuoco."

"Io per nulla però!" rispose Stella, poi le sorrise di gratitudine.

"Mamma..." Via le prese la mano e la strinse nella sua "... posso chiederti una cosa?"

"Tutto quello che vuoi amore mio."

"Mi prometti che non cambierai discorso? O che non ti arrabbierai?"

Stella aggrottò la fronte e rimase un momento in silenzio. "Sì." Disse infine "Promesso."

"Ti manca lo zio Andre?"

Stella sussultò, e gli occhi le si velarono davvero di una patina lucida.

"Sì." Mormorò. "Mi manca molto."

"Perché non vai a trovarlo allora?"

"Tuo zio preferisce così."

"Avete litigato?"

Via sentì la mano di sua madre contrarsi leggermente nella sua.

"Non esattamente. I rapporti quando si è più grandi diventano...complicati."

"Non vuole vederti?"

"Credo di no, tesoro mio."

"E tu vorresti? Vederlo, intendo."

"Sì."

"Lui lo sa?"

"Sì amore, lo sa."

"Non pensavo lo zio Andre fosse tanto stupido." Mormorò Via scuotendo il capo, e suonò come un pensiero ad alta voce, poi vide sua madre passarsi il doso della mano sotto gli occhi.

Via le strinse più forte la mano e la guardò smarrita: "Volevo davvero stare un po' con te oggi." Disse in un filo di voce "E non... non volevo farti piangere."

"Non sei stata tu a farmi piangere, tu mi porti solo gioia." Sua madre le rivolse il suo miglior sorriso, e questa volta anche gli occhi, seppur ancora lucidi, si strizzarono seguendo la curva della bocca. Non c'era nessun segno di simulazione. "Anche io ho voglia di stare con te. Musica, magia, possiamo fare quello che vuoi..." continuò Stella "Oppure ti faccio provare qualcuno dei miei corpetti, di quelli che ti fanno un signor décolleté!"

"Mamma!" questa volta fu Via ad arrossire.

"Che c'è?" sua madre le diede un lieve pizzicotto sulla guancia "Hai iniziato tu!"

***

Octavia entrò in Accademia alla fine dell'estate, che non aveva ancora compiuto quattordici anni. Stolas le aveva consegnato, solo per scrupolo di coscienza, la giacca "dono di Paimon", e lei l'aveva teatralmente data alle fiamme.

"Non voglio niente dal nonno." Aveva affermato "La prossima volta che lo vedi, diglielo."

Stella aveva tentato di mascherare un'espressione di soddisfazione, mentre Stolas aveva spalancato la bocca colto da una leggera sensazione di disagio.

"Magari in Accademia non... non dare fuoco alle cose, a meno che il corso non lo richieda." Le aveva raccomandato suo padre, colmo di apprensione. "E non... non parlare così di tuo nonno in pubblico. Lo sai che..."

"... non tutte le persone sono buone o vogliono il nostro bene. Lo so, papà, non ti preoccupare. E poi tanto sarai in giro tutto il tempo, anche se non seguo i tuoi corsi, sono sicura che troverai il modo di parlarmi trenta volte al giorno." Nel tono della voce di Via non c'era nessuna sfumatura di lamentela, traspariva invece divertimento e trepidazione.

Dunque, Via iniziò l'Accademia e, tolto l'iniziale smarrimento per la quantità di ragazzi con cui interagire, abituata com'era ai piccoli gruppi delle lezioni di scherma, o ai tre o quattro coetanei ai banchetti, il primo mese era stato per lei una piacevole novità nella sua vita.

Non aveva ancora stretto amicizia e, in verità, si era tenuta volontariamente un po' al di fuori di qualsiasi dinamica nascesse tra gli altri ragazzi; aveva notato il leggero sospetto con cui veniva guardata, non tanto per essere la figlia di Stolas, quanto per essere la nipote di Paimon.

Tuttavia, era comunque riuscita presto a farsi benvolere, era una ragazzina pacata ma la sua pacatezza non era segno di debolezza, bensì di una gentilezza naturale, che non cozzava in nessun modo con la sicurezza in sé stessa che dimostrava se le circostanze lo richiedevano.

Alla metà di ottobre, al termine delle lezioni, accadde che, prima di rientrare a casa, dovesse aspettare Stolas concludere una conferenza. Si sarebbe trattato di un'attesa di più di un'ora, e lei non si era portata niente da leggere. Certo, avrebbe potuto entrare e seguire la conferenza, ma suo padre, lo sapeva a sue spese, sapeva essere estremamente soporifero quando entrava nei dettagli delle cose che lo appassionavano.

Vagò per un po' nei corridoi vuoti e poi si diresse, senza una vera ragione, verso la biblioteca.

La biblioteca dell'Accademia, che aveva immaginato brulicare di maghi togati e studenti di ogni sorta, a quell'ora era vuota. E appariva più austera e polverosa di quanto non fosse il resto degli ambienti; la luce filtrava da ampie vetrate che si estendevano in altezza e separavano fitti muri di libri che arrivavano fino al soffitto. I libri più in alto erano raggiungibili da una doppia fila di ballatoi in legno lucidato ad arte, un'accortezza che cozzava con la polvere che, inevitabilmente, continuava a posarsi sui libri e che riempiva l'aria. Al centro della sala c'erano cinque enormi tavoli in legno, altrettanto lucidi, e altrettanto vuoti come la biblioteca stessa. Solo uno di questi aveva sopra alcuni tomi temporaneamente abbandonati da qualcuno, con mille segnalibri in sezioni diverse, e un plico di fogli sparsi su cui stava appuntato qualcosa in una grafia nervosa e poco chiara. Via sorrise nel vedere che si trattava di libri di magia elementale.

Aprì il con curiosità il tomo che stava in cima alla pila, all'altezza del primo segnalibro, e si trovò di fronte la sezione dedicata a qualcosa che aveva il suggestivo nome di:

«Disfunzione magico-emotiva.»

"Vi chiedo per favore di non fare confusione con i segnalibri..." Una voce fioca e seria alle sue spalle la fece sussultare. "...ho impiegato molto tempo a mettere ordine alle mie ricerche."

Via non si voltò subito, si prese il tempo di decodificare la voce, perché era certa che quella fosse una voce che conosceva, ed era altrettanto certa di sapere a chi appartenesse. E, anche se fino a quel momento non lo sapeva, realizzò di essere molto arrabbiata con il proprietario di quella voce.

"Mi dai del voi adesso, zio Andre?"

Quando si voltò si trovò davanti un Andrealphus più vecchio di come lo ricordasse, o forse il suo volto rifletteva, più che un precoce invecchiamento, il peso della stanchezza e della solitudine. Aveva ancora l'abitudine di vestire elegante, ma di un'eleganza meno sgargiante di come la ricordasse. La voce era sempre la stessa, ma sembrava aver perso quasi del tutto quel sottotono adulatorio che l'aveva tanto caratterizzata. Si trovò inoltre davanti ad un uomo che aveva dipinta sul viso la stessa espressione di chi avesse appena visto un fantasma.

"Via..."

Octavia ora stava dritta di fronte a lui e lo guardava con una scintilla di sottile collera negli occhi.

"Li hai scritti tu questi appunti?" domandò Via, la voce era dura, le parole ben scandite.

Andrealphus le rivolse uno sguardo confuso, ma decise che rispondere era l'unico modo per capire perché, dopo tutto quel tempo, quella fosse la prima domanda che gli aveva rivolto.

"Si, li ho scritti io." Confermò.

"Allora, se sai ancora scrivere, perché non hai risposto alle lettere della mamma?"

Andrealphus sgranò gli occhi e la sua bocca si piegò in un'espressione di sorpresa e di dolore come se gli fosse appena arrivata una sassata. Sentì il cuore accelerare ed ebbe l'impressione di poter percepire il proprio respiro farsi spezzato.

"Sarebbe un discorso troppo complesso per una ragazzina." Affermò laconico.

"Non sono più una ragazzina. Nei due anni in cui non ti sei fatto vedere sono cresciuta. E anche tanto, visto che non mi avevi nemmeno riconosciuta." Ora Via aveva le braccia incrociate sul petto e gli rivolgeva uno sguardo che trasudava disapprovazione.

Se la situazione non fosse stata quella situazione, e se la persona coinvolta non fosse stato lui stesso, Andrealphus avrebbe provato un certo divertimento nell'osservare una quattordicenne fare una ramanzina ad un uomo di quasi quarant'anni. Ma, dato che quell'uomo era lui, e che la quattordicenne era sua nipote, la situazione non gli sembrava per niente divertente, e percepiva solo una sensazione di disagio e panico penetrargli nelle ossa.

Si avvicinò al tavolino e raggruppò i libri, lentamente, come se un movimento brusco potesse farlo azzannare dalla belva in abitino che gli stava di fronte. Poi prese tra le braccia il blocco di libri e fece per allontanarsi.

"Ora purtroppo sono in ritardo e non ho tempo, Octavia, avremo modo di..."

L'ultima cosa che percepì fu un movimento fulmineo del braccio di Via che colpiva a palmo aperto i suoi libri, l'istante dopo erano sparsi, assieme agli appunti, sul pavimento.

"Ma che...Via!"

"Oh, scusa zio Andre, non volevo farli cadere." Il tono fintamente costernato tradiva una soddisfazione sottile "Ti aiuto a raccoglierli. Nel frattempo, possiamo parlare."

Si vede proprio che è figlia di mia sorella. Pensò Andrealphus, e un piccolo sorriso gli affiorò sulle labbra. Via ora teneva in mano tre dei cinque libri che suo zio avrebbe dovuto portare con sé, decise che sarebbero stati il suo ostaggio. Prese a camminare avanti e indietro.

"Allora, zio Andre?"

"Sono cose tra me e tua madre, non è carino intromettersi."

"Sono cose tra voi se ne parlate. Se no sono cose tra mia mamma e mia mamma, se lei continua a scriverti e tu non ti degni di risponderle."

Andrealphus si fece rosso in viso, era decisamente ridicolo e imbarazzante farsi trattare così da una ragazzina, lei non avrebbe dovuto rivolgersi così a lui, era una mancanza di rispetto! Un'inversione paradossale di ruoli! Eppure, non riusciva ad arrabbiarsi, riusciva solo a sentirsi un completo idiota.

"Non sono cose di cui si parla per lettera." Disse ancora lui, stizzito.

"Ottimo" fece Via, un angolo della bocca le si piegò all'insù "Allora immagino che dovrai proprio presentarti di persona. Al mio compleanno, magari. L'anno scorso non sei venuto. Ma faremo finta che l'invito sia andato perso nella posta, insieme a tutte le lettere della mamma. Quest'anno l'invito ti arriverà lo stesso, ma già che ci sono ti sto invitando io. Adesso. Te lo ricordi ancora che giorno è il mio compleanno?"

"Sì, me lo ricordo." Mormorò "Ma non saprei nemmeno cosa regal..."

"Non mi importa dei regali." Lo interruppe lei "Voglio solo che vieni. E che parli con la mamma."

Lei ora lo guardava con gli occhi violetti, fieri e seri, come quelli di Stella e lui si chiese se fosse giusto che un'adolescente potesse farlo sentire così vulnerabile e debole.

"Verrò." Disse infine. "Ora puoi... ridarmi quei libri? Per favore?"

Via glieli porse e lui li impilò nuovamente e li avvolse con le braccia stringendoseli al petto.

"Allora ci vediamo alla mia festa." Disse lei, ora il suo sguardo era più dolce.

Andrealphus annuì. "Via...?" disse poi in un filo di voce.

"Sì?"

"Io voglio bene a tua madre."

"Lo so zio Andre. Anche la mamma te ne vuole...e te ne voglio anch'io."

Chapter 45: Il tempo di una fiaba

Summary:

Via compie 14 anni, e vecchie conoscenze tornano, finalmente, a casa!

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Il tempo di una fiaba

 

Mancava più di un'ora all'inizio del ricevimento, la sala era allestita, i tavoli imbanditi. Il quartetto d'archi stava accordando gli strumenti. Via era già pronta, adorava il suo compleanno, non tanto per i regali e le attenzioni: i primi li gradiva il giusto, le seconde erano in grado di metterla a disagio.

Le piaceva piuttosto l'aria di allegria che si era sempre respirata, era sì un ricevimento, ma i suoi genitori erano sempre riusciti a tenerlo scevro dall'aura di formalità che aleggiava sulle feste a cui partecipavano di solito. E siccome era un ricevimento del principe, per la principessina, nessuno aveva mai avuto da obiettare. E siccome era un ricevimento in cui si potevano allentare i lacci dell'etichetta, tutti sembravano divertirsi davvero, sia gli adulti, sia quelli che un tempo erano bambini, e ora ragazzi come lei.

Octavia aveva indossato un abito indaco, lucido e semplice che scivolava morbido sulla sua figura esile e slanciata, e si era fatta acconciare i capelli corvini in una treccia raccolta. Poi, aveva raggiunto sua madre nelle sue stanze.

"Mi sono distratta un secondo e la mia bambina è una donna." La voce di Stella era dolce, e intrisa di malcelata nostalgia.

"Niente lacrime mamma, è una festa!"

"Lo so tesoro. Io sono solo felice e..." Stella aveva percorso con lo sguardo i lineamenti del viso di Via, e le palpebre leggermente sfumate di viola, e le guance rosate, e il collo adornato da filo d'oro rosa che culminava in una piccola ametista ovale "...oh, perché non indossi gli orecchini? Ne avrai almeno mille!"

"Lo sai che mi danno fastidio, si impigliano dappertutto, non capisco perché si ostinino a regalarmeli." Aveva risposto Via facendo spallucce.

Stella aveva riso, e le aveva sistemato una ciocca ribelle dietro l'orecchio: "D'altronde sei già bellissima, possiamo farne a meno."

"Principessa Stella..."

Una domestica in evidente imbarazzo era comparsa sulla soglia.

"...alla porta c'è... c'è vostro... vostro fratello."

Stella si sentì la testa ovattata per un momento. Sul viso di Via comparve l'ombra di un sorriso.

"Ne siete sicura? Che aspetto ha?"

"Principessa, con tutto il rispetto, sono certa si tratti del Marchese Andrealphus. So riconoscere vostro fratello, ha vissuto qui per più di dieci anni."

"Sì. Giusto."

"Devo farlo entrare?"

La voce della domestica le arrivava lontana e deformata come se avesse la testa sott'acqua, e Stella sentiva il cuore stringersi nel petto.

"Sì..." rispose "...fatelo entrare e..." guardò Via come a cercare conforto nello smarrimento, sua figlia le sorrise e fece un cenno di assenso col capo, come ad incoraggiarla. "...e mandatelo pure qui da me."

Andrealphus entrò a passi lenti e incerti nelle stanze di Stella, lei stava in piedi, immobile di fianco al divanetto, stordita e confusa da quell'arrivo improvviso e insperato. Fu Via ad andargli incontro per prima e a rivolgergli un sorriso sincero.

"Ciao zio Andre."

"Ciao piccola. Buon compleanno."

"Sono contenta che hai accettato l'invito." Rispose Via "Ora vado a finire di prepararmi. Ci vediamo più tardi alla festa." E senza dire altro imboccò la porta e uscì dalla stanza.

Così restarono soli, e Stella si avvicinò di qualche passo, lo scrutò meticolosamente come se temesse di trovarsi di fronte ad un miraggio, un inganno della mente che confonde il reale con l'immaginario. Quando i loro occhi si incontrarono entrambi furono sollevati nello scoprire che guardarsi non costava loro più fatica e dolore; la morsa che Stella sentiva nel petto si sciolse, ma fiumi di parole le turbinavano in testa senza trovare una forma compiuta.

"Sei molto magro, mangi abbastanza?" domandò allora. Forse non era la frase migliore per iniziare, ma era la prima che era riuscita a pescare nel disordine della sua mente.

"Ho... saltato qualche dolce della domenica." Rispose Andrealphus con il volto leggermente arrossato d'imbarazzo.

"Non ti sei perso niente, non sono più buoni com'erano prima." Disse Stella, sforzandosi di mantenere un tono di capriccio, gli occhi le si velarono di una patina lucida. "Immagino dipenda dalla compagnia." Aggiunse, rivolgendogli un sorriso.

"Stella, io..."

Andrealphus non riuscì a completare la frase che Stella gli volò tra le braccia e lo strinse forte a sé.

"Sta' zitto." Singhiozzò. "Parliamo dopo." Lo abbracciò più forte, quasi temesse potesse svanire, e tra le braccia lo sentì davvero spigoloso e magro come gli era apparso. Aveva creduto che se mai lo avesse rivisto lo avrebbe accolto con un ceffone e con un rimprovero, con tutta la rabbia e il risentimento che credeva di aver covato negli anni. Ma ora che lui si era presentato davvero l'unica cosa che si era trovata a desiderare era stato l'abbraccio di suo fratello, e l'unica cosa che sperava con tutta sé stessa era che non sparisse mai più dalla sua vita.

Lui ricambiò l'abbraccio in una stretta delicata, e tra le braccia di Stella ebbe la sensazione di riuscire a respirare di nuovo, e che il tempo, fino ad allora fermo e dilatato come in un incubo, riprendesse a scorrere. Si ritrovò a sorridere nel modo più sincero, ed era passato così tanto tempo che il gesto gli risultò innaturale. Sentiva il cuore di lei rimbombarle nel petto come in una cassa armonica, e i singhiozzi soffocati nelle pieghe della sua camicia.

"Mi sei mancata." Sussurrò.

"Mi sei mancato anche tu." Lei sciolse l'abbraccio e si passò il dorso di una mano sotto gli occhi. "Due anni. Maledetto idiota!" Lo colpì sul braccio con uno schiaffetto, un gesto di dispetto senza vera volontà di ferire. "Dannazione... dimmi perché!"

Aveva la fronte aggrottata e gli occhi ancora lucidi, un'espressione dolceamara le velava il viso.

"Io... non ti ho mentito. Avevo davvero bisogno di tempo. L'idea di vederti, di parlarti, anche solo di scriverti una lettera mi distruggeva. Credevo che se fosse passato abbastanza tempo il rimorso e la colpa che provavo per quello che ti avevo fatto si sarebbero affievoliti; ma la colpa mangiava il mio animo un morso alla volta e più passava il tempo, più mi convincevo che fosse troppo tardi per poter, semplicemente, tornare.

Mi convincevo che forse, la cosa migliore era veramente lasciarti finalmente da sola, in modo non ferirti mai più. Perché avevo paura che tornando, sarei stato per te solamente un altro dei mostri che ti avrebbe rovinato la vita. Sono uno stupido, ti ho ferita col silenzio. Continuo a sbagliare, ma non voglio sbagliare più.

Credevo che la solitudine mi avrebbe portato alla pazzia. Così ho provato a rispondere ad alcune delle tue lettere. Ma ogni cosa che scrivevo mi risultava stupida o insensata, vuota o inutile. Non trovavo le parole per giustificare un'assenza così lunga. E più tempo passava, più le parole giuste sembravano non arrivare. Così ho scritto centinaia di lettere, e le ho stracciate tutte. Non ho mai avuto il coraggio di spedirne nessuna.

Sono arrivato a sperare con tutto me stesso che un segno dall'universo mi chiamasse di nuovo a te, perché da solo non ci riuscivo, non avevo il coraggio di tornare, non ne avevo la forza..."

La voce di lui tremava, le parole erano spezzate, ma mentre parlava non smise mai di guardarla negli occhi, non distolse lo sguardo, non provò a sfuggirle.

"...il segno è arrivato, alla fine. Nelle vesti di una quattordicenne che mi ha rovesciato per terra i libri e fatto una bella ramanzina."

Stella lo guardò confusa per un istante. "Octavia?" domandò.

"Già. Ti somiglia tanto, lo sai? Ha un bel caratterino."

"Lo so." Il viso di Stella si colorò di un leggero rossore. "È diventata grande. Ti sei perso tante cose."

Poi sedettero sul divanetto e parlarsi divenne semplice. Si raccontarono cos'era accaduto negli anni che avevano passato lontani, Andrealphus le disse che il ruolo in Assemblea non era molto diverso da quello che ricopriva quando non aveva ancora ereditato il titolo, le disse anche di aver rimesso a nuovo il palazzo e che ora tutto era dei colori tenui dell'azzurro polvere e del pervinca, delle stesse sfumature che aveva scelto lei due anni prima.

Le disse che le stanze della loro madre non erano state toccate, c'era ancora il divanetto ocra, e le tacche delle loro altezze incise sul lato dell'armadio, e la sedia a dondolo davanti alla grande finestra. Le disse di aver ritrovato in un baule le altre bambole, e un quaderno di bozzetti a matita coi progetti di quelle che non era riuscita a finire.

Le disse che nevicava ancora sulla casa, e da tempo cercava un rimedio per riprendere il controllo della magia, una parte dei campi del marchesato era inutilizzabile, ma per fortuna la neve aveva una gittata circoscritta.

Le raccontò che non aveva preso parte ai banchetti per paura di incontrarla, che le sue apparizioni in società si limitavano alle questioni politiche. Le disse anche che aveva intrapreso un paio di relazioni che si erano rivelate un fuoco di paglia.

E Stella gli raccontò della straniante bonaccia dei giorni uguali, dei pianti in segreto nella sala musica, gli raccontò dei silenzi tra lei e Stolas, delle colazioni mancate e delle donne frivole e sciocche che aveva preso ad invitare a palazzo. Gli raccontò delle notti passate da sola e gli raccontò dei loro litigi. Gli confessò di aver pensato spesso che stavano andando troppo oltre e che si stavano facendo solo del male, e gli confessò anche che non credeva che nascondere la verità su quella notte avrebbe incrinato così tanto il rapporto con Stolas.

"Dovresti dirglielo." Sentenziò Andrealphus. "Non puoi mandare all'aria il tuo matrimonio per me."

"Non è solo per te." Confessò Stella "Io... ogni volta che ci ripenso provo vergogna. Lo so che è irrazionale, ma non riesco a..."

"Sono io che mi vergono. Tu non hai niente di cui vergognarti."

Stella rimase un momento in silenzio, poi gli accarezzò una guancia.

"Lo sai? Io non lo avevo capito subito... ma ti avevo già perdonato quella stessa notte. Prima ancora di aver saputo cos'era successo a nostro padre. Ti ho perdonato quando mi hai messa a letto e mi hai rimboccato le coperte e mi hai parlato di quando eravamo bambini."

"Credevo non fossi...sveglia."

"Ho sentito tutto, anche le mille volte che mi hai chiesto perdono."

"Oh."

"C'è un'altra cosa che non ti ho detto allora." Continuò lei "Quando sono rimasta da sola e Paimon mi ha guarita... mi ha fatto intendere che dovevo stare zitta con Stolas, per la tua incolumità. Ma io so che non era preoccupato che Stolas ti potesse fare del male. So solo che se io dovessi parlare sarebbe il sovrano a fartene, o a farne a me, o a Via, o forse a Stolas se gli venisse la malsana idea di affrontarlo."

"Non è giusto che tu..."

"Non importa Andre, te lo dicevo solo per farti capire che se non ne ho mai parlato a Stolas non è solo per te. Non addossarti colpe che non hai. In questo momento io sono solo felice che tu sia qui. Per due anni mi sono sentita come se mi mancasse un pezzo e io me ne andassi per il mondo incompleta. E ora sono intera."

Andrealphus la guardava senza parlare, con il cuore in gola e mille emozioni che gli turbinavano dentro. Gli sembrava così strano sentire di nuovo la voce di lei, sederle accanto, vedere i suoi occhi emergere dalle ciglia, riconoscerne le emozioni dal modo in cui aggrottava la fronte, o piegava le labbra.

"Dovrò ricordarmi di ringraziare Via per questo." Completò Stella "Lo sai? È stata lei ad accorgersi che soffrivo della tua assenza, è diventata una ragazza sensibile e attenta. Non so davvero come dal disastro che siamo io e Stolas sia venuta fuori così bene..." poi prese a raccontargli dei progressi di Via con la magia e con la scherma, e dell'entusiasmo delle prime settimane di Accademia.

"E tu?" si azzardò a domandare Andrealphus "Il grimorio ti è...stato utile?"

Stella lo aggiornò sui propri progressi, disse fieramente di aver continuato a studiare da sola, e di aver imparato a controllare le fiamme, e di saperle anche generare, seppur flebilmente. Gli confessò che saper usare la propria magia le dava un brivido di soddisfazione, ma che aveva avuto spesso nostalgia di quel tempo in cui non sapeva fare quasi nulla, ma non doveva imparare a farlo da sola.

"Se lo vuoi ancora, posso tornare ad essere il tuo maestro." Si propose Andrealphus timidamente.

Stella accettò con una gioia infantile nel cuore. E gli fece giurare che non sarebbe sparito mai più. Che sarebbe andato a trovarla spesso, e si propose di andarlo a trovare a sua volta. Si fece promettere che non sarebbe mancato neppure ad una colazione della domenica, d'altronde, gli disse, doveva mangiare decisamente di più!

"Lo giuro!" Andrealphus rispose con una solennità scherzosa che la fece sorridere.

"Dillo sul serio però!" insistette lei.

Lui le prese le mani tra le sue "Te lo prometto." Disse serio "Non voglio sbagliare più. Non dicevo per dire prima. Non sparirò, sarò presente. Voglio vedere mia nipote crescere, voglio vedere te realizzarti. Il tempo è una cosa preziosa e quello perduto non si può recuperare, ora l'ho capito. Voglio usarlo al meglio da oggi in poi, non voglio sprecarlo più. Io ti voglio bene, Stella. Tutto l'affetto che provo per te non è cambiato in questi anni, se possibile è diventato più forte. Ed è qualcosa che nulla al mondo può scalfire; non c'è nulla che non farei per te, e questa volta voglio farlo nel modo giusto."

E così quella sera, anche se era il compleanno di Via, Stella ebbe l'impressione di essere stata lei, per intercessione di sua figlia, a ricevere il più grande dei regali.

***

Stolas non amava danzare, ma i compleanni di Via erano divenuti una felice eccezione. All'inizio, quand'era bambina, lo avevano fatto per gioco: aprivano le danze con Via sui piedi di Stolas in una goffa e buffa danza che trasudava tutto l'amore che il principe avesse per sua figlia. Col tempo, quando era cresciuta troppo per stargli sui piedi, avevano imparato a danzare in modo meno goffo, ma comunque intriso d'amore. E ora che Via era ormai grande, per Stolas era come accompagnare nella danza una vera e propria dama, con la differenza che con Via non si sentiva a disagio, e non badava di essere al centro della sala con tutti gli occhi puntati addosso. Tutta la sua attenzione era rivolta solo a sua figlia, che danzava con lui nel suo abito indaco, e anche se era cresciuta e si era fatta alta e slanciata, anche se adesso aveva le gote truccate di rosa e il rossetto picchiettato sulle labbra, ai suoi occhi sarebbe stata sempre la sua bambina.

Quella sera aveva danzato anche con Stella, perché lo imponeva l'etichetta, ma anche perché quello era l'unico momento che fosse rimasto uguale al prima. Danzare con lei gli aveva sempre dato la rassicurante sensazione di poter smettere di pensare. Se era vero che nella danza è l'uomo a guidare, era anche vero che nel ballo, come nella vita, lei sapeva essere attenta e disciplinata se la situazione lo richiedeva; e, concedendogli di lasciarsi guidare, era comunque lei ad avere il controllo. In quel turbinio di passi cadenzati, con una mano sul fianco di lei e l'altra che gli sfiorava le dita, Stolas si chiese perché parlarsi non potesse essere semplice come danzare insieme.

"Stolas? Che pensi?" Sussurrò Stella, vedendolo assorto.

"Nulla." Disse lui "Via è si è fatta grande. Sono così fiero di com'è diventata."

"Già... Abbiamo fatto almeno una cosa giusta."

Stolas pensò che forse, di cose giuste, ne avevano fatte anche più di una, e forse sarebbe stato saggio dirglielo. Ma Stolas era un uomo intelligente, non un uomo saggio. Ci provò, comunque, a suo modo, mormorando: "Dopo questo ballo, danzi ancora con me?"

Andrealphus non aveva danzato, era stato in disparte, quasi volesse scomparire assorbito dalle pareti dipinte, o magari fagocitato dalle tende. Il suo rientro in società non era passato inosservato, e diversi invitati lo fissavano incuriositi come fosse un animale esotico, ma non osavano avvicinarsi per parlargli. Il primo a rivolgergli la parola era stato Stolas.

"Non mi aspettavo che venissi." Disse, porgendogli un bicchiere di champagne.

Andrealphus accettò il calice, e bevve un piccolo sorso. "Tua figlia sa essere molto convincente, nonostante i metodi poco convenzionali." Rispose poi.

"Oh." Stolas sembrò stupito, dunque Via non lo aveva raccontato a nessuno. "Hai visto Via prima di oggi?"

"È capitato per caso, in Accademia, mi ha rimproverato per essere scomparso, e mi ha invitato a tornare. Sono certo che se glielo chiedi sarà felice di raccontarti com'è andata la sua impresa." Andrealphus sorrise, ma un leggero imbarazzo gli arrossava le guance.

"Sono felice di rivederti in questa casa." Rispose Stolas. "E mi rammarico di non averti invitato io stesso a tornare. Sentivamo tutti la tua mancanza."

"Grazie Stolas." Andrealphus non si aspettava quelle parole, ma per una volta non sentì il bisogno di lanciare al cognato una frecciatina, o di rispondere in tono sarcastico.

"Sono certo che Stella ti ha già detto che le cose non vanno, e che ai suoi occhi non sono il migliore degli uomini."

"Stella me lo ha detto, che siete in rotta da un po'." Confermò Andrealphus "Ma non mi ha detto nulla di negativo sul tuo valore come uomo, anzi."

Stolas si fece pensoso. "Capisco." Mormorò infine, e fece per allontanarsi, ma quando si fu allontanato di qualche passo si fermò e si voltò di nuovo verso di lui. "Ah... Andrealphus..."

"Si?"

"Sarai sempre il benvenuto in questa casa. Vedi di farti vedere anche dopo oggi."

"Lo prendo come un ordine, Vostra Altezza." Rispose Andrealphus in tono scherzoso, e alzò il calice a mimare un brindisi.

***

Andrealphus aveva portato un dono per Via, ci aveva pensato tanto e ne era infinitamente orgoglioso; solo che quando era stato annunciato il momento dei regali, tra lo scintillio delle parure di diamanti, i cui orecchini Via non avrebbe indossato mai, e i fazzoletti di seta, e i fermagli di zaffiri, e mille altri doni più disparati e preziosi, lo aveva invaso una sensazione di imbarazzo e inadeguatezza.

Era la prima volta che sceglieva un regalo pensando a chi lo dovesse ricevere e non solo al valore di quest'ultimo, e anche se ci aveva messo tutta la cura del mondo, improvvisamente si trovava a vergognarsi del contenuto della scatola color ottanio che stava appoggiata insieme a tutte le altre. Domandò a Stella se potesse consegnare il regalo ad Octavia dopo la festa, e Stella lo accontentò di buon grado ordinando ad una delle domestiche di recuperare la scatola e portarla direttamente nelle stanze di Via.

Fu solo quando la festa finì, e gli invitati furono congedati, che rimasero soli, loro quattro come era capitato tante volte solo due anni prima. Via salì per prima le scale diretta nella sua stanza, e loro la seguirono per assistere all'apertura dell'ultimo regalo. Sul letto stava la scatola color ottanio tenuta chiusa da un nastro violetto, Via la prese tra le mani e sedette sul tappeto, poi rivolse lo sguardo verso i suoi genitori e verso suo zio, che stavano in piedi non sapendo cosa fare.

"Allora? Non vi sedete? Lo abbiamo fatto mille volte quando ero bambina."

E così, dopo molti anni, erano di nuovo lì, seduti sul grande tappeto rosa della camera di Octavia, l'unica cosa diversa era che, al posto di una bimba con un pigiama con le stelle, di fronte a loro sedeva una ragazza con addosso un abito indaco, e che loro non indossavano le vestaglie da camera ma i vestiti eleganti della festa di poco prima.

"Oh, aspetta!" Stella si alzò in piedi e corse fuori dalla stanza, rientrò con un piccolo muffin con sopra una candelina. "Ho sempre desiderato farlo." Aggiunse. "E ora posso." Poi generò una piccola fiamma sulla punta dell'indice e accese la candela. Andrealphus non poté che sorridere di orgoglio. E sorrise anche Via, prima di soffiare sulla candelina. Stolas pensò che avrebbe dato qualsiasi cosa perché un momento di serenità come quello durasse almeno un altro po'.

Poi Octavia sciolse il fiocco violetto e tolse il coperchio dalla scatola, dentro ci trovò un libro ben rilegato, la copertina era di seta lucida e portava sopra un ricamo di fiori variopinti. Quando lo aprì scoprì che si trattava di una raccolta di fiabe, e che conteneva tutte le storie che aveva amato tanto da bambina.

"È...è bellissimo." Gli occhi di Via brillarono di meraviglia. "Non credevo esistesse un libro che le raccogliesse tutte quante!"

Andrealphus arrossì. "Non esisteva, infatti. L'ho fatto fare apposta per te. Spero di non averne dimenticata nessuna."

"Nemmeno una." Disse Via "Hai una buona memoria." Sul viso le era comparso un enorme sorriso. "Avete sonno, per caso?" domandò poi rivolta ai suoi genitori.

"No, tesoro mio." disse Stolas.

"Nemmeno io." Intervenne Stella.

"E tu, zio Andre, hai un po' di tempo?"

"Io...immagino di sì." Balbettò lui, in preda ad un imbarazzo sottile.

Allora Via gli porse il libro di fiabe e lui la guardò confuso.

"Stasera leggi tu." Spiegò.

"Oh... ma io..."

"Niente ma, zio Andre, mi devi una fiaba da quattordici anni."

"Hai ragione." Rispose lui. "Devo rimediare."

Aprì il libro appoggiandolo sulle ginocchia e, rosso in volto e con una gioia inusuale nel cuore, iniziò a raccontare.

Notes:

E il figliol prodigo è tornato a casa! Non è figlio, ma fratello, ma fa lo stesso.

E voi? lo avreste accolto a braccia aperte come ha fatto alla fine Stella, o gli avreste tirato un ceffone come avrebbe tanto voluto fare? XD

Il compleanno di Via doveva essere un momento di serenità. La tempesta è ben lungi dal placarsi, ma una tregua sul tappeto della sua cameretta la meritavano tutti. A volte, per portare un po' di calore nel cuore, basta il tempo di una fiaba.

- Armilla Lunastorta

Chapter 46: Strofe e Antistrofe

Summary:

Per evitare di dare adito a false speranze vi ricordo che questo è un Alternative Universe, e questo sarà un capitolo profondamente divergente dal canone.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Strofe e Antistrofe

 

L'anno che era seguito al ritorno di Andrealphus era stato del tutto singolare. Tutto sembrava tornato uguale a prima; eppure, nulla era davvero al suo posto.

Stella aveva ripreso a trascorrere molte ore in compagnia di suo fratello e lui non aveva mancato mai una colazione della domenica, né una lezione di magia. E, anzi, ogni volta che gli impegni dell'Assemblea lo permettevano, tornava da sua sorella, nel palazzo di Stolas, a parlare con lei nelle stesse stanze azzurre che l'avevano accolto per molti anni. Da quando non viveva più lì, quelle stanze erano rimaste semivuote: sulla libreria d'acero chiaro non restavano che pochi libri e qualche prisma di cristallo, il tavolo da lavoro era stato rimosso ora che il modellino era stato spostato al suo palazzo, il nascondiglio degli alcolici era vuoto, e pochi liquori pregiati stavano invece in bella vista in una piccola cantinetta. E ad Andrealphus faceva sempre uno strano effetto sedere sul divanetto dello studiolo e trovarsi immerso in un luogo che un tempo aveva abitato e che adesso sembrava conservare di lui solo una traccia sbiadita.

Le cose tra Stolas e Stella non erano migliorate, avevano solo smesso di peggiorare, e questo era stato possibile perché il tempo che trascorrevano insieme aveva iniziato gradualmente a diminuire, e quando erano nella stessa stanza si trovavano quasi sempre in presenza di altri: talvolta c'era Via a mitigare, o Andrealphus, e così riuscivano a tenere in piedi un traballante equilibrio. Quando non c'era né l'una né l'altro, i rari momenti che trascorrevano da soli consistevano in lunghe ore nel salotto da tè o nella verandina coperta, immersi ognuno nel proprio romanzo; o in passeggiate di rito nei giardini o nella serra l'uno di fianco all'altra, in un silenzio quasi cerimonioso. Ormai da tempo avevano preso a temere le parole, perché parlarsi, quasi sempre, era scontrarsi; e avevano la sensazione che ogni scontro li logorasse un po' di più.

Se Stella trascorreva gran parte del tempo con suo fratello, Stolas, dal canto suo, aveva ripreso a presiedere a tutti quegli eventi minori a cui aveva preso parte da giovane, in quel tempo ormai lontano in cui aveva assunto da poco il ruolo di Guardiano delle Stelle.

Tra questi eventi, quello che gli era mancato di più, era stato prendere parte ai rituali per la Luna del Raccolto. Presiedere ai riti del raccolto, tuttavia, non era un'occupazione molto comune per un Guardiano delle Stelle. Questo disinteresse era dovuto probabilmente al fatto che non si trattava di doveri, come poteva essere la stesura delle carte astrali o la registrazione dei fenomeni astronomici inusuali. Non aveva a che fare con l'interpretazione del moto degli astri, né con l'enunciazione di una profezia. Il mondo rurale aveva ritmi dettati dalle fasi lunari, e a coloro che vivevano nelle campagne non serviva certo un mago togato per comprendere quale fosse il momento migliore per la semina, o per fare previsioni sull'abbondanza del raccolto.

A loro serviva uno stregone, uno sciamano, uno che conoscesse i gesti e le parole degli antichi riti per garantire un anno propizio. E da quando la magia era stata codificata dall'Accademia questo tipo di rituali erano stati catalogati sotto l'ingrata etichetta della superstizione.

Tuttavia Stolas, fin da ragazzo, aveva subìto un certo fascino per la superstizione, e questo era dovuto al fatto che sapeva esattamente che non di superstizione si trattava, ma di una magia meno visibile, ma dotata di altrettanta efficacia. Dopotutto, anche una profezia era una magia invisibile, di cui si vedono gli effetti solo quando le parole pronunciate si mutano in fatti. Così erano i riti del raccolto, cerchi magici e invocazioni agli astri come fossero entità senzienti. Poteva sembrare tutto barbaro e antico, eppure aveva una carica magica forte quanto qualsiasi incantesimo ufficialmente codificato dall'Accademia.

Per tutti questi motivi era uno dei pochi accademici che si prestava a guidare, se veniva invitato, questo tipo di rituali.

Presiedere alla Luna del Raccolto, tuttavia, avrebbe voluto dire stare lontano da casa una notte, e forse quello era l'unico particolare che aveva portato Stolas a procrastinare fino alla fine la scelta di accettare o meno l'invito.

Alla fine, dopo aver raccolto tutto il coraggio che aveva in corpo, si era recato nelle stanze di Stella.

"Possiamo parlare?" aveva domandato.

"Di cosa, Stols?"

"Ricordi che da ragazzo, a volte, ho presieduto ad alcune feste del raccolto?"

"Lo ricordo."

"Sono stato invitato, di nuovo. Ho rifiutato per diversi anni, all'inizio perché Via era piccola e con... con tuo padre in giro non volevo lasciarti da sola. E poi perché da quella notte con mio padre in giro ho iniziato ad avere davvero paura a lasciarvi da sole."

"Puoi andare, se lo vuoi. Saresti potuto andare anche le altre volte."

"Lo so. Ma non volevo farlo. Questa volta, però..."

"Stols. Siamo già abbastanza infelici, per favore non ti privare di qualcosa che desideri fare solo perché credi di dovermelo."

Stolas rimase un momento in silenzio, turbato dal modo in cui lei aveva posto la sua risposta.

"G-grazie." Balbettò infine.

Stella gli rivolse un sorriso stanco.

"Stols?"

"Sì?"

"Grazie di non avermi esclusa dalla decisione."

***

Così Stolas, dopo molti anni, accettò l'invito. Fu accolto da un piccolo gruppo di rappresentanza con tutti gli onori. Non quelli che si dovevano ad un principe, rigidi e guidati dall'etichetta; ma quelli, intrisi di meraviglia e ammirazione, che si dovevano ad uno stregone. E certo tale doveva apparire Stolas con indosso la lunga cappa nera che sembrava recare sopra, ricamato in filo d'oro, il firmamento intero e con in mano la pergamena delle invocazioni tenuta arrotolata dal nastro scarlatto.

Molta gente era accorsa alla Luna del Raccolto, non tanto per lui, che lì non era un Principe né un Guardiano, ma solo un mezzo per comunicare con il cielo, ma per la magia della festa: per i giochi, per la musica dei flauti e per ritmo incalzante delle percussioni, per i giocolieri improvvisati e l'aria conviviale che si respirava per tutta la notte.

Era stato approntato un anfiteatro di fieno che aveva ospitato i discorsi d'apertura e il rituale magico. Quest'ultimo consisteva in un'invocazione alla Luna, sempre la stessa da secoli, e accuratamente riportata sulla pergamena che Stolas aveva portato con sé, recitata in canto e controcanto dall'officiante-stregone e dalla folla seduta sugli spalti a semicerchio, e cadenzata dal rimbombo ritmico di un tamburo.

Lo Stolas-principe così come lo Stolas-uomo non amava stare al centro dell'attenzione, la politica e la conversazione non erano cose in cui riusciva ad essere pienamente a proprio agio, ma lo Stolas-mago, anzi stregone, in occasioni come quella si sentiva semplicemente parte di qualcosa di più grande e sapeva che il peso delle parole magiche, il risultato dell'incantesimo, era condiviso con ognuna delle persone che rispondevano con un'antistrofe a ciascuna delle sue strofe.

E così, negli ultimi versi pronunciati, accompagnati dal ritmo del tamburo, aveva sentito il cuore farsi leggero dopo molti anni e questo gli aveva invaso l'animo di serenità e di malinconia insieme.

All'invocazione sarebbero seguiti giochi e gare alla luce delle fiaccole per l'intera notte, così lui si era diretto verso il posto d'onore che gli era stato riservato in prima fila e si era seduto stringendosi nella cappa e lasciandosi ipnotizzare dalla melodia degli strumenti a fiato che iniziava a riempire l'aria.

"Vostra Altezza...?"

Un ragazzo, un uomo, che doveva avere più o meno la sua età gli si avvicinò fermandosi a qualche passo da lui. Aveva un'ampia porzione del viso, dalla fronte alla parte destra del collo, coperta da quella che sembrava una cicatrice da ustione, e gli stessi segni biancastri ricoprivano a chiazze le braccia e le mani. Sembrava vederci da entrambi gli occhi, e Stolas pensò che qualsiasi cosa gli fosse capitata doveva essere stato molto fortunato ad uscirne vivo e, per quanto possibile, illeso.

"Posso aiutarvi?" domandò Stolas. Qualcosa in quel ragazzo lo poneva in una soggezione sottile, e aveva la sensazione che non avesse a che fare con i segni dell'incidente che portava sul corpo.

Lo sconosciuto gli rivolse un sorriso tra il canzonatorio e l'incredulo.

"Non posso biasimarvi se non mi riconoscete." disse allora "Sono passati più di vent'anni."

Stolas lo scrutava cercando di cogliere la volontà dell'inganno, ma negli occhi dello sconosciuto c'era solo un divertimento sottile.

"Vent'anni fa non ero che un bambino." Rispose.

"Dunque, siete davvero voi. Abbiamo giocato insieme." Chiarì lo sconosciuto "Al tempo non ero che un bambino anch'io, siete venuto al circo di mio padre. Oh, ma è passato molto tempo, di certo non lo ricordate."

Il cuore di Stolas saltò un battito. Certo che lo ricordava. Ma ricordava anche un'altra cosa. Un giorno nefasto, un trafiletto sul giornale, un blackout momentaneo e un imperdonabile errore. Il bottone abbandonato nel cassetto. La fine di un'infanzia che si era trascinato solo nella memoria.

"Oh no, lo ricordo ma..." Le parole gli uscirono di bocca senza che ci pensasse davvero. "...credevo che foste morto."

L'uomo non parve sorprendersi di quella affermazione.

"A quanto pare non lo sono." Rispose invece, con un sorriso a mezza bocca. Poi, parve notare la reazione di ritrosia del principe e provò a farsi da parte "Ad ogni modo...Volevo solo salutarvi. Allora, arrivederci, Principe Stolas."

Stolas lo guardò voltarsi e iniziare ad addentrarsi nelle file più arretrate degli spalti.

"Aspettate! Signor... signor Buckzo!"

L'uomo si fermò e scoppiò in una sonora risata.

"Oh, vi prego, il signor Buckzo è mio padre."

"Come volete che vi chiami?"

"Come mi chiamavate da bambino. Blitz andrà bene."

"Bene, sì, Blitzo. Ricordo male o c'era una "o" alla fine?"

"C'era, ora è solo Blitz. È una lunga storia."

Stolas ci pensò un istante e poi disse.

"Se avete tempo mi... mi piacerebbe ascoltarla."

"Se è un ordine, Vostra Altezza, non posso rifiutarmi."

"Non è un ordine. È una richiesta di un vecchio amico."

Si allontanarono di qualche passo dall'anfiteatro di fieno, e sedettero sotto un grande albero di gelso. Con Stolas cerimonioso e rigido nella cappa da mago, e Blitz con la camicia di cotone con le maniche arrotolate a tre quarti sulle braccia. Chi li avesse visti da fuori avrebbe di certo trovato straniante l'accoppiata di uomini così diversi, per aspetto ed estrazione sociale, che parlavano a bassa voce alla luce rossastra delle fiaccole.

"Volete che cominci dal nome? O dalle mie cicatrici, visto che continuate a fissarle?"

Stolas si fece rosso in viso.

"Io non... non volevo assolutamente offendervi..." Balbettò. "È solo che..."

"Non vi preoccupate." Lo rassicurò l'uomo "Sono cosciente che siano la prima cosa che salta all'occhio. Hanno a che fare col fatto che mi credevate morto."

"Lasciatemi spiegare..." Provò a chiarire Stolas, in preda ancora a quel sottile imbarazzo "... anni fa ho letto una notizia su un incendio al vostro circo itinerante. Diceva che nessuno era sopravvissuto."

Non gli disse che lo aveva pianto, né quello che ne era seguito.

"Non dovete credere a tutto quello che leggete, principe." Il suo interlocutore abbassò gli occhi e contrasse le mani contro il tessuto del pantalone. "È vero che il circo di mio padre è bruciato. È stato un tragico incidente di cui vi risparmio i dettagli. Il fuoco si è preso molte vite, quella notte ho perso mia madre e il mio migliore amico." Esitò "Non so nemmeno perché ve lo sto dicendo."

"Voi non dovete parlarmi di cose tanto private se non... insomma, nemmeno mi conoscete..."

"Sono stato io ad avvicinarvi. E ormai da tempo ho imparato a raccontare quella storia senza soffrirne troppo. Ad ogni modo, è vero anche che lì non hanno trovato superstiti. Chi è stato preso dal fuoco è morto, chi vi è scampato è fuggito senza voltarsi. Io sono una strana eccezione. Il fuoco ha preso anche me, ma questo lo vedete. Il fumo mi è entrato nei polmoni, credevo che avrei perso i sensi e la mia vita sarebbe finita quella notte. Invece, in qualche modo, le gambe si sono mosse da sole e sono fuggito. Al mattino ero vivo, in un campo lontano chilometri dal tendone e completamente solo."

L'uomo aveva omesso molte cose su quella notte, e il principe non le avrebbe conosciute mai, ma aveva raccontato le cose importanti, e Stolas lo guardava come un ragazzino a cui stessero narrando una storia dell'orrore.

"Non riesco a immaginare come possiate esservi sentito."

"Come uno la cui intera esistenza sia appena andata in fumo."

"Mi sorprende riusciate a farci dell'ironia."

"Perché, voi non ci riuscite? A fare ironia delle disgrazie?"

Il principe si rabbuiò. "No. Immagino di no."

Rimasero senza parlare per un tempo indefinito, a guardare le ombre allungarsi alla luce delle fiaccole, ad ascoltare il brusio della folla poco distante, e la musica dei flauti e il ritmo delle percussioni invadere l'aria.

"E cosa avete fatto, dopo?" domandò Stolas rompendo il silenzio.

"Mi sono disperato." Blitz si sfregò la nuca, colto da un leggero imbarazzo "Ho pianto per giorni. Mi sono ubriacato fino a svenire e fatto molti errori. Mi sono autocommiserato per molto tempo. Ero giovane, avevo perso tutto. Immagino che siano tutte cose che vi suonano assurde."

"Oh no." Rispose Stolas. "Sapete, ho fatto molte delle cose che mi elencate per motivi molto meno rilevanti."

"Non dovreste andare in giro a raccontare la vostra fallibilità, principe Stolas." Lo ammonì l'uomo con una punta di sarcasmo nella voce. "Non potete sapere se chi avete accanto è un amico o un nemico."

Il principe fu al contempo turbato e divertito da quell'ammonimento. Turbato perché riconosceva che il suo interlocutore avesse ragione, e divertito perché si rendeva conto che non era riuscito a seguire per sé l'avvertimento che tante volte aveva ripetuto ad Octavia.

"Sono certo di non aver mal riposto la mia fiducia."

"E voi? Cosa avete fatto in questi anni?"

"Non lo sapete?"

"Ho viaggiato tanto. Ho fatto molti lavori. Ho dovuto pensare a come campare. La cronaca mondana non è stata esattamente la mia priorità. So di voi meno di ciò che sapevo allora: il vostro nome e il vostro titolo, e che probabilmente vi piace ancora leggere."

"Mi sono sposato quindici anni fa." Cominciò Stolas "Non ho viaggiato molto, ma ho visto il mondo di sopra. Due volte, per l'esattezza." Tacque per un istante, e poi mormorò "La seconda volta non sarei dovuto andare."

L'uomo che gli sedeva accanto non fece alcuna domanda, non si mostrò curioso riguardo al mondo di sopra, né sembrò far caso a quell'ultima affermazione.

"Per amore?"

"Perdonatemi?"

"Il matrimonio. So che nel vostro ceto..."

Stolas non rispose, nessuna delle risposte possibili gli sembrava somigliare alla verità. E poi, non aveva per nulla voglia di lasciarsi compatire per un matrimonio combinato, e avrebbe trovato profondamente ingiusto definirlo solo in quei termini, dopo tutti quegli anni, e dopo tutte le cose che erano accadute.

"Ho avuto una bambina." Disse invece "In realtà non è più una bambina ormai. È una ragazza intelligente ed intuitiva, diventerà una maga elementale..." Nell'esercito di mio padre. Scosse il capo e ignorò il pensiero intrusivo, poi continuò. "... è entrata in Accademia l'anno scorso. Ha talento. E mi somiglia, fisicamente almeno. Ma ha molto più slancio e coraggio di quanto ne avessi io alla sua età."

L'uomo che gli sedeva accanto lo ascoltava come se il banale susseguirsi degli eventi della sua vita fosse per lui un racconto ricco di elementi interessanti.

"Ma parlatemi della o." disse Stolas, volendo spostare il focus dalla sua vita.

"Probabilmente la riterreste una cosa sciocca."

"Ormai mi avete incuriosito."

"Io non ho scelto di ricominciare. Ho dovuto farlo. Sapete, mi sono trovato solo al mondo in una notte, non sapevo fare altro che il circense e non ero particolarmente bravo neppure in quello. Ho dovuto reinventarmi, imparare ad essere un altro me. Non volevo abbandonare il mio nome, ma una parte di me doveva restare indietro, così che il resto potesse andare avanti. E allora ho smesso di pronunciare la o. Probabilmente non ha molto senso, ma allora per me ne aveva, e ormai mi sono abituato."

Stolas sentì una strana sensazione di disagio invadergli l'animo, il bambino che giocava con lui nell'infanzia ora era un uomo che aveva attraversato il fuoco e aveva vinto. Uno che si era trovato con niente e aveva saputo ricostruire sulla cenere. E lui che mai aveva conosciuto la disperazione sembrava dei due il più disperato. Lui che avrebbe avuto tutti i mezzi per ricominciare dieci, cento, mille volte, abitava prigioniero le macerie del suo matrimonio insieme alla sposa, prigioniera a sua volta, che gli dormiva accanto. E con il disagio lo pervase una vergogna sottile, e un senso di colpa di cui non riusciva a trovare l'origine. Sentì gli occhi pizzicare e la vista gli si offuscò per un istante.

"Per favore, principe, non compatitemi." disse l'uomo, vedendo gli occhi del suo interlocutore velarsi di lacrime.

"Non vi compatisco." Mormorò Stolas "Vi ammiro."

Blitz scosse il capo "Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque. Ho ringraziato di essere vivo e ho continuato a vivere... Ma non mi avete detto come si chiama vostra figlia."

"Octavia."

"È un bel nome, adatto ad una principessa."

"Lo ha scelto Stella."

"Vostra moglie?"

"Sì." Stolas strinse le labbra in una linea sottile. "E voi? Siete sposato?" domandò.

Blitz scoppiò a ridere, poi fece cenno di no. "Sono stato per un po' con una ragazza, ci tenevo molto a lei, anzi, posso dirvi con una certa sicurezza che la amavo. Ma al tempo non conoscevo nemmeno me stesso, come potevo pretendere di riuscire a comprendere lei? Ho mandato in malora tutto, ora lei mi odia. Non avrei mai voluto che arrivasse a odiarmi. Mi sono trovato a pensare come sarebbe andata se l'avessi incontrata in un altro momento, un momento in cui fossi stato meno insicuro, spaventato, insoddisfatto o infelice. Un momento di maggiore serenità, in cui avessi già scoperto chi ero o quali fossero i miei desideri. Forse non mi sarei comportato da stupido e da stronzo, e forse adesso sarei sposato come lo siete voi."

Calò di nuovo un silenzio pesante, e il vento fece oscillare la luce delle fiaccole, allungando le sagome delle loro ombre sul terreno come spettri benevoli. Stolas si strinse nella cappa nella brezza settembrina della sera, Blitz si srotolò le maniche della camicia fino a coprirsi le braccia. Il principe aveva passato molti anni della sua giovinezza a idealizzare il ricordo di quell'amicizia. E, prima di venire a conoscenza della sua presunta morte, aveva sperato intensamente di rivedere il suo primo amico, e aveva immaginato che i giorni dell'infanzia si sarebbero ripresentati in tutta la loro spendente spensieratezza una volta che fossero stati insieme. Ma dei bambini che erano stati era sopravvissuto solo un ricordo sbiadito e, in fondo, ora non erano che due sconosciuti che si raccontavano stralci di vent'anni d'esistenza.

"Perché siete venuto a parlarmi?" domandò Stolas.

"Non lo so." Confessò l'uomo "Quando vi ho conosciuto, la mia famiglia non possedeva che un tendone e quattro stracci, il lusso del vostro palazzo ha abitato per molto tempo i miei sogni di ragazzo... e rivedervi mi ha riportato alla memoria un prima in cui avevo molte certezze e pochi affanni."

"Ricordavate i fulgore del palazzo di mio padre e non me, dunque!"

"Eravate un bambino noioso." Sul viso dell'uomo si allargò un sorriso canzonatorio.

Stolas gli rivolse un finto sguardo di disappunto.

"Osate rivolgervi così al vostro principe?"

"Mi farete giustiziare?"

"Signor Buckzo, siete già sfuggito al Tristo Mietitore, sono certo riuscireste a sfuggire anche alla lama del boia."

Stolas ebbe la sensazione di aver esagerato, ma Blitz rise di gusto a quella macabra battuta.

"Oh. Siete un uomo di spirito. Non me lo aspettavo. Siete molto diverso dal bambino che ricordavo."

Il principe credeva invece di somigliare molto al bambino che era stato: aveva ancora quella sensazione costante di inadeguatezza e usava ancora i racconti confortanti come fuga dalle sue malinconie. E com'era stato un bambino solo, crescendo era diventato un uomo solitario. O forse la sensazione di solitudine era una condizione immutabile della sua anima, e mai nessuna amicizia e nessun amore avrebbe potuto colmarla.

"Ehy! Blitz!" una ragazza minuta lo chiamò da lontano agitando le braccia.

"Perdonatemi, principe, è ora che torni dai miei amici." Disse l'uomo rimettendosi in piedi. "È stato bello rivedervi, e chiacchierare con voi."

"Anche per me lo è stato." Rispose Stolas, già colto da una sottile malinconia. "Ah. Signor Buck... voglio dire, Blitz. Se doveste avere bisogno di qualcosa non esitate a scrivermi. Firmate l'esterno della busta e vi assicuro che non finirà perduta tra le scartoffie."

Blitz annuì. "Vi ringrazio. Passate una buona serata, principe Stolas. Arrivederci!"

Poi si allontanò e raggiunse la ragazza minuta.

"Ti metti a importunare i reali?" disse lei, rivolgendogli uno sguardo di rimprovero.

"Guarda che io e il Principe eravamo amici da bambini!" si difese lui.

"Sì certo, come no." Rispose lei, colpendolo con un pugno giocoso all'altezza del braccio.

Presero a battibeccare in modo scanzonato, gesticolando e spintonandosi scherzosamente. E Stolas li guardò allontanarsi e confondersi alla folla della festa.

Ora era di nuovo solo, e se da un lato aveva la sensazione di aver chiuso finalmente qualcosa che era rimasto aperto, sul fondo della sua anima, per molti anni; dall'altro si sentiva come se l'apparizione di quell'uomo avesse portato con sé rivelazioni che forse non era pronto a sentire.

La coscienza, fino ad allora sopita, che mille vite si possono vivere e non solo una, e la consapevolezza di non averne vissuta davvero nessuna. La percezione che si fosse sempre lasciato trascinare dal vento senza mai provare a volare. Il sospetto che Stella somigliasse più a quell'uomo di quanto non gli somigliasse lui, e la certezza che "l'incendio" di lei fosse avvenuto circa tre anni prima, e che da allora qualcosa di sua moglie fosse rimasto indietro, per poter permettere al resto di andare avanti.

L'impressione straniante di essere l'uomo sfuggito ad ogni disgrazia, ad ogni profondo turbamento, di aver solo sfiorato la vita e per questo non esserne uscito forgiato, rimasto informe e incompleto come una spada senza il filo o come lo stampo di cera di un orafo che non vi cola mai dentro il metallo.

A queste e a molte altre cose pensava sotto il cielo violetto che lo aveva accolto di fronte ai cancelli del proprio palazzo, e con questi pensieri aveva attraversato l'androne, e il lungo corridoio silenzioso.

E poi aveva visto la sagoma di Stella, sedere nella veranda coperta, con ancora la veste da camera addosso e tra le mani una tazza di tè.

"Ti sei svegliata presto."

"Non ho dormito, in verità."

"Perché mi hai detto di andare, se alla fine..."

"Le mie paure non possono tenerti prigioniero, Stols."

Stolas sedette accanto a lei nella veranda coperta. Lei gli porse la tazza e lui accettò un sorso di tè. Poi attesero, senza parlare, il sorgere del sole.

Notes:

Forse non è il capitolo che vi aspettavate. Ma, purtroppo o per fortuna, la dinamica di questo capitolo era stata pensata nel filone dell'original, e funzionerebbe meglio nella riscrittura (già in cantiere) in cui il personaggio proposto ha, non solo un certo spazio nella parte iniziale, ma anche un altro nome e un background abbastanza diverso.

Questo incontro, nella percezione che ne ho al momento, ha parzialmente l'aspetto di un deus ex machina che costringe Stolas a riflettere sul proprio potere decisionale e sulla possibilità di "prendere le redini della propria vita", indipendentemente da quali siano le difficoltà reali e/o apparenti.

Ero cosciente che sarei stata meno soddisfatta rispetto al solito riguardo a questa porzione di storia. Spero di essere comunque riuscita ad intrattenervi.

C'è di buono che da qui e fino alla fine torniamo dai nostri sposi, e dei progetti dei capitoli futuri sono maggiormente soddisfatta.

Grazie sempre di leggermi!

Con tanto affetto,

- Armilla Lunastorta

Chapter 47: La strada non presa

Summary:

Stella e Stolas parlano finalmente a cuore aperto

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

La strada non presa

 

Gennaio era agli sgoccioli e con esso il primo semestre all'Accademia. Adesso Via frequentava, brillantemente, il secondo anno; si era fatta degli amici, non molti, ma sinceri, e tra i compagni di corso non c'era nessuno da cui non avesse imparato a farsi benvolere. Nel corso del primo anno era divenuto chiaro a tutti che il suo legame con il sovrano fosse nulla di più che una linea tracciata su un immaginario albero genealogico, e che quella ragazza peperina e vitale ne condividesse l'ideologia tanto quanto ne condivideva la tavola. D'altronde anche Stolas, tra i figli di Paimon, era uno dei pochi che avesse mai osato contraddirlo, con pacato garbo e senza eccessi di fervore, durante le riunioni dell'Assemblea, e in privato quand'era stato necessario.

L'Accademia era ufficialmente soggetta al volere di Paimon come qualsiasi altra istituzione del regno, ufficiosamente si trattava invece di un mondo a sé, con le proprie regole e le proprie dinamiche di potere, da fuori percepite come scaramucce di poco conto, rispetto ai veri scontri che avvenivano in Assemblea tra i giovani, e al Consiglio tra le cariatidi. Eppure, scaramucce da poco non erano, se si trattava di avere il controllo su un'istituzione, o una parte di essa, che aveva codificato indisturbata nei secoli le leggi delle forze invisibili che abitavano il mondo. E forse, visto in questa prospettiva, un ruolo accademico assumeva più valore di un titolo nobiliare.

E proprio perché il potere decisionale del sovrano tra quelle mura appariva ridimensionato, non era affatto scontato che sarebbe stato Stolas ad essere eletto a capo del Dipartimento di Magia Cosmica.

La notizia giunse all'ora di pranzo, nella veste di una busta nera e austera sigillata in ceralacca con il sigillum scarlatto dell'Accademia. Dentro, un biglietto asciutto informava Stolas della nomina e chiudeva con le congratulazioni e un invito a presentarsi alla formale investitura; a questa sarebbe seguito un rinfresco sobrio e breve, dove per sobrio e breve si intendevano ore di chiacchiere di circostanza, l'affluenza di Maestri, professori, ricercatori, una sterile ostentazione di conoscenza e una altrettanto sterile ostentazione di stile, e lo sfoggiare, per chi le aveva, delle proprie mogli.

"A quanto pare, alla fine mi hanno eletto." Disse a Stella porgendole la busta. "Mi piacerebbe venissi alla nomina."

Non che volesse sfoggiarla, d'altronde non c'era uomo nel regno che non conoscesse la fortuna del Principe Stolas, e che non la temesse un pochino. Gli sembrava solo una cosa importante e aveva la sensazione che senza la presenza di lei la soddisfazione sarebbe stata più tiepida.

E a Stella sarebbe piaciuto partecipare, anche se molte cose non andavano, e le crepe invisibili si erano espanse sulle pareti del loro rapporto, leggere le poche righe di quel biglietto asciutto l'aveva riempita di orgoglio nei confronti di quell'uomo con cui aveva condiviso la vita. Ma, allo stesso tempo, la attanagliava la consapevolezza che là, nei corridoi dell'Accademia, anche se Stolas non ne aveva alcuna colpa, sarebbe stata di nuovo soltanto la moglie di lui, "ancora bella nonostante gli anni e una figlia".

"Ci penserò, Stols." Rispose in un filo di voce. "Sono molto orgogliosa di te." Aggiunse poi, ed era sincera.

Via assistette a quello scambio di parole controllate, vide suo padre piegare impercettibilmente gli angoli della bocca all'ingiù, e sua madre abbassare lo sguardo e prendere a torturare tra l'indice e il pollice il lembo del tovagliolo. Sentì il suono del silenzio fagocitare il mondo intorno a lei, rotto solo dal tintinnio delle posate sulla porcellana. E la gola le si strinse in un nodo inestricabile.

"Congratulazioni, papà." disse simulando il più sereno dei sorrisi. "Io non ho mai avuto dubbi." Poi si alzò lentamente da tavola.

"Va tutto bene, tesoro mio?" domandò Stella corrugando la fronte. Conosceva quei sorrisi, perché aveva passato una vita a simulare allo stesso modo. "Non hai nemmeno toccato il secondo..."

"Tutto bene." Via la baciò sulla guancia "Sono solo sazia e... preferisco andare in camera."

Prima che i suoi genitori potessero protestare oltre si allontanò con passo misurato e lento. Salì le scale invasa da un tremore sottile e con ancora la gola stretta in una morsa. Quando richiuse dietro di sé la porta della sua cameretta una lacrima le rigò la guancia. La asciugò con il dorso della mano, ma a quella ne seguì un'altra e un'altra ancora. Basta. Devo smetterla. Sono grande ormai. Fu allora che realizzò che, forse, il bisogno di piangere non avesse a che fare con l'età.

***

La sera della nomina, Stolas, trovò Stella seduta sul letto, con il vestito ancora nel porta abiti appeso all'armadio, e lei in una vestaglia di velluto, truccata di tutto punto coi capelli raccolti.

"Verrai?" domandò

"Non lo so ancora."

"Io devo andare adesso, lo sai come sono fatti quelli dell'Accademia, devo farmi vedere e fare un po' di scena prima dell'inizio. Poi l'ora delle nomine è..."

"Lo so, è tutto sul biglietto." Gli fece un cenno di sorriso. "Lo sai che anche se non dovessi venire non è per... non è per te."

Stolas annuì. "Lo so."

Avrebbe voluto insistere un po' di più ma non lo fece, sperò in cuor suo che i capelli raccolti e il trucco già sistemato fossero un segno di buone intenzioni. Richiuse la porta dietro di sé e si avviò verso l'Accademia.

Stolas iniziò a cercarla con lo sguardo già mezz'ora prima che la cerimonia di nomina avesse inizio. Mentre si districava in fiumi di parole vuote con colleghi che, prima di allora, non si erano mai curati di parlargli, lanciava occhiate fugaci ai due ingressi della sala, e ogni volta che vedeva comparire il lembo di una veste, ogni volta che udiva il ticchettare di un paio di decollété su pavimento, sobbalzava, ma le sue aspettative venivano disattese sempre.

Una flebile speranza si accese quando vide Andrealphus fare il suo ingresso. Attese qualche secondo, un minuto, poi cinque, e poi un tempo che gli sembrò infinto, ma Stella non comparve. La bocca dello stomaco gli si strinse in una morsa ed ebbe la sensazione che una insostenibile stanchezza gli gravasse sulle spalle. Suo cognato gli si avvicinò, gli strinse la mano e si congratulò con lui, poi vagò con lo sguardo alle sue spalle scrutando la sala e corrugò la fronte.

"Mia sorella non è con te?"

Stolas lo guardò vacuo e smarrito.

"No." rispose "Speravo fosse con te."

Non smise di cercarla nemmeno durante il discorso di apertura: guardava il grande orologio che si ergeva in fondo alla sala, guardava gli ingressi, scrutava i volti conosciuti e sconosciuti che si confondevano in una massa d'informe indifferenza. Il cuore gli si stringeva nel petto e sentiva di non voler salire su quello stupido palchetto a prendersi stupidi onori se lei non era lì. Gli tornò in mente il suo esame di Guardiano, e Stella che lo trascinava di peso nella vasca nel tentativo di fargli passare la sbronza e l'ansia da prestazione. Col tempo aveva imparato a gestire entrambe le cose, ma in quell'istante si sentiva più fragile e incerto di quanto non fosse mai stato da ragazzo.

Quando chiamarono il suo nome a stento se ne accorse, fu Andrealphus a toccargli la spalla e a sussurrare. "Stolas. Chiamano te." Solo allora anche Andrealphus si guardò intorno, sperando che sua sorella comparisse e che la presenza di lei arrivasse a mitigare un poco il rigido disagio in cui versava il principe, ma anche allora di lei non c'era traccia.

La nomina fu breve e asciutta, al classico modo formale dell'Accademia, contornata di strette di mano e frasi di rito. Stolas ringraziò per l'onore concessogli e si mostrò consapevole degli oneri, parlò anche lui, non a lungo come gli avrebbe suggerito la sua inclinazione, ma il giusto, come si addiceva alla circostanza. Guardò poco gli astanti e molto il biglietto su cui aveva appuntato le cose importanti da dire. Allo scrosciare di un misurato applauso alzò gli occhi dal biglietto, e fu allora che vide Stella in piedi in fondo alla sala, in un abito azzurro che emergeva come un ritaglio di cielo in mezzo al nero delle toghe e dei frac, dai capelli raccolti sfuggiva una ciocca ribelle, e le guance erano velate di un leggero rossore.

"Dove ti eri cacciata?" le domandò Andrealphus in un filo di voce. "Stolas ti... ti aspettava."

"Lo so, Andre." Disse lei torturandosi le cuticole "Sono una stupida."

Stolas gli andò incontro e le posò un bacio formale sulla guancia, forse con troppo entusiasmo rispetto a come imponeva l'etichetta.

"Mi dispiace." La voce di lei tremò in modo impercettibile.

"Non importa." Stolas le accarezzò il dorso della mano con il pollice. "C'è ancora tutto il tempo del rinfresco."

Il rinfresco si rivelò formale e misurato. Stella se ne stava al braccio di Stolas senza ormai più il bisogno di essere presentata. Tutti conoscevano la bella moglie del principe Stolas, e molti avrebbero desiderato sposarla. Stella sapeva in cuor suo che se avesse potuto scegliere non avrebbe sposato nessuno di loro, e anzi non avrebbe sposato neppure Stolas.

Ma mentre lo teneva sottobraccio pensava anche che – né tra i ricchi titolati che sedevano all'Assemblea, che organizzavano fastosi banchetti, che venivano ricevuti in un costante via vai al palazzo di Paimon, né tra i dotti studiosi dell'Accademia, che tenevano rinfreschi e cerimonie formali, che parlavano per ore alle conferenze, che inseguivano la dottrina senza cedere alla seduzione della curiosità – ci sarebbe stato, ai suoi occhi, nessuno migliore di lui.

Pensava che tutti i timori che le scavavano l'animo prima di sposarlo, nel tempo, erano svaniti. Sostituiti dalla consapevolezza che quell'uomo, con lei, era sempre stato e sarebbe sempre stato gentile, premuroso, buono. Pensava anche che c'era stato qualcosa, ad un certo punto, a cui non osava dare un nome, e che di quel qualcosa era grata. E pensava anche che gli anni che stavano trascorrendo in quell'inferno di silenzi e di segreti, di lacrime dietro le porte chiuse e di giornate furibonde, non erano qualcosa che né lei, né Stolas meritavano di continuare a vivere. E mentre questi pensieri le inondavano la mente, la risacca del tempo le faceva affiorare nell'animo il ricordo luminoso dei loro giorni buoni, prima di offuscarlo di nuovo con l'onda torbida di quelli cattivi.

E poi, ad un tratto, mentre stava tutta assorta dentro sé stessa, e sfoggiava con chiunque si avvicinasse per congratularsi con Stolas, il sorriso mite della buona moglie, udì un mormorio in un angolo della sala. E quelle parole frammentate la fecero riemergere dall'abisso della mente.

"...non fosse stato il figlio del re... sarebbe spettato... a qualcun altro."
"Cosa ti stupisce?... a diciannove anni... già Guardiano..."

All'inizio si convinse di aver sentito male. Non potevano star parlando di Stolas. O star insinuando quello che sembrava stessero insinuando. Non con Stolas a due passi. Non pubblicamente. Non in quell'occasione. Sarebbero stati due stupidi.

"Non sapevo che fosse diventato Guardiano così giovane."
"Oggi un dipartimento, domani l'Accademia, al principino i ruoli li compra papà."

Si bloccò di scatto e si voltò verso il provenire delle voci.

"Stols? Chi sono quelli in fondo?" mormorò.

"Chi?"

"Quello con la testa a uovo e la mummia insieme a lui."

"Stella!" Stolas spalancò gli occhi, poi disse in un sussurro. "Non dovresti riferirti a due miei colleghi così!"

"Loro non stanno dicendo cose gentili su di te." Disse Stella aggrottando la fronte.

"Li ho sentiti. Ma lascia perdere."

"Non devo rispetto a chi non te ne usa."

Stella si avvicinò a passo deciso a testa d'uovo e alla mummia. Gli si piantò davanti con fare regale, la schiena dritta, il mento sollevato, lo sguardo gelido.

"Principessa." Fece la mummia, accompagnando le parole ad un inchino accennato. "A cosa dobbiamo il piacere?"

"Nessun piacere." Disse lei, il tono era quello moderato della conversazione. Le labbra serrate in una linea di disprezzo raccontavano di più. "Stolas vale dieci, cento... ma che dico? Infinite volte quello che valete voi. Potrebbero darvi qualsiasi privilegio e rimarreste comunque ad annaspare nel fango. E anche nell'improbabile ipotesi in cui raggiungeste posizioni più illustri, rimarreste comunque una pietra opaca e insignificante, dei damerini sepolti sotto la polvere, incapaci di brillare perché privi di qualsiasi scintilla."

Testa d'uovo intervenne: "Non so cosa abbiate sentito, ma..."

"Ho sentito quel che ho sentito." Lo interruppe Stella. Il tono della voce restava basso, ma severo. Poi sfoderò uno dei suoi tipici sorrisi di scherno: "Dire una cosa del genere di uno più brillante, più colto, più potente di tutti voi messi assieme, e per di più principe. È proprio vero che l'audacia bacia gli stupidi."

Poi, com'era arrivata, si era allontanata di nuovo, e si era rimessa Stolas sottobraccio.

"Non avresti dovuto!" quasi la rimproverò.

"Invece dovevo, Stols." La voce di lei tremava di rabbia, una rabbia affettuosa "Maledizione. Lo penso davvero. Che sei migliore di chiunque qui dentro. E non solo." E Stolas sentì una sensazione dolceamara invadergli l'animo.

Poi si mescolarono di nuovo alla folla di toghe e di frac, e tutti assorti in parole dette solo per il gusto parlare, in tiepide risate frammiste di malinconia e tenerezza, non notarono neppure che i due malcapitati avevano lasciato il rinfresco.

***

La sera era fredda, il vento di febbraio li accolse sul vialetto oltre i cancelli del loro palazzo. La casa era silenziosa e avvolta dalla penombra.

Stella si diresse in camera di Via, la trovò addormentata abbracciata ad un libro riverso a faccia in giù sul suo petto, con le sue dita che ancora ne sfioravano la copertina, Stella glielo sfilò delicatamente dalle mani e lo ripose sul comodino, poi le rimboccò le coperte. Via mormorò qualcosa nel sonno ma non si svegliò, si raggomitolò invece su un fianco, dando le spalle alla porta.

Stolas, invece, andò dritto nelle loro stanze, che forse non erano più loro, ma solo di lui, dato che da tempo Stella dormiva altrove, in quelle che fin dall'inizio del loro matrimonio avrebbero dovuto essere le stanze di lei, e che per molti anni, prima di allora, erano rimaste felicemente vuote.

E fu lì che Stella lo raggiunse, aveva la sensazione che quella sera fosse stata una parentesi dolce in una vita di affanni, e nell'animo le turbinava un'idea. Un'idea che aveva soffocato molto a lungo, ma che forse aveva senso. Che doveva avere senso se così tanto l'aveva tormentata. Lei e Stolas non erano felici, e non bastavano due ore a un rinfresco per rimettere insieme il disastro che avevano causato, ora dopo ora, giorno dopo giorno, in tutti quegli anni.

Lo trovò nel salottino, in maniche di camicia, che passeggiava meditabondo avanti e indietro. Il caminetto era acceso, i domestici dovevano aver ravvivato il fuoco in vista del loro ritorno, e la stanza era invasa da una luce calda e rossastra.

Stolas la guardò negli occhi, e lei nel suo sguardo rivide il ragazzo spaventato e perduto della loro prima notte.

"Stella tu... tu non mi odi, giusto?"

A Stella mancò il fiato e le ciglia le si velarono di lacrime.

"No." Rispose in un sussurro, poi la colse un senso di vertigine. "Perché lo credi?"

"Non lo credo, infatti."

"E tu?" domandò lei.

Stolas scosse la testa e arrossì. "Non potrei mai."

"Stols." Lei fece un ampio respiro "A cosa stai pensando?"

"Non so nemmeno se ha senso." Stolas non osava guardarla, gli occhi grandi erano velati di una patina lucida. Non era mai stato un uomo deciso, ma lei non gli aveva mai visto sul volto un'espressione di così profonda incertezza. "Se non mi odi, e soprattutto dopo quello che hai detto stasera di me, mi sento male anche solo a pensarlo." Balbettò lui "Mi sembra di fare una scelta sbagliata... ho paura di rinunciare a qualcosa che... che potrebbe essere ancora..."

"Vuoi... che ci separiamo?" Lo interruppe lei. "Credi che se restassimo ancora incatenati insieme in questo palazzo finiremmo solo per distruggere anche quello che di buono è rimasto? Che finiremmo davvero per odiarci... è questo quello a cui stavi pensando?"

Stolas si sentì improvvisamente come se un si fosse liberato il petto da un macigno opprimente, ma con quella leggerezza lo colse una sensazione di svuotamento.

"Forse lo avrei detto con altre parole ma...sì, è questo."

"Io non ti odio." Continuò lei tutto d'un fiato. "Non voglio arrivare a odiarti. E non sopporto l'idea che, un giorno, tu possa arrivare a odiare me. Non voglio addossarti altre colpe che non hai su perché la mia vita non è andata come avrei voluto. Non voglio che tutto questo dolore, tutta questa distanza, mi faccia dimenticare anche tutto il bello e tutto il buono che c'è stato."

Stolas si accasciò sul tappeto di fronte al caminetto con le gambe incrociate, le mani scosse da un leggero tremore. Stella si chinò a sedere accanto a lui, e ai suoi occhi, illuminata dalla luce arancione del fuoco nell'abito azzurro, gli parve una creatura del folklore, misteriosa e magica. Poi sentì la mano soffice e calda di lei afferrare teneramente la sua, e i tremori si placarono.

"Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo tutto quello che abbiamo vissuto, prendere in considerazione una cosa del genere mi sembra come... come se ci stessimo arrendendo."

"Arrendersi, a volte, è un atto di coraggio." Sospirò, poi riprese. "Stols... se fossi stato davvero libero, mi avresti scelta sedici anni fa?"

Lui rimase in silenzio e scosse flebilmente il capo, coprendosi il viso con la mano libera. La vista ora era appannata da un velo di lacrime trattenute. Anche gli occhi di lei erano lucidi.

"Ma con questo non voglio dire... che... insomma, hai capito..." tacque di nuovo, lei aveva ancora la mano sulla sua e la stringeva leggermente.

"Non riuscire ad accettare qualcosa che ci è stato imposto non è una colpa, Stols. Anche io avrei fatto scelte diverse, sedici anni fa, se ne avessi avuto la possibilità."

"Di recente ho avuto modo di pensare ad una cosa, e da qualche tempo mi tormenta" esordì lui. "Io non ho mai davvero capito chi sono o cosa voglio. Ho fatto quello che mi ha ordinato mio padre. Mi sono fermato a riflettere su chi sono, senza il titolo e senza i ruoli in accademia... e ho scoperto che non lo so. Mi hai chiesto, se avessi avuto una scelta, cosa avrei preferito fare. Ma come potevo scegliere te o qualcosa di diverso, se ancora adesso non capisco chi sono e cosa voglio? Fuori da questa casa, al di fuori dei compiti e degli ordini di mio padre, del mio titolo di principe, sono davvero diventato migliore, o più consapevole, di quanto non fossi a diciotto anni?"

Lei gli rivolse un tiepido sorriso. "Io non desideravo sposarmi, o forse sì, non lo saprò mai, è semplicemente stata la vita che è stata scelta per me. Non l'ho mai visto come qualcosa di desiderabile, ma più come qualcosa di... inevitabile. Quando da ragazza ti chiedevo dei tuoi sogni, delle tue aspirazioni, speravo mi rispondessi con sogni magnifici e aspirazioni grandiose, per poter almeno capire cosa si provasse a fantasticare su di sé, sul futuro... Perché io non ci riuscivo. Io volevo solo fuggire da casa di mio padre e non metterci più piede finché fosse stato vivo. Era il mio unico desiderio. L'unico sogno possibile senza deviare dalla strada che era stata tracciata per me. Sposarmi, e così non vivere più in quella casa. Ma a parte questo? Non mi sono concessa di sognare altro. E come potevo? Mi sembrava tutto fuori portata. Potevo solo percorrere la via, non c'erano bivi, non c'erano uscite. Non esisteva nient'altro che questo. Ti ho detto tante volte che avrei voluto essere libera, ma anche quella, nel mio animo, è sempre stata un'idea fumosa, un desiderio confuso e inafferrabile."

Le lacrime le bagnavano le guance ma non le importava.

"Ora mio padre è morto, l'unico sogno che mi fossi mai concessa si è realizzato: lui non può più raggiungermi, ma io continuo ad avanzare nella direzione che ha scelto per me prima che venissi al mondo. Stols, non sei l'unico a non avere imparato a conoscersi. Io non so davvero più chi sono: la musica, la magia, i romanzi, sono tutte cose che cadono nel vuoto dei giorni sempre uguali ed io cammino senza meta, e quasi non riconosco più la strada, ad ogni passo mi sento sempre più smarrita. Oppressa. Prigioniera. Mi sento soffocare."

Si passò una mano tra i capelli e piccole ciocche le incorniciarono il viso e gli occhi umidi. Parlava in un fiume di parole spezzate. E Stolas l'ascoltava con il cuore stretto nel petto riconoscendo di fronte a sé l'adolescente con cui aveva passeggiato nei giardini del palazzo di Paimon, e la ragazza che aveva sposato in un giorno d'estate e che gli aveva parlato, una notte, di amore, di potere, di libertà, e riconobbe la donna che gli aveva insegnato il coraggio. Tutte queste creature, che poi erano lei e lei soltanto, le rivedeva nei suoi occhi violetti, nella fronte aggrottata, nelle guance arrossate, nelle dita sottili e nel pollice che torturava la fede sull'anulare.

"Sono stata la figlia del Marchese, la sorella di Andrealphus fino a diciott'anni, e poi sono stata tua moglie, e la mamma di Via per quasi altrettanto tempo. L'unica cosa che so con certezza di me è che mi piace il gianduia." Stella rise tra le lacrime "Ed la parte più vera di me, perché almeno l'hanno decisa le mie papille gustative, alla faccia dell'insignificante, ma più regale, crema chantilly!"

Stolas rise a sua volta, nel tentativo di soffocare le lacrime che gli affioravano agli occhi.

"A me piace la crema chantilly!"

"Lo so, Stols. Non ci somigliamo in nulla."

Il silenzio li avvolse, rotto solo dal crepitio del caminetto. Lui strinse più forte la mano di lei e poi fece un ampio sospiro.

"Mio padre non ce lo concederà mai." Mormorò. "Sarebbe un disonore."

"Non pretendo che tuo padre faccia una proclamazione ufficiale." Sussurrò lei "Andrò via io, già domani, ci concederemo dello spazio. Posso tornare da mio fratello. Il palazzo è grande, e lui è da solo."

"Non voglio cacciarti da casa tua."

"Non mi stai mica cacciando, l'ho deciso io. Starò bene lì, non è più il posto che era prima."

"E con Via?"

"Le parlerò io, glielo devo." Rimase in silenzio per un istante "Non smetterò di vedere nostra figlia, ovviamente." Si affrettò ad aggiungere "Ne morirei."

"Certo che no."

"Si arrabbierà molto."

"Temo di sì."

Stolas si sentì perduto per un istante, immaginò vuote le stanze di lei, e la sala musica abbandonata nella polvere. E il tavolino in ferro battuto della verandina mai più coperto di pasticcini. Immaginò le stanze silenziose la sera, nessun romanzo sparso a faccia in giù sui divani, le poltrone, le sedie o dovunque Stella stesse leggendo in quell'istante. Nessun burro di cacao al caramello abbandonato in uno svuotatasche. Nessun frusciare della veste di seta, o il ticchettare dei suoi passi su per le scale. Nessuna tazza di tè condivisa, nessun litigio, nessuna risata. Si immaginò di nuovo solo. Senza di lei, cosa mi resta? E allora capì perché, in tutti quegli anni, aveva continuato a rimandare quella inevitabile conversazione, perché aveva sperato, egoisticamente, che le cose tornassero intere.

"Scusami se sono stato un codardo." Mormorò "Scusami se per così tanto tempo non ho avuto il coraggio di dire queste cose." Si stropicciò gli occhi con l'indice e il pollice, ma non bastò a placare le lacrime che gli scorrevano dagli occhi.

"Stols, non sei stato codardo più di quanto non lo sia stata io. Anch'io ti devo delle scuse."

Il silenzio li avvolse, cancellando il mondo intorno. Erano solo loro, seduti sul tappeto, le spalle che si toccavano, la mano di lei ancora stretta a quella di lui, i visi illuminati dalle fiamme del caminetto. Così, vicini come non succedeva da tempo, cercarono di trovare insieme il coraggio di alzarsi, e di imboccare una strada che avrebbe potuto portare l'uno lontano dall'altra.

Notes:

Prima di tutto chiedo umilmente scusa alla crema chantilly! Ma Stolas è vanilla anche nei gusti di pasticceria, o forse solo nei gusti di pasticceria... eheh.

Scherzi a parte, spero che non abbiate sprecato le lacrime, altrimenti da qui alla fine si rischia di dover annunciare una crisi idrica.

E per la serie "a volte ritornano", nell'angolo autrice del capitolo 6 citavo "The Road Not Taken" di Robert Frost, ed ecco che ora torna in una forma diversa, sotto forma di titolo di questo capitolo 47.

La vita mi sta mettendo a dura prova nel farmi finire questa storia, e non sono sicura di riuscire a mantenere una cadenza settimanale per gli ultimi capitoli, ma ad ogni modo ci proverò!

Per ora vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno seguito fin qui, e che hanno lasciato su questa storia un commento, una risata o un sospiro! Ma i più ampi ringraziamenti li lasciamo per la fine.

Ps: Se mi state leggendo e non vi siete ancora palesati, mi farebbe piacere lo faceste, così che io possa alla fine ringraziarvi uno per uno!

Ci leggiamo al prossimo capitolo,

Armilla Lunastorta.

Chapter 48: Qualcosa di dolce, qualcosa di amaro

Summary:

Stella parla con Via riguardo alla separazione.

Chapter Text

Qualcosa di dolce, qualcosa di amaro
 

Glielo dirò a colazione. Era questo che Stella si era ripromessa, e che aveva continuato a ripetersi mentre metteva insieme poche cose in una valigia di cuoio senza davvero prestarci attenzione. Il resto tornerò a prenderlo dopo. Non c'è fretta. Non è una fuga. Ad un messo aveva affidato un biglietto, così che Andrealphus fosse al corrente del suo arrivo, e del fatto che sarebbe rimasta. Le motivazioni erano asciutte e stringate, gli avrebbe spiegato tutto di persona.

Glielo dirò a colazione. Lo ripeteva come un mantra, mentre sistemava accanto agli abiti meticolosamente piegati un paio di giacche da camera, e le calze e gli slip di seta, un paio di decollété dal tacco basso, una grande sciarpa di cachemire. Poco altro, acciuffato a casaccio dai cassetti. Non osava guardare l'orologio, come se ignorarlo fosse un modo per dilatare il tempo. È ancora l'alba. Ho ancora qualche ora.

Quando Via entrò nella sala da pranzo, la tavola era imbandita con fin troppa varietà: tè, succo d'arancia, treccine alle noci, croissants, pain suisse, pain-au-chocolat, cinque tipi di marmellata e una coppa piena di fragole e frutti di bosco anche se non era stagione. Si guardò intorno e si accigliò. Sua madre sedeva da sola, tutta assorta, guardando un punto indefinito fuori dalla finestra. L'assenza di Stolas non era qualcosa che potesse definire inusuale, le colazioni in famiglia erano da tempo più l'eccezione che la regola. Ad agitarla fu piuttosto la varietà e la sovrabbondanza di cibi.

"Aspettiamo qualcuno?" domandò cauta.

"Buongiorno tesoro mio, no, siamo solo noi due." Rispose Stella. Era pallida e gli occhi apparivano stanchi e cerchiati di nero.

L'animo di Via fu pervaso da un timore sottile, l'ultima volta che aveva visto sul viso di sua madre quell'espressione aveva dodici anni, e nel giro di qualche ora si era trovata ad essere trascinata lontana da lei e chiusa in una stanza per una notte intera. Si irrigidì.

"Non siamo state convocate di nuovo dal nonno, vero?" domandò, mentre si guardava intorno alla ricerca di una lettera o di un biglietto che potesse confermare il suo sospetto.

Stella trasalì. "Oh no tesoro, no!" si alzò e le andò incontro. "Non è nulla del genere!" e la baciò sulla fronte.

"Hai la faccia di quando devi dirmi qualcosa di brutto." Disse Via abbassando gli occhi. "E... esageri coi dolci se sei preoccupata."

Un senso di inusuale vulnerabilità attraversò Stella: era davvero così trasparente? I moti del suo animo le si potevano cogliere sul viso, e le sue abitudini erano così ovvie da essere indovinate senza indugio? E poi la colse un senso di tenerezza, che sua figlia la capisse così, poteva considerarsi poi un male? Sorrise e le accarezzò una guancia.

"Non vuoi mangiare qualcosa prima? Poi parliamo."

Via annuì, la fame le era passata, ma forse sua madre aveva bisogno di prendersi ancora un po' di tempo, e forse avrebbe fatto bene anche a lei perdersi per un po' nel sapore burroso del pain suisse, nella dolcezza della crema e nell'amaro del cioccolato. Ne mangiò metà, l'altra metà rimase abbandonata sul piattino ci porcellana. Stella aveva dato appena due morsi al croissant, e il tè si raffreddava non toccato nella tazzina.

Ora erano l'una di fronte all'altra, sedute sulle sedie intarsiate, le ginocchia che si toccavano e le mani di Via strette in quelle di Stella.

"Amore mio." Esordì Stella, la voce le tremava e sperava in cuor suo di trovare le parole. "Forse hai notato che le cose tra me e tuo padre non stanno andando bene ultimamente."

Via la guardava in silenzio, la fronte increspata e gli occhi fissi su di lei, le labbra serrate, il respiro lento e controllato. Fece cenno di sì col capo, e sua madre continuò.

"Io e tuo padre abbiamo deciso di prenderci del tempo."

"Vi lasciate?" domandò Via con la voce intrisa di una innaturale durezza. Sulle sue guance si era diffuso un leggero rossore, ora si era irrigidita, Stella poteva sentirlo dal mondo in cui le teneva le mani.

"Ci... separiamo, sì." Sua madre lo disse come se fosse una cosa diversa. "Io andrò a stare dallo zio Andre, per un po'."

L'immagine del palazzo dello zio le inondò la mente: circondato dai ghiacci perenni, così vicino eppure così distante, era per lei il luogo dove gli affetti svaniscono sotto una coltre di neve. Un pensiero irrazionale le affiorò sulle labbra e si mutò in parole prima che potesse trattenerlo.

"Sparirai come lui."

Le candele sui candelabri scintillarono di una luce violetta per un istante.

Stella spalancò gli occhi e sentì il petto stringersi in una morsa. "No. Non sparirò." Le accarezzò le braccia e il viso con carezze intrise di dolcezza e di colpa. "Non intendo allontanarmi da te. Tu sei la gioia della mia vita. Ci vedremo sempre, ogni volta che vorrai. Verrò qui, o tuo padre aprirà un portale sul palazzo dello zio Andre, e sarai da me nello stesso tempo che impiegheresti per raggiungere la sala musica."

Via la guardò smarrita senza parlare.

"Io e tuo padre abbiamo capito che la situazione in cui ci troviamo non ci sta facendo bene, e sta influenzando anche la tua serenità. Via... so che te ne sei accorta e che ne stai soffrendo. Ti chiedo perdono se ti abbiamo fatto vivere una situazione del genere. Io non avrei mai voluto vederti triste o turbata, e neppure tuo padre. E soprattutto non avremmo mai voluto essere la causa di questi sentimenti."

Il caminetto della sala da pranzo emanò una fiammata violetta che si alzò fin quasi al soffitto e poi si estinse lasciando una lunga macchia di fuliggine sul muro. Octavia sobbalzò sulla sedia e gli occhi si mossero verso il caminetto e poi verso sua madre. "Scusami..." disse con la voce strozzata "...non lo sto facendo apposta."

Stella sentiva i battiti del proprio cuore rimbombare sotto lo sterno. "Lo so amore mio. Non è successo nulla."

"So controllarla ormai." Si affrettò ad aggiungere Via, una piccola lacrima le rigò la guancia sinistra. "Non risuccederà."

"Anche se dovesse risuccedere non ci farebbe comunque nulla." Stella le asciugò la lacrima con il pollice, e le accarezzò i capelli. Octavia ora stava di nuovo in silenzio, le spalle rigide, il respiro spezzato. "Via, tesoro... per favore, parlami."

"È per colpa mia?"

Quella domanda fece a Stella più male di quanto si aspettasse.

"Non è colpa tua. No. Amore mio. Tu sei stata la cosa più bella che sia capitata a me e a tuo padre."

Octavia scosse il capo e lasciò le mani di sua madre, poi si alzò in piedi di scatto. Il caminetto emanò un'altra fiammata violetta, che si estinse come la prima.

"È per l'Accademia, allora."

"Non capisco, amore mio."

"Lo so che papà era contrario e che hai dovuto convincerlo tu! Vi ho sentiti litigare per questo! E so che parlate spesso del nonno. A me piace studiare la magia...ma se io non avessi voluto studiarla... forse avreste avuto una ragione in meno per litigare!"

"No!" Stella fu pervasa da un'improvvisa sensazione di panico. "Non c'entra l'Accademia, e di certo non c'entri tu."

Si alzò anche lei e provò ad avvicinarsi a sua figlia, ma lei indietreggiò di due passi. Ora Via aveva gli occhi pieni di lacrime ma non voleva piangere. Sentiva la gola stretta in una morsa e aveva la sensazione che le lacrime trattenute le appesantissero il cuore.

"Avrei dovuto chiamare prima lo zio Andre." Camminava avanti e indietro e parlava con voce rotta. "Avrei dovuto convincerlo a tornare a vivere qui. Avrei dovuto dire qualcosa già la prima volta che non abbiamo fatto colazione insieme!"

Provava una strana vergogna per quella reazione infantile, e allo stesso tempo non riusciva a fermarsi.

"Me ne ero accorta e non ho fatto niente per..."

"Amore mio, non spettava a te fare qualcosa."

Via aveva la sensazione che il fiato le mancasse. Razionalmente capiva che fosse giusto, che i suoi genitori non erano felici da tempo. Capiva che si erano allontanati e che forse, lasciarsi, sarebbe la cosa migliore. Li aveva sentiti litigare così tante volte che ormai aveva perso il conto, così come aveva percepito tutto il peso dei silenzi. Ma tutto questo non le importava, non le importava che avesse senso o meno. Lei desiderava soltanto riavere la sua famiglia, voleva soltanto che i suoi genitori fossero ancora, o di nuovo, uniti.

Il vassoio con i croissant emanò una fiammata magenta, e delle brioches non rimase che cenere. E lo stesso accadde, poco dopo, alle fragole, e alle tre varietà di marmellata.

Uniti. Lo erano mai stati? O aveva solo immaginato, proiettato un desiderio sulla realtà così tanto da crederlo concreto?

L'aria nella stanza era intrisa di un inusuale calore, e presto si riempì di scintille involontarie, finché l'orlo della tovaglia non iniziò una lenta e inesorabile combustione violacea.

Alla fine, da quanto tempo non li sentiva ridere? Da quanto tempo non li vedeva insieme? E se fosse stata lei ad averli tenuti legati, intrappolati in un rapporto che non volevano? E se fosse stata lei la fonte della loro infelicità? E se...

Infine, anche i lembi delle tende scintillarono delle stesse fiamme violette. Il cuore le martellava nel petto e non riusciva a fermare quei pensieri a cascata, né il fuoco, e anzi più se ne preoccupava, più il panico le invadeva la mente. Più provava a concentrarsi sul controllo del proprio potere, più le lingue di fuoco si facevano alte.

Stella non si curò della magia involontaria, non pensò nemmeno per un istante che fossero in una situazione di pericolo. Altre volte era accaduto che i poteri di Via si manifestassero fuori dal suo controllo, e mai ne aveva avuto paura. E di certo non poteva averne in quel momento. Si avvicinò a sua figlia e la strinse forte a sé, Via tentò di ritrarsi debolmente, ma lei la trattenne.

"Via. Tesoro mio. Io ti amo, tuo padre ti ama." Andrà a fuoco la casa. Fece un ampio respiro. Calma. Non accadrà nulla. "Non hai nessuna colpa. Non sei responsabile di come sono andate le cose." Le accarezzava i capelli e le sussurrava all'orecchio parole intrise di tenerezza. "Sei nostra figlia, e non ti ho mai mentito sul fatto che in noi troverai sempre amore, supporto e aiuto. Ti prego di credermi tesoro mio." Via si abbandonò a quell'abbraccio, e al suono della voce di sua madre, e al tocco delle sue dita sui capelli, e al profumo della sua pelle che così tanto l'aveva rassicurata nell'infanzia

"Qualunque cosa succeda tra me e tuo padre non è colpa tua. E non scalfisce l'immenso amore che proviamo per te."

Le lacrime presero a scorrerle dagli occhi senza controllo, e insieme a quel pianto, come bagnate di una pioggia invisibile, anche le fiamme si placarono. Dei lembi delle tende e dell'orlo della tovaglia non restava che cenere.

"Scusa per questo disastro." Via si asciugò gli occhi col dorso della mano. "Non avrei dovuto... io... non ho più undici anni."

"Non devi reprimere le tue emozioni. Se sei arrabbiata con me, o con tuo padre, lo capisco."

"Non sono arrabbiata. Sono solo triste." Via scosse la testa, poi si corresse. "Non è vero, sono anche arrabbiata."

"Certo che lo sei." Stella assunse un tono complice. "D'altronde sei mia figlia, la rabbia è di famiglia. Ma... tesoro...esternare le emozioni, a volte, fa meno danni che trattenerle."

"Lo so." Sulle labbra di Via comparve un accenno di sorriso, poi le sfuggì una risata nervosa. "L'ho notato."

Ora erano di nuovo sedute, circondate dall'odore pungente di stoffa bruciata e da quello dolciastro della marmellata.

"Mamma, quindi..." domandò Via in un filo di voce "...tu e papà non vi volete più bene?"

Stella sapeva che la domanda era un'altra, ma fu grata che Via non gliel'avesse posta.

"Certo che ci vogliamo ancora bene."

"E allora... perché?"

"Via...Crescendo avrai modo di comprendere che le situazioni non sono solo bianche o nere, buone o cattive. C'è sempre una scala di grigi di cui tenere conto. Se desideriamo che qualcosa vada bene, che sia un'amicizia o una relazione, è necessario impegnarsi, giorno dopo giorno. Ma a volte può capitare che anche dopo tanto impegno e tanta cura, le cose finiscano per non andare come speravamo. E si può cadere nella tentazione di incolpare l'altro, o sé stessi, o di prendersela con qualcuno o qualcosa all'esterno. Ma la verità è che nei rapporti ci sono così tanti fattori di cui tenere conto che..."

Stella sospirò, la guardò negli occhi e le rivolse un sorriso morbido e dolce.

"Insomma, quello che cerco di dire è ciò che succede tra me e tuo padre è ... complicato. Ma non vogliamo che diventi qualcosa di brutto. E a volte per fare in modo che quanto c'è di bello e di buono rimanga tale, ci si deve allontanare. Prima che si dica o si faccia qualcosa che posso rovinare tutto in modo irrimediabile. E, te lo ripeto amore mio, noi ti amiamo, ed è una cosa che non cambierà. E ci saremo sempre per te, in ogni momento, sia che viviamo sotto lo stesso tetto sia che io sia dallo zio Andre o da qualsiasi altra parte."

"Credo di... capirlo. Più o meno."

Via adesso aveva negli occhi quell'espressione di concentrata che aveva caratterizzato il suo viso di bambina, alla fronte aggrottata si affiancavano le guanciotte arrossate, e uno sguardo accigliato che la faceva somigliare tanto a sua madre. Stella la abbracciò di nuovo senza parlare. Ora poteva sentire il respiro di Via regolarizzarsi pian piano, e il cuore di sua figlia battere all'unisono col suo.

***

Il sole moriva ormai sull'orizzonte quando Stella si presentò al palazzo di Andrealphus. In quel luogo innevato, sordo al mutare delle stagioni, l'inverno era l'unico momento dell'anno in cui il palazzo non sembrasse racchiuso in un'altra dimensione. La neve cadeva lenta e inesorabile, e intorno regnava un silenzio irreale. Era scesa di fronte al cancello e aveva congedato la servitù che l'aveva accompagnata. E così, sola, tutta avvolta nella cappa di lana di un malva chiarissimo, si trascinava dietro la valigia di cuoio.

In verità, anche se da più di un anno lei e suo fratello si erano riavvicinati, e nonostante Andrealphus l'avesse invitata di frequente, lei non aveva mai avuto occasione di tornare in quella casa o, ad essere del tutto sinceri, non ne aveva avuto il coraggio. Aveva detto a Stolas che lì sarebbe stata bene, che era ormai un posto diverso, ma ora, nel percorrere il vialetto di pietra, la invadeva il timore che il palazzo di suo fratello fosse ancora abitato dagli spettri di un'altra vita.

Sulla soglia l'accolse un domestico che si premurò di liberarla della valigia, e Andrealphus le corse incontro con un'espressione di preoccupazione.

"Stai bene?" domandò. Stella annuì. "Che cosa è successo?" incalzò Andrealphus. "È per ieri sera? Stolas non mi sembrava arrabbiato che tu fossi arrivata tardi... E non mi sembra il tipo di uomo che..."

Stella scosse la testa. "Non è per ieri sera." Poi si stinse nelle braccia. "Fa freddo." Mormorò, e il fiato creò una piccola nuvola bianca nell'aria.

"Oh, sì, mi dispiace." Andrealphus le afferrò la mano guantata e si affrettò a farla entrare, poi richiuse il portone dietro di loro.

L'interno del palazzo, agli occhi di Stella, somigliava alla casa che aveva abitato nell'infanzia, ma al contempo era un luogo diverso. Sulle pareti color azzurro polvere, chiare e ariose, prima coperte di dipinti guerreschi e di ritratti di loro padre in alta uniforme, erano ora esposti dipinti di stampo naturalistico: ruscelli, e laghi, e vallate fiorite, loci amoeni di ogni sorta che – e questo la fece sorridere – richiamavano la primavera. Le tende di velluto scuro avevano lasciato spazio a tende di tulle bianco o panna, i pesanti lampadari d'ottone erano stati sostituiti da lampadari di cristallo che riverberavano la luce. In fondo all'androne, dove si apriva la doppia scalinata, stava l'unico ritratto di famiglia che li ritraesse senza loro padre. C'era la loro madre con addosso un abito color miele accollato, liscio e senza ricami, con le stesse maniche a sbuffo di quello che aveva trovato anni prima nei bauli di lei. I capelli bianchissimi semi-raccolti le ricadevano morbidi sulle spalle, e sulle labbra sottili emergeva l'ombra di un sorriso misurato e buono. E c'era lei bambina, di tre o quattro anni al massimo, con una buffa espressione imbronciata, che sedeva in braccio a sua madre, e indossava un abitino panna con dei piccoli fiori rossi ricamati sopra. Teneva la mano a suo fratello, che stava in piedi, ordinato e pettinato di tutto punto, con sul viso un'espressione seria e assorta.

Stella si fermò per un istante a guardare il ritratto. Non ricordava di avere posato, e non ricordava che quel ritratto esistesse. E a giudicare dall'espressione imbronciata, posare doveva essere stato per lei davvero noioso ma, quando lo vide, fu grata alla noia che doveva aver provato quel giorno.

"Dove lo hai trovato?" domandò a suo fratello.

"Tra le tante cose che dovevamo dimenticare, nelle stanze chiuse della mamma."

Stella sorrise. "Non sei cambiato, sei ancora così: ordinato e serioso."

"E tu fai ancora quella faccia quando ti arrabbi."

Sul viso di lei comparve quella buffa espressione imbronciata. "Non è affatto vero!" si difese, e ad Andrealphus scappò una risata.

Cenarono insieme, e fu allora che Stella gli raccontò quello che era accaduto o, per meglio dire, quello che non era accaduto. Gli disse che con Stolas, la sera prima, non c'erano stati litigi, che anzi avevano passato momenti sereni. Gli raccontò che, mentre tornavano a casa, l'aveva colta la sensazione che fosse quello il momento giusto di parlargli di separazione e, nell'istante in cui si era convinta, aveva appreso che anche Stolas stava avendo gli stessi pensieri. Tenne per sé quello che si erano detti, e ad Andrealphus disse solo che avevano deciso di allontanarsi per smettere di ferirsi, e Andrealphus capì quella decisione più profondamente di quanto lei potesse immaginare. Non pianse, perché non provava tristezza, solo una malinconia dolce per tutto quello che aveva lasciato indietro: poter dare la buonanotte ad Octavia o rimboccarle le coperte ogni sera, sentire la sua voce colma di entusiasmo per qualcosa che era accaduto in Accademia o alle lezioni di scherma, vederla scendere le scale ancora assonnata e coi capelli arruffati...

"... è così buffa al mattino, i capelli le si annodano e sembrano un nido. Mi mancherà pettinarla. È l'unica cosa che mi lascia ancora fare qualche volta. Quando le pettino i capelli chiacchieriamo sempre, è il momento in cui si apre di più alle confidenze. Sai, Andre? Credo che si fidi di me, ovvio, è una ragazza adesso, è giusto che custodisca delle cose che siano solo sue, non mi dice tutto, ma mi dice molto e di questo sono grata. A volte mi dico, allora forse abbiamo fatto un buon lavoro, io e Stolas. Sì. Ci sono tante cose alla cui assenza dovrò abituarmi. Penso a cose banalissime Andre, la camera da letto, e svegliarmi in un posto che all'inizio mi sembrerà così estraneo. E il clima... ci si abitua? Dimmi che ci si abitua! E forse sentirò la mancanza della routine, delle cose che ho fatto come un automatismo per anni, o dei piccoli dettagli a cui ormai ero assuefatta ma la cui assenza, magari, mi riempirà di nostalgia..."

...le passeggiate con Stolas nell'orangerie, il fiorire delle rose in Giugno, il suo entusiasmo per le dalie in Agosto, l'odore di terra umida nella serra, la luce fioca delle candele che filtra di notte da sotto la porta della sua biblioteca, le carte astrali arrotolate su sé stesse e dimenticate ovunque, la toga dell'Accademia sfilata distrattamente e lasciata cadere sulla poltrona del salotto da tè, il colore di un'alba condivisa attraverso le tende violette, le costellazioni dipinte sul soffitto...

"...Stella?"

Stella trasalì, suo fratello la guardava con occhi curiosi, e in preda al timore di non saper gestire quella situazione.

"Sì?"

"Mi stavi parlando e all'improvviso non hai più detto niente..."

"Oh. Sì. Scusami."

"Sei sicura di stare bene?"

Lei sorrise. "Sì, Andre. Sto bene. Ci sei tu e sono... a casa. Sono solo..." esitò un istante "... ho un po' paura. È come ricominciare daccapo, e ho la sensazione di non avere niente, e di non sapere nemmeno da dove partire."

Andrealphus avrebbe voluto dirle che aveva lui, e quel palazzo, e ogni cosa che al suo interno, e avrebbe potuto fare la stessa vita che faceva prima: la musica, i romanzi, la magia, le feste. Ma sapeva che Stella non parlava di quello. E sapeva che cosa volesse dire avere la sensazione che tutto quello che nella vita avesse mai considerato suo, fosse in realtà legato a qualcun altro o a qualcos'altro, e sapeva quanto quella sensazione potesse essere destabilizzante e quanta frustrazione portasse con sé.

"Tra noi due sei sempre stata quella più forte e ostinata. Dal nulla costruirai tutto quello che desideri. Io lo so, lo sei fin da quando eri bambina e ho tanto invidiato questo tuo lato, ma ora lo ammiro soltanto, e desidero vederti realizzata e felice." Disse allora. "Ma so anche che eri una bambina impaziente, e questa impazienza ce l'hai ancora. Datti tempo. È la prima sera. Capirai da dove partire e quello che vuoi."

Sua sorella scoppiò in una sincera risata. "Fare l'asceta nella neve ti ha reso saggio."

Poi parlarono d'altro, di cose sciocche e frivole e mentre la sera faceva strada alla notte, le chiacchiere si facevano sussurri, e le cose frivole e sciocche si mutavano in ricordi dolci e dimenticati.

E così, in quella casa che temeva fosse ancora abitata da fantasmi spaventosi, Stella scoprì che, se davvero c'erano degli spettri, doveva certo trattarsi di spettri benevoli. Il male e il dolore non vi abitavano più, erano solo un'ombra sbiadita di un altro tempo. Suo fratello, in qualche modo, era riuscito a esorcizzarli: forse con i colori chiari e i lampadari di cristallo, forse con il ritratto della loro madre e i paesaggi fioriti alle pareti; o forse era lei che in tutti quegli anni, silenziosamente e inesorabilmente, era cambiata, fino a non essere più la bambina che teme i mostri.

Gli disse anche questo, e Andrealphus gli confessò di averne ancora paura.

"Sei sempre stato più fifone di me."
"Non è assolutamente vero. Eri tu quella che veniva a cercarmi se aveva un incubo, o se fuori c'era un temporale."
"Ero solo una bambina! E di giorno non temevo niente!"

Continuarono a parlare a lungo e di molte cose. Dei bambini che erano stati, e degli adulti che erano diventati. Di come avevano rischiato di perdersi e di come erano grati di essersi ritrovati. Parlarono della loro madre con una naturalezza che sembrò loro del tutto nuova. La casa ora era sicura, e i ricordi potevano affiorare liberamente: da un pomeriggio trascorso al fiume alle parole di una ninna nanna che entrambi ricordavano. E così, tra una parola e l'altra, tra un ricordo e una confessione, si concessero anche il tempo di bere un bicchiere e di brindare alla libertà. Qualsiasi cosa significasse.

Chapter 49: Togliersi la maschera

Summary:

Stella e Stolas cercano una realizzazione personale al di fuori del matrimonio. Nel frattempo, riescono a parlarsi sinceramente per la prima volta.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Togliersi la maschera
 

Le prime volte all'Opera era stato tutto un preoccuparsi di risultare anonima e invisibile. Un abito sobrio dai colori tenui, i capelli raccolti con cura e semi-coperti da un cappellino, la borsa in tinta con dentro il biglietto e il libretto dell'Opera in questione. Stella non sceglieva mai i palchetti centrali, e riservava sempre l'intero palchetto, anche se era da sola. Entrava per ultima, quando tutti avevano già preso posto, e sedeva nel buio su una delle poltroncine rosse.

E poi, quando si apriva il sipario, si immergeva nella magia del teatro: si meravigliava come una bambina dello sfarzo dei costumi, lanciava occhiate curiose all'orchestra sotto il palcoscenico e si lasciava ipnotizzare dai movimenti del direttore.

Oppure si faceva prendere dagli eventi della trama, dalle avventure e disavventure dei personaggi, o ancora si abbandonava ad una qualche aria magistralmente eseguita, ritrovandoci dentro sentimenti ed emozioni che poteva riconoscere, o scoprendone di nuovi che mai aveva provato e che, per i pochi momenti che stava ad ascoltare, faceva suoi.

Durante gli intervalli, le prime volte, non era uscita dal palchetto, non aveva voglia che la sommergessero di domande su dove fosse il principe Stolas o sul come mai fosse da sola; la separazione era ufficiosa e lo sarebbe rimasta sempre, e lei aveva solo voglia di godersi un po' di tempo di qualità, fuori dalle mura del palazzo, come per anni non aveva fatto.

Si era resa conto ben presto, però, che chiudersi nelle rassicuranti pareti del palchetto non era poi così diverso dallo star chiusa dentro il palazzo. E un senso di isolamento la coglieva nel vedere la platea rimanere vuota, e nel sentire il rumore delle décolleté delle donne e dei tacchi delle scarpe da uomo che si riversavano nell'androne del teatro, e poi il brusio che ne veniva fuori, ed echeggiava nei corridoi a semicerchio fino a raggiungerla.

Che non fosse fatta per il solitario raccoglimento che tanto caratterizzava Stolas già lo sapeva, ma uscire nel mondo per poi restare sola le acuiva quel bisogno di contatto con l'altro: da sempre la folla la rassicurava, la compagnia le dava un senso di serenità.

Se non aveva dato una chance agli avventori del teatro, era stato perché non voleva dare spiegazioni sulla propria condizione, ma già al quarto spettacolo passato a nascondersi si era stufata, soffocata dal rumore del silenzio. Così, il bisogno di sottrarsi alla noia e alla malinconia l'aveva portata ad aprire la porticina e a mescolarsi tra la folla nel foyer.

Non ci trovò nessuna delle vecchie compagne del collegio, ma ci trovò alcuni dei Conti e dei Duchi che sapeva prendessero parte, con suo fratello, in Assemblea, e illustri sconosciuti di una classe altoborghese che non aveva frequentato mai.

Ma mentre i volti a lei noti non erano molti, il suo volto era noto a tutti. E quando la prima delle dame presenti la notò, fu inevitabile che tutti la notassero, e che venisse sommersa dai mille "Principessa!" "Vostra Altezza". Subito seguiti da tutte quelle domande che aveva previsto.

"Il Principe non è con voi?"
"Nessuno vi accompagna?"

Lei si era limitata a pronunciare con noncuranza una mezza verità: il Principe Stolas era impegnato in Accademia, ora che uno dei dipartimenti era sotto il suo controllo gli impegni si erano moltiplicati, e aveva poco desiderio di prendere parte agli spettacoli teatrali. E sì, era sola, ma preferiva passare quei momenti liberi a fare qualcosa che, in ogni caso, il principe non avrebbe gradito.

Se c'era stata sorpresa nel sentirsi rispondere così non lo lesse negli occhi degli astanti, lesse però curiosità sulla sua persona, difficilmente l'avevano vista in pubblico senza Stolas o senza Octavia, e quella, credeva, era una novità che avrebbe fatto parlare. E di fatto accadde, per qualche spettacolo, agli intervalli, gli occhi si fermavano su di lei, e gli avventori le facevano le solite domande, e quando lei rispondeva senza scomporsi sempre la stessa cosa, un brusio sommesso si levava puntuale e inevitabile.

Dopo qualche settimana, la presenza della principessa, non accompagnata, a teatro, divenne però cosa nota e non generò più sorpresa o curiosità, d'altronde, come ripeteva sempre Stella: il principe aveva le sue obbligazioni, e una signora doveva pur trovare un modo per passare il tempo. Le domande di rito, allora, lasciarono spazio alle chiacchiere sull'Opera, e lei decise che se doveva essere libera, sarebbe stato giusto esserlo del tutto, anche nel prender parte, finalmente, alla conversazione. E così si poteva sentire la sua voce echeggiare nel foyer del teatro:

"...e poi provo una certa simpatia per Rosina, è brillante e scaltra. Mi conquista ogni volta nella sua cavatina: docile e ubbidiente, ma solo finché non le si tocca ciò che ha di più caro!" [1]

"...L'istante prima ridiamo di Leporello, anzi con Leporello, l'istante dopo assistiamo ad una tentata violenza, un duello e un omicidio. Ed ecco che le risa si mescolano con l'orrore. Una commistione perfetta di comico e tragico. E di cosa vi sorprendete? Non è forse tale la vita di tutti noi? Grandi risate e indicibili drammi..."[2]

"...una fanciulla che vince tutto con la bontà e la pazienza, e perdona i suoi aguzzini dopo una vita di soprusi? Inverosimile la prima cosa, inaccettabile la seconda!"[3]

"... Come dite? Irrazionale e vendicativa? È furiosa e passionale, e non la biasimo. Io non posso condannarla per averci provato, per aver consegnato quel pugnale a Pamina... E non leggo la sua sconfitta come un trionfo del bene sul male, ma come l'esilio delle calde emozioni in nome della fredda ragione. Se questo, per voi, è un lieto fine..."[4]

Ben presto, durante gli intervalli, tutti si ritrovarono ad attenderla per scambiare due chiacchiere con lei. Giudicava senza filtri questo o quel personaggio, o l'interpretazione della nuova soprano, o una scelta di regia che le era piaciuta particolarmente o che le aveva fatto storcere il naso, e sull'orchestra aveva sempre una parola gentile. Così, dopo tempo, per coloro che ogni settimana la incontravano a teatro, era Stella, la principessa certo, ma non più solo la moglie del principe.

Tuttavia, nonostante i ritrovati momenti di convivialità, lei non smise mai di riservare l'intero palchetto per sé, lo spettacolo era un momento che voleva godersi in solitudine.

Un uomo di quelli che aveva classificato come "altoborghesi" le si avvicinò una sera presentandosi come direttore del Notizie dalla Maschera, un quotidiano particolarmente attento al teatro e alle arti. Le domandò se potesse intervistarla, di tanto in tanto, riguardo alle sue impressioni su questo o quello spettacolo.

"Ai lettori piacerebbe la vostra opinione."
"Voi dite?"
"Ma certo! Guardate come vi attendono tutti nel foyer all'intervallo!"

Stella ci aveva pensato un momento, e poi aveva rivolto all'uomo un mezzo sorriso.

"Mi piacerebbe collaborare con voi, ma non voglio essere intervistata. Non mi piace che gli altri interpretino ciò che intendo dire."
"E cosa volete, allora?"
"Scrivere io stessa, riguardo ciò a cui assisto. Delle recensioni, se così vogliamo chiamarle.".
L'uomo alzò un sopracciglio. "Perdonatemi... mi state chiedendo di dedicarvi uno spazio sul mio giornale per una rubrica personale?".
"Oh, non a scatola chiusa. Vi farò recapitare qualche riga sullo spettacolo di oggi, se vi piacerà avremo un accordo."
"Con tutto il rispetto, principessa, ma non credo vi serva un...lavoro."
Stella rise di gusto a quella reazione. "Non dovrete preoccuparvi del denaro, se è questo che vi impensierisce." Rispose. "Non desidero essere pagata, desidero essere ascoltata."

Forse fu l'allettante proposta di una opinionista-nobile-non-stipendiata, o forse furono le poche righe sullo spettacolo di quella sera, ma Stella ottenne presto una rubrichetta settimanale, della lunghezza di due cartelle editoriali, che prese a riempire, con una certa soddisfazione, di opinioni sfacciate e di pungente ironia.

Andrealphus portò a casa il quotidiano che conteneva il primo pezzo un venerdì sera, di ritorno dall'Assemblea. Stella era con Via: da ormai diversi mesi, finita la settimana in Accademia, Via passava il fine settimana con sua madre al palazzo dello zio. Alla singolare condizione meteorologica si era abituata presto, e continuava a rassicurare Stella che tutto il calore di cui aveva bisogno stava nella sua compagnia "...e nei camini accesi" si premurava poi ad aggiungere, con una punta di divertimento nella voce.

Andrealphus le trovò a ridere e chiacchierare sommessamente di fronte alla grande finestra del salotto, mentre facevano un gioco sciocco: generavano piccole fiamme e imprimevano, nello strato di neve sul davanzale della finestra, disegni stilizzati, giocando a indovinare l'una cosa avesse voluto rappresentare l'altra.

"Via!" esordì suo zio, sventolando due copie del Notizie dalla Maschera, con un tono di entusiasmo ed orgoglio. "Tua madre è una giornalista!"

Via gli corse in contro per prendere il giornale e leggere finalmente quell'articoletto d'opinione su cui sua madre era stata tanto ritrosa nel mostrarle un'anteprima. Stella fu colta, invece, da un improvviso moto di imbarazzo.

"Andiamo Andre, stai rendendo enorme una piccolezza!"

"Una piccolezza? Le cose che blatero in Assemblea le ascoltano cento persone, tu sei letta da tutto il Cerchio."

"Smettila di fare così!" fece Stella, mentre un leggero rossore le colorava le guance.

La risata di Via echeggiò nella stanza. "Si vede proprio che lo hai scritto tu!" disse.

"È una cosa positiva, spero." Rispose sua madre.

"Molto." Via le sorrise. "Tu lo hai letto, zio Andre?"

"Due volte." Disse lui fieramente, le guance di Stella avvamparono di nuovo.

"Dai, fatemelo vedere!" esclamò poi, curiosa, e Via le porse il giornale. Così fu la terza a vedere, incorniciato a pagina cinque, il suo breve pezzo, e una sensazione nuova di appagamento la invase per quella piccolezza che le apparteneva pienamente.

Stolas, anche se Stella non lo aveva saputo subito, l'aveva letta dalla copia che Octavia, nel tornare a palazzo, aveva portato con sé. E, da allora, nello studio del principe, non sarebbe mai mancata una copia del Notizie dalla Maschera.

***

Accadde un lunedì, al mattino. Stolas ebbe l'impressione che ci fosse qualcuno nelle stanze di Stella, doveva essere certo uno dei domestici che dava una spolverata. In quelle stanze, ormai, non era rimasto che qualche baule, oggetti di poco conto e qualche vestito che lei non indossava da tempo. Quando era andata via, aveva detto che avrebbe mandato qualcuno, ma poi le settimane si erano fatte mesi, e nessuno si era premurato di recuperare quelle cose ordinatamente sistemate in un angolo della stanza.

Ma, quando si affacciò sulla porta, dentro la stanza non ci trovò nessun domestico. Vide invece Stella di spalle che si guardava nello specchio, con addosso l'abito viola cangiante della sera dell'equinozio. Sentì una piccola fitta sotto lo sterno.

"Credevo temessi gli specchi." Disse, ed entrò appena sull'uscio.

Stella sussultò, e non si voltò a guardarlo, perché poteva vederlo alle sue spalle, nel riflesso. Anche lui poteva vederla nello specchio, era arrossita, come se fosse stata colta a fare qualcosa di segreto e inappropriato. E sul volto l'espressione dura era addolcita da un velo di malinconia.

"Spero che tuo padre abbia di meglio da fare, piuttosto che stare a guardarmi mentre provo un vecchio vestito."

"Che ci fai qui?" domandò Stolas.

"Non pensavo fossi in casa. Ero venuta a riaccompagnare Via. E ho visto che avevo lasciato qui delle cose."

Anche Stolas, adesso, era rosso in volto, e si sentiva come quella volta che aveva frugato nel passato di lei nella casa del Marchese: un intruso, in qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.

"Mi sta ancora." gli disse Stella, passandosi le mani sulla gonna, e sulle sue labbra comparve l'ombra di un sorriso.

"Sei sempre bella." disse lui "Come quella sera."

Si avvicinò di qualche passo, e le appoggiò una mano sul fianco.

Lei fece un ampio respiro e poi si voltò a guardarlo: "Quella notte è stato il momento più bello della mia vita. Dopo la nascita di Via, si intende. Ma ha il suo ottimo secondo posto nella scala dei momenti felici."

Stolas le rivolse uno sguardo sorpreso, e sentì un nodo stringergli la gola.

"Per una sera siamo stati solo due ragazzi giovani e felici." continuò lei "Mi hai regalato la spensieratezza. Non ti ho mai ringraziato per questo."

Il principe non sapeva cosa dire. Lo aveva colto alla sprovvista. Non si aspettava di vederla lì. Non si aspettava di vederle quell'abito addosso. Non si aspettava che gli avrebbe detto quelle cose.

"Io... Non ho una gerarchia dei momenti felici. Ma di certo quello vi appartiene." Rispose "Insieme alla nascita di Via e insieme a molti altri... e sono io che dovrei ringraziarti per molte cose, cose che mi hai insegnato, e cose che mi hai fatto provare."

Stella spalancò gli occhi, ora era lei a non sapere cosa dire. La stanza sembrava ospitare memorie di un altro tempo, sembrava condensare tutti i loro anni insieme. E così loro si trovarono smarriti, con solo la forza di parlare in un sussurro.

Stolas sedette sul bordo del letto, alzò lo sguardo verso di lei e continuò:

"Lo sai? Anche dopo tutti questi anni non smetti di sorprendermi, di lasciarmi senza parole." Disse poi con un sorriso mesto. "Abbiamo condiviso la vita, ma a volte ho la sensazione di non essere riuscito a comprenderti o a conoscerti pienamente. Me lo sono chiesto tante volte, in questi anni, quanto fossi riuscito veramente a scoprire di te..."

"Per tante cose non c'è rimedio, ma per questa, se lo vuoi, c'è." disse lei. Si mosse verso il comodino, poi esitò. Aprì il cassetto, scostò la biancheria che, per qualche motivo, era ancora lì. E lì sotto, sepolta tra le mutandine e le calze di seta, tra i reggiseni di pizzo e calzini di cachemire stava una piccola pila di quadernini rosa, legati tra loro con un nastro violetto. Glieli diede.

"Questa sono io. Te li lascio, li puoi leggere. Ma li rivoglio indietro quando finirai. C'è tutta la mia vita. C'è la mia infanzia. C'è mia madre. C'è Andrealphus. Ci sono tante cose che non sai. C'è quella notte Stols... c' è mio padre e piú dolore di quanto tu possa sopportarne.

Ci sei anche tu, per una buona parte. C'è Via. Ci sono quegli anni bellissimi in cui ho creduto che noi... ci sono pagine piene di gioia e di malinconia. Di anni vissuti aggrappata a una serenità che speravo non finisse. C'è anche la noia dei giorni uguali e la polvere sedimentata del disinteresse. Ci sono pagine piene di disperazione e di rabbia e, verso la fine, pagine di disillusione e di parole di cui mi vergogno. Ma magari non leggerle, o se le leggi, non credere fino in fondo a quello che leggerai.

Vuoi conoscere tua moglie? Non è tardi, ma credo non mi vedrai più con gli stessi occhi. E forse è meglio così. Vuoi conoscere la madre di tua figlia? Eccola, nero su bianco. La mia grafia la capisci. Avresti potuto chiedere in qualsiasi momento, ma forse non esisteva momento migliore di questo.

Però sappi che li rivoglio, devi trattarli con cura. Sono l'unica cosa che mi resta come testimonianza di me stessa, del mio vero io, prima che fossi soltanto una figlia, una moglie, o una madre. Una me stessa intera, che spero sia ancora da qualche parte.

Te li consegno come una confessione, come un segreto, Stols. Questa è la parte più intima di me, la parte più vulnerabile, ci sono dentro tante cose che non ti ho detto, tante cose che non riuscirei ancora a dire ad alta voce. Io mi fido di te, e voglio che tu mi conosca davvero. Ma ti chiedo di farmi una promessa. Che le cose che leggerai rimangano tra me e te, che restino solo tra noi. E che tu non inizi a provare pena per me, e che non... non ti venga in mente di fare nessuna sciocchezza. Lo prometti?"

Stolas la guardava come ipnotizzato, e ancora una volta tornava a domandarsi chi fosse la donna che gli stava di fronte, e in che modo i mille frammenti di lei componessero quella creatura misteriosa e sfuggente.

"Lo prometto." Le rispose in un sussurro.

Lei si chinò verso di lui e gli posò un bacio lieve sulla fronte. "Grazie, Stols."

Poi si diresse verso la porta, e il principe la guardò andare via, nell'abito viola che tanto significava per lui e per loro.

Quando rimase solo con il plico di quaderni sulle ginocchia, sciolse il nastro viola che li teneva insieme. Tra le pagine trovò tre fiori essiccati: un fiore d'arancio della loro prima notte, una margherita della sera dell'equinozio, una rosa di chissà quale fioritura, forse dell'estate in cui aveva scoperto di aspettare Via. La vecchia fotografia di Stella bambina, strappata e ricomposta. Una foto del primo compleanno di Octavia. Un biglietto di ingresso sbiadito del parco divertimenti. Un nastro di seta rosa, e un quadrato di stoffa dello stesso colore.

E poi, da qualche parte, tra il terzo e il quarto quaderno, scivolò via un biglietto profumato, accuratamente ripiegato in quattro. Era per lui.

«Stols,

Mentre scrivo non so ancora come questi quaderni giungeranno a te. E forse il "come" non è così importante. Che io te li abbia consegnati o che tu me li abbia domandati, che tu li abbia trovati frugando tra i cassetti della camera da letto o che io li abbia lasciati in bella vista sul tavolo da pranzo, spero che tu sia arrivato fino a qui senza odiarmi e senza compatirmi. Senza provare pena né disprezzo.

Li stavo scrivendo per me ma, a un certo punto, mi sono accorta che li stavo scrivendo per noi. Perché restasse una traccia, di me, di te, dei due giovani sposi che siamo stati una volta, quando non siamo stati capaci di amarci, ma non ci odiavamo ancora. Quando tutto l'amore che non abbiamo saputo darci aveva ancora la forza di un affetto in grado di tenerci insieme.

Comunque sia andata, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, e in tutte quelle stronzate che si dicono in questi casi, consapevole che non sarà la morte a separarci, ma i nostri muri di silenzi e incomprensioni... spero che quello che abbiamo vissuto, alla fine, rimanga per noi qualcosa di più che la semplice storia di un matrimonio.»

***

Stolas aveva riletto quel biglietto molte volte nei giorni in cui aveva tenuto i quaderni con sé, e li aveva custoditi davvero con la cura che le aveva promesso.

Le giornate, per lui, non erano divenute diverse rispetto a come le aveva trascorse prima di quell'incontro. Il nuovo ruolo in Accademia gli aveva dato un piccolo margine decisionale sulla riformulazione dei corsi di Magia Cosmica, e anche una certa dose di un coraggio che non sapeva di possedere.

Da qualche mese, infatti, aveva preso a combattere la sua piccola battaglia riguardo alla codificazione, graduale e parziale – perlomeno all'inizio – degli incantesimi inerenti ai riti del raccolto, così da affrancarli dall'ingrato esilio in cui li relegava l'etichetta della superstizione. Se ne andava per le accademie minori, e i circoli, e i salotti, a presentare le evidenze riguardo alla carica magica intrinseca nelle parole e nei gesti delle invocazioni. Sull'argomento aveva scritto diversi saggi, che nei mesi aveva fatto recapitare sotto forma di pamphlet a colleghi vicini e lontani.

E non c'era mattino in cui non si dedicasse agli studi, e in cui alle vecchie ricerche non ne aggiungesse di nuove, provenienti da antichi grimori o dai libri di storia o astronomia dell'ampia biblioteca dell'Accademia, o dai cosiddetti racconti del folklore, nei quali individuava spunti e dettagli da cui partire per esplorare nuove vie di applicazione di una magia delle stelle così a lungo dimenticata.

Così come non c'era pomeriggio in cui non dedicasse almeno qualche ora alla cura della serra, e in cui non si meravigliasse di un nuovo germoglio o del rigoglio di una specie che credeva inadatta all'ambiente e che, invece, aveva attecchito. Ed era in quei pomeriggi trascorsi a potare le rose, ad annaffiare le dalie, o a rinvasare una succulenta che si era fatta troppo grande, immerso nell'odore di terra umida e nel profumo dei fiori, che comprendeva come mai tenesse tanto ai riti del raccolto, e si scopriva legato alla terra tanto quanto lo fosse al cielo.

E se era vero che le giornate le trascorreva allo stesso modo di sempre, era anche vero che non passava notte in cui non leggesse i quaderni di Stella, con la stessa meticolosa attenzione che impiegava nello studio degli incantesimi.

Ogni sera, dopo cena, quando era ormai certo che Via dormisse o che fosse troppo immersa in uno dei suoi romanzi per curarsi di lui, si rifugiava da solo in biblioteca, e da uno dei cassetti chiusi a chiave, estraeva il plico di quaderni. Così, nella stessa biblioteca in cui per tante notti si era nascosto da Stellasi addentrava nelle parole di lei con lo stupore e lo sgomento di chi possiede ancora un'intoccata innocenza.

Alcuni passi li leggeva più volte, e si fermava a meditare su un evento, su una scelta di parole. Su di lei, e su sé stesso, e su come lei lo aveva visto in quegli anni.

Il trascorrere dei giorni uguali, tra i libri, la serra, l'osservatorio, assumevano ogni notte un risvolto diverso, e si trovava a sorridere, o a farsi attanagliare dalla nostalgia, o a piangere silenziosamente turbato dal peso della verità. E come le aveva promesso non provò pena, solo un'ammirazione profonda, e uno sconvolgimento dell'animo di un'intensità che mai aveva conosciuto. E, come le aveva promesso, non fece nessuna sciocchezza, seppure una rabbia viscerale gli chiudesse lo stomaco e gli bruciasse le membra.

Quando finì di leggerli non trovò il coraggio di riconsegnarli subito, come se tenerli con sé potesse rivelargli altri segreti, come se la carta avesse vita propria e potesse sussurrargli qualcosa di non scritto. Non riuscì, per un po', a trascorrere il tempo immerso negli studi: i giorni erano colmi delle parole di lei, e dell'immagine, mai chiara come allora, della donna con cui aveva condiviso la vita.

E poi, in un giorno qualunque e senza motivo apparente, si sentì pronto a restituirle i quaderni. Rilesse ancora una volta il biglietto che lei aveva allegato, li ordinò meticolosamente dall'ultimo al primo, allo stesso modo in cui li aveva ordinati Stella, li legò insieme con lo stesso nastro viola.

Via lo vide affidare con fare cauto un pacchetto ad uno dei suoi domestici, e fargli mille raccomandazioni con l'aria mesta e colma di apprensione di chi si separa da qualcosa di prezioso. Poi lo vide tornare con quell'aria meditabonda nella sala da pranzo, e versarsi appena due dita di tè. Rimase a scrutarlo curiosa, per scorgere dentro di lui una risposta a tutta quella segretezza e a tutta quella nostalgia.
Suo padre alzò gli occhi verso di lei, e le rivolse un sorriso.

"Tesoro mio, ti va... ti va di aiutarmi nella serra questo pomeriggio?"

Via corrugò la fronte. "Certo, sì. Ma... va tutto bene, papà?"

"Sì." Rispose lui. "Voglio solo passare del tempo con la mia bambina."

***

Quella stessa sera Stella trovò, sullo scrittoio delle sue stanze, la scatola contenente i suoi quaderni, accuratamente riordinati e intonsi, legati tra loro con lo stesso nastro viola. In cima al plico di quaderni stava una busta bianca che recava scritto il suo nome, nella grafia elegante e minuta di Stolas. Se la rigirò tra le mani, colma di curiosità e di timore. Poi sedette sul bordo del letto e l'aprì:

«Stella,

Che io non ti abbia mai amata non è del tutto vero. L'ho fatto, solo che non ho saputo amarti intera.
Per me sei sempre stata un rompicapo, un puzzle di cui, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a mettere insieme i tasselli.

Ma ti ho amata nei dettagli. Ti ho amata nei tuoi polsi bianchi e magri, nel modo in cui i corsetti ti abbracciavano la schiena. Ti ho amata nel modo in cui lasciavi che la luce si posasse sulle tue palpebre chiuse, al mattino, nella nostra camera da letto.

Ti ho amata nel tuo sapore di caramello, ti ho amata nell'ascoltarti suonare un'elegia di cui non conosco il nome, una volta, di nascosto, tanti anni fa. Ti ho amata, e ammirata, nel tuo tacito modo di ribellarti, e ti ho amata nel tuo modo di ergerti, spavalda, di fronte a mio padre.

Ti ho amata in ogni storia che hai raccontato a Via, e in ogni sogno che hai domandato a me. Ti ho amata nel tuo modo di cercare la mia mano di notte, e nel tuo modo di respingermi, nella fronte aggrottata, nell'espressione dura.

Ti ho amata, intensamente, tutte quelle volte che sei stata più forte, più coraggiosa, più caparbia di me.

Non ho saputo ricomporti - non ho voluto? Forse, mi sarebbe servito il tuo coraggio - e ho contribuito a far crollare tutto.

Ti ho amata per la tua sete di libertà.

Quella libertà che ti ho tolto, anche se non lo volevo.

Quella libertà che ti ho reso nel modo peggiore, e per questo ti chiedo perdono.

Ma ora quella libertà è tua, e mia.
E se un giorno riusciremo a parlare di nuovo, vorrei tanto che mi insegnassi come si usa.

Con tutto l'amore che non ho saputo darti,

Tuo,
Stols»

 

 

 

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PS: Se non vi siete ancora stufati di leggere, qui sotto trovate i riferimenti riguardo alle Opere che cita Stella:

[1]Rosina è la protagonista femminile de "Il Barbiere di Siviglia" di Rossini. La cavatina a cui Stella fa riferimento è "Una voce poco fa."
[2]Si parla del "Don Giovanni" di Mozart, è un dramma giocoso caratterizzato davvero da commistione di comico e tragico.
[3]Si riferisce ancora Rossini, questa volta in relazione a "La Cenerentola."
[4]Questa è un'opinione personale di Stella, inerente al "Flauto Magico" di Mozart. La dicotomia male-bene e emotività-ragione a cui si riferisce riguarda i personaggi contrapposti di Astrifiammante (Regina della Notte) e di Sarastro, che incarna la luce e la ragione. Qui Stellina "empatizza" con Astrifiammante. Sta un pochino "proiettando" alcuni sentimenti e desideri inespressi di vendetta verso un sovrano che conosciamo bene XD

Notes:

Questo capitolo è LUNGHISSIMO, ma d'altronde lungo è meglio!
Ho ammazzato il romanticismo? Forse. Ad ogni modo avrei potuto dividerlo ma... siccome il prossimo è l'ultimo capitolo tanto valeva fare cifra tonda e chiudere a 50!

Finalmente Stella esce nel mondo, parla con la gente, diventa una "bambina vera" e si lascia alle spalle il guscio del burattino – pardon – della bambolina in cui era stata infilata a forza dalla vita e dalle circostanze. E Stolas impara a combattere le sue battaglie e scopre che le cose che gli stanno a cuore le ha sempre avute intorno, solo che era troppo preso dalle sue malinconie per godere appieno delle proprie passioni.

Non mi dilungo troppo nell'angolo autrice, avremo modo di dilungarci nel finale!

Vi aspetto nel prossimo capitolo, che sarà anche l'ultimo! (Se sentite piangere in lontananza non sono io, lo giuro!)

E come sempre grazie dal profondo del cuore!

Armilla Lunastorta.

Chapter 50: Non è troppo tardi

Summary:

Un finale aperto per una storia dolceamara.
Stella e Stolas imparano che non è mai troppo tardi, per nulla.

Notes:

(See the end of the chapter for notes.)

Chapter Text

Non è troppo tardi
 

Era venerdì sera e le lezioni erano finite da un po'. Stolas si era tolto la toga e ora se ne stava in maniche di camicia nel suo studio in Accademia. Aveva appena finito di riordinare gli appunti della conferenza che aveva tenuto quel pomeriggio e che avrebbe dovuto ripetere, la settimana seguente, in una sede distaccata del dipartimento, ed era sprofondato nella poltroncina per mettersi a leggere, nel silenzio e nel raccoglimento che quel posto gli dava, l'ultimo numero del Notizie dalla Maschera.

Aprì il giornale e si fiondò a pagina cinque, ma la rubrica di Stella non era più lì. Lo invase un moto di malinconia, e un nodo gli si formò nella gola, ma subito quella brutta sensazione svanì quando si accorse che la rubrica c'era ancora, solo che era stata spostata a pagina tre, ed era più lunga di una cartella almeno, e al centro spiccava in grassetto il titoletto dell'articolo della settimana:

«Isabella: ironia, strategia e libertà.»

Il nodo alla gola si sciolse, sostituito da un lieve calore nel petto. Aveva letto appena qualche riga quando udì un rumore di passi echeggiare nel corridoio vuoto, e poi un lieve bussare alla porta. Era strano che qualcuno lo cercasse a quell'ora, fuori dagli orari di ricevimento, e così a ridosso del fine settimana. Abbandonò il giornale aperto sulla scrivania e andò ad aprire.

Stella stava sulla soglia in un abito color glicine, sul viso un sorriso morbido e lieve.

"Ciao, Stols." Disse lei, poi avanzò di un passo dentro lo studio. "Posso?"

Un sorriso affiorò sulle labbra di Stolas. "Ciao, oh, certo che puoi... c'è un po' di disordine ma, lo sai, quando faccio delle ricerche è sempre un po'..." poi si affrettò a liberare una delle sedie dai tomi e le carte che ci aveva accumulato sopra, appoggiandoli con paradossale cura sul pavimento.

Lei avanzò guardandosi intorno con curiosità, in quella stanza ricolma di libri e rampicanti che abbracciavano le colonnine tra le finestre, e sedette con una naturalezza che non lasciava trasparire ormai nessuna timidezza o soggezione.

"Sai? Mi sono resa conto che è la prima volta che entro nel tuo studio. Mi fa piacere conoscere anche questo lato di te."

Stolas arrossì. "Già... hai ragione. È strano che tu non sia mai venuta qui."

"Abbiamo rimediato, no?" fece lei, allargando le braccia come ad indicare la stanza che li circondava. "Andre mi ha detto che stai girando molto, che sei una specie di pioniere del potere delle invocazioni."

"Sto solo provando a mostrare ai colleghi l'importanza di qualcosa che ha già potere di per sé." Rispose Stolas, colto da un moto di imbarazzo. "Tuo fratello esagera."

"Non credo esageri." Disse lei. "Riconosce semplicemente il tuo valore, e anch'io."

Lui glissò su quel complimento e si appoggiò alla scrivania, indicò poi il giornale aperto.

"Credo che sia tu quella che ha delle novità." Le disse, rivolgendole un sorriso. "Non mi perdo un numero. Mentre ti leggo riesci sempre a strapparmi una risata e, quando finisco, ho sempre uno spunto in più su cui riflettere."

Stella si soprese di non provare imbarazzo a quella rivelazione, credeva ne avrebbe avuto, come quando l'avevano letta Octavia e Andrealphus, ma invece aveva provato solo una punta di orgoglio e di sincera gratitudine.

"D'altronde immagino ti sia abituato al mio modo di scrivere." Rispose lei. "Grazie di aver trattato bene i quaderni."

Stolas abbassò lo sguardo. "Mi hanno aiutato a capire, e a capirti."

"E anche per la lettera, le cose che hai scritto sono..."

"... la verità." Completò lui, e poi sedette sull'unica altra poltroncina libera, dall'altro lato del tavolo.

Lei piegò appena in su le labbra e vagò con lo sguardo intorno, le guance irrorate di un leggero rossore.

"Oh e... non temere." Continuò allora Stolas "Quello che c'è stato, per me, è molto di più che la semplice storia di un matrimonio. Anche perché nessuna storia, con te, potrebbe mai essere qualcosa di dimenticabile."

Il rossore sulle guance di Stella si fece più evidente, e il sorriso le si allargò sul viso senza che ne avesse il pieno controllo. Appoggiò i gomiti sulla scrivania e intrecciò le dita, e pose il mento sul dorso delle mani intrecciate. "Modestamente..." rispose allora, ostentando una vena di vanità. Poi trattenne una risata imbarazzata. "...ma forse lo sarebbe stata, se non ci fossi stato anche tu."

I loro occhi si incontrarono, mentre il silenzio li avvolgeva, non opprimente e pesante com'erano stati sempre i silenzi tra loro, ma lieve e rassicurante come un lenzuolo di seta. Poi lei distolse lo sguardo e fece un ampio respiro, e riprese a parlare, questa volta il tono era greve.

"Sono venuta chiederti una cosa. Lo so che non è il tuo campo di competenza, ma Andre non ha un vero ruolo qui in Accademia, e ad ogni modo ritenevo che fosse più giusto parlarne con te."

Stolas si fece serio. "Puoi chiedermi tutto, lo sai."

"Mi piacerebbe entrare in Accademia, Stols. Raggiungere almeno una padronanza da Maestro di Primo Livello... Parlo di magia elementale, naturalmente. E poi vorrei anche... non sono sicura si possa imparare senza averne predisposizione ma, se così fosse, vorrei iniziare ad approfondire la magia di cura." Stella lo disse tutto d'un fiato, come se temesse che scandendo le parole avrebbe perso il coraggio di formulare la richiesta.

Lui prese a tamburellare le dita una ad una contro il pollice, la bocca stretta in una linea sottile e la fronte aggrottata, infine annuì.

"Per la magia elementale ti ho vista, sei a un buon livello e una buona tecnica per essere un'autodidatta." Le rispose, mentre un sorriso rassicurante gli si dipingeva sul viso. "Potresti saltare un paio d'anni e sostenere l'esame per entrare al terzo o quarto anno. Non ci sono molti adulti nei corsi standard, ma possiamo studiare un approccio seminariale, ci sono quattro o cinque cicli ogni anno a riguardo, basterà iscriverti al singolo seminario e poi...".

"Stols..."

"...potresti seguire i cicli di conferenze coerenti con l'argomento e dare gli esami da estern..."

"Stols!" Stella lo interruppe. "Puoi darmi i dettagli per iscritto? Mi sono già persa" poi rise di gusto.

Stolas arrossì e rise con lei, poi si sfregò la nuca con una mano. "Mi dispiace, su queste cose sai che tendo ad essere tecnico e noioso."

"Ti conosco, va bene così. Sistemeremo i dettagli, mi basta sapere che è possibile."

"È qualcosa che si può fare. Entrambe le cose. Ma..."

"Ma?"

"Per la magia di cura dovresti partire da zero" spiegò "Lì seguiresti i corsi con ragazzi dell'età di Via, se non più giovani..."

Stella piegò la bocca in un'espressione amara. "So che sono un po' in ritardo, ma la vita è andata così."

"Se vuoi, le basi le conosco. Posso... insegnartele." Si propose Stolas "Poi faremo come stiamo facendo per la magia elementale, così eviterai di spaventare i ragazzini." aggiunse infine con una risata.

Stella gli rivolse uno sguardo di simulato risentimento "Questa cosa che io possa spaventare i ragazzini da dove ti salta in mente?" domandò incrociando le braccia.

"Io avevo quattordici anni ed ero molto spaventato da te." Rispose lui allargando le labbra in un sorriso.

Questa volta fu lei a scoppiare a ridere. "D'accordo Stols, per il bene dei ragazzini la magia di cura aspetterà ancora un po'. Ma, forse, accettare che tu me la insegni è... troppo."

"A me sta bene, se sta bene anche a te." Rispose lui.

Lei annuì. "Va bene, allora." Allungò la mano per stringere leggermente quella di lui. "Grazie, per tutto." Gli disse con un sorriso, poi si alzò in piedi e stese con i palmi le pieghe della gonna.

"Vai già via?" domandò Stolas, ora la guardava con occhi grandi e velati di nostalgia.

"Per oggi sì, Stols, è tardi, Via mi aspetta a casa."

"Sì, hai ragione." Si affrettò a concordare lui. "Ci accorderemo poi per tutto, per l'ammissione e per... per le lezioni."

"Certamente." Lei gli sorrise "Scusa se sono piombata qui senza avvisare..."

"Sei sempre la benvenuta. Qui, e a palazzo."

Stella annuì, poi si guardò intorno, abbracciò con lo sguardo tutto lo studio di Stolas e quando fu sulla soglia, prima di andare via lo guardò negli occhi e gli disse:

"Lo sai? Anche se sulla porta non ci fosse stato il tuo nome, anche se tu non fossi stato qui dentro e io fossi entrata in una stanza in cui non c'era nessuno, lo avrei capito che questo era il tuo studio. Ci sono i tuoi libri, ammucchiati con lo stesso metodico disordine con cui ti vedevo ammucchiarli da ragazzo. E non ci sono fiori recisi, solo piante rigogliose che abbracciano le colonne e godono della luce sul davanzale della finestra. Ci sono i tuoi appunti a margine di quella carta astrale, nella tua grafia piccola eppure così chiara. Oh e... c'è uno stupido Harmony sotto quella sovraccoperta, la riconosco!" poi rise, e a quella risata si mescolò uno sguardo sereno e colmo di sincerità "...ad ogni modo, Stols, è la prima volta che, al posto di vedere in tutti questi dettagli dei frammenti di te, riesco a vedere te in tutte le cose che ti appartengono."

Stolas non seppe come rispondere, ed ebbe l'impressione che forse non avrebbe neppure dovuto. Forse erano le parole di Stella ad essere già una risposta a qualcosa che lui le aveva detto, per lettera, qualche tempo prima. Così rimase in silenzio abbastanza a lungo da vederla allontanarsi nel corridoio vuoto dell'Accademia. Poi richiuse la porta dello studio, e posò lo sguardo su tutti i dettagli che lei aveva nominato: sui libri ammucchiati sul pavimento, sulle piante alla finestra, sulle carte astrali appuntate, e persino sulla sovraccoperta di astronomia che nascondeva il suo nuovo romanzetto d'amore. Infine, tornò a sprofondare sulla poltroncina e riprese a leggere, dove lo aveva interrotto, l'articolo di lei.

***

Stolas fece recapitare a Stella, per lettera, i dettagli inerenti alla domanda di ammissione, redatti con la sua tipica meticolosità e chiari in ogni passaggio. Il programma d'esame, che pure era formulato con la stessa meticolosità, glielo aveva portato invece di persona un pomeriggio. L'aveva trovata sola: Via era a lezione di scherma, Andrealphus si era attardato in Assemblea. Le aveva detto che si sarebbe fermato poco, e perciò, all'inizio, non era andato oltre l'androne.

Le aveva spiegato che, per le tempistiche, l'esame si sarebbe svolto ormai all'inizio del secondo semestre, e che sarebbe stata valutata la padronanza dell'elemento spontaneo nei parametri di controllo, potenza e capacità di generazione. Sarebbero state prese in esame, dunque, principalmente le sue capacità pirocinetiche.

Per accedere al quarto anno era richiesto, inoltre, almeno il controllo su un altro elemento oltre a quello classificato come spontaneo; non era invece necessario essere in grado di generare quest'ultimo. In mancanza di sufficiente controllo sul secondo elemento avrebbe potuto accedere solamente al terzo anno. Stella lo rassicurò, gli disse che nell'ultimo anno Andrealphus le aveva insegnato i fondamenti di manipolazione dell'acqua, e che quelli avrebbe presentato sperando che bastassero.

Poi lo aveva invitato a prendere una tazza di tè, avrebbero potuto parlare meglio, e lui l'avrebbe aiutata a compilare tutta la noiosissima parte burocratica. Stolas aveva tentennato, incerto sul da farsi ma, alla fine, non aveva avuto la forza, e a dire il vero neppure la volontà, di rifiutare. Così l'aveva seguita nel salotto, ribadendo che si sarebbe fermato poco, giusto il tempo di occuparsi della parte noiosa, ma il tempo, si sa, ha lo squisito pregio della relatività.

E così la compilazione dei documenti era sembrata loro lunghissima, eppure era durata appena una manciata di minuti, mentre le ore che avevano passato a parlare, mentre il tè si raffreddava nelle tazze e i biscotti giacevano dimenticati nei piattini, erano passate così in fretta che avrebbero giurato non fosse passata più di mezz'ora.

Lei gli aveva raccontato dell'ultimo spettacolo teatrale a cui aveva assistito, della bravura della nuova soprano che non aveva mai avuto occasione di ascoltare prima di allora, ma che aveva eseguito magistralmente "Oh luce di quest'anima". E di come, durante l'intervallo, aveva rimesso al loro posto due baroni che nulla sapevano di musica, e che si erano messi ad ostentare immotivato disappunto sulle capacità degli archi dell'orchestra stabile del teatro. E ancora di come le scelte di regia avessero reso davvero giustizia all'Opera in scena.

E Stolas l'aveva ascoltata, capendo metà della metà di quello che lei gli raccontava con tanto entusiasmo, ma non annoiandosi mai. E poi le aveva raccontato della sua conferenza del lunedì precedente, e di aver ottenuto, per il secondo semestre, la possibilità di tenere un piccolo corso sulla magia d'invocazione, nonostante ancora l'Accademia non ne avesse approvato la codificazione. Le raccontò che all'ultima conferenza c'erano almeno il doppio dei maghi e degli studiosi rispetto a quando aveva iniziato la sua piccola battaglia itinerante, e le disse di come quel tipo di folla non lo mettesse a disagio, contrariamente a quel che gli accadeva ai banchetti.

E anche Stella aveva capito meno della metà di tutti i tecnicismi magici di cui aveva riempito il racconto, eppure anche lei non si era annoiata un istante, né un istante si era distratta. Lui le disse anche che nella serra era riuscito a far fiorire le margherite e, questa volta, al posto di addentrarsi in dettagli da botanico, le parlò solo della bellezza dei fiori.

Stolas aveva detto che si sarebbe fermato poco, ma finì per passare in quel luogo innevato e fuori dal tempo l'intero pomeriggio, e ancora una volta, quando dovette andar via, sentì una sensazione dolceamara invadergli l'animo. Sapeva che non si sarebbero più visti fino all'esame di ammissione, o fino all'inizio del primo seminario in gennaio.

***

Stolas non c'era il giorno dell'esame, teneva il corso sulla magia d'invocazione in una delle sezioni distaccate dell'Accademia, e lei lo aveva rassicurato per lettera di non preoccuparsi, e che ad accompagnarla ci sarebbe stato Andrealphus.

Stella credeva che l'ansia l'avrebbe divorata, ma invece, una strana euforia l'aveva invasa quando era entrata nella saletta piccola, con le panche in legno di mogano e le tende di velluto – rese ignifughe dalla magia, naturalmente - dove sedeva la commissione di vecchi rattrappiti, diversa da quella che anni prima aveva giudicato Stolas nell'esame di Guardiano, ma identica nei modi misurati e austeri, e nelle toghe inamidate.

Il timore dell'errore era sopito, sovrastato da una certa innata fiducia in ciò che aveva imparato a ritenere parte della propria natura. Ed era stato con quella fiducia, nel serissimo abito indaco che aveva scelto per l'occasione, che aveva eseguito la sua dimostrazione, eccellendo in tutte le fasi, meno una.

"Te l'ho detto, Andre, la mia tecnica non è buona. Sono troppo... impulsiva."
"Ancora non sai come sia andata, è inutile agitarsi."
"Tu non hai visto le loro facce, mi guardavano come a dire: ma sa almeno come mettere le mani?"
"Sono certo che stai esagerando, se tu mi avessi lasciato entrare..."
"...se tu fossi entrato sarei a stento riuscita ad accendere una candela. Mi metti in soggezione. Lo sai!"

E poi, dopo un'attesa che le aveva generato più agitazione della prova stessa, era stata richiamata dentro per essere informata che era stata ritenuta sufficientemente capace da accedere al quarto anno.

"... perché anche se la tecnica di generazione del fuoco non è perfetta nei gesti, siete dotata di una spontaneità che dimostra una certa sicurezza e lascia trasparire una carica magica piuttosto buona, inoltre, sembrate dotata di una personalità in grado di far emergere al meglio l'elemento spontaneo. Per quanto riguarda la tecnica, avrete modo di affinarla."

"Te lo avevo detto!" aveva esclamato Andrealphus, con un sorriso fiero stampato in faccia.
"Così come io ti avevo detto che la mia tecnica fa schifo." Aveva ribattuto lei, ma non era una vera lamentela, nell'animo si sentiva invasa dal dolce calore della soddisfazione.

***

Il sole era tiepido quel giorno di gennaio, il cielo azzurro e senza nuvole. Stella si era svegliata presto, anzi si sarebbe potuto affermare che non aveva dormito per nulla, eppure non percepiva alcuna stanchezza. Si era preparata poi con un infantile entusiasmo, aveva acconciato i capelli in una treccia morbida, e sistemato il vestito con più cura di quanto non facesse per i gala. Poi aveva infilato nella cartelletta di cuoio, che Andrealphus era solito usare per le riunioni dell'Assemblea, un quadernino rosa ancora nuovo, e caricato la stilografica d'argento che in tutti quegli anni l'aveva accompagnata.

"Se tu prendi la cartella cosa porto in Assemblea? Te ne compro una nuova, più elegante, non devi usare la mia."
"Dai Andre, la tua fa un effetto così serio. Mi dà un certo tono!"
"Lo sai che in Accademia non ci vai per giocare?"
"Dai! Fammi passare i miei piccoli sfizi. E poi a che ti serve? Dentro non ci tieni niente, era vuota."
Andrealphus la guardò stizzito non sapendo cosa dire. "Per darmi un tono!" rispose, infine.
"Lo sai che in Assemblea non ci vai per giocare?" gli fece il verso lei. "La cartella la tengo, comunque."
Suo fratello scosse la testa poi fece un sospiro di divertita rassegnazione: "Va bene, è tua, te la regalo."

Lei lo guardò con occhi vivaci e gli scompigliò i capelli. "Lo sapevo che eri un bravo fratello!"

"Sono un bravo fratello anche perché ti accompagno. Come mai non hai accettato l'invito da parte di Stolas di andare lì utilizzando un portale?

"Ha già fatto tanto, e poi l'Accademia non è lontana."

Stavano quasi per uscire, quando Octavia gli andò in contro, a sorpresa, sull'uscio. "Mamma!"

"Via!" Stella non si aspettava di vederla lì, doveva certo aver chiesto a suo padre di aprire un portale sul palazzo. "Non saresti dovuta andare con papà?"

Sul viso di Via comparve un sorriso canzonatorio. "E perdermi il tuo primo giorno di scuola? Giammai!"

"Signorina! Osi prendere in giro tua madre?" rispose Stella, con un finto tono di disappunto.

"Per una volta che posso!" si difese Via facendo spallucce. "Comunque, vengo con voi."

Il viaggio fu silenzioso, l'euforia aveva lasciato spazio ad un'irrequietezza sottile che Stella non riusciva a spiegarsi. Sentiva le mani fredde e i palmi sudati, e lo stomaco le si aggrovigliava. Rileggeva i titoli delle conferenze che avrebbe dovuto seguire, e si rendeva conto che, se nella pratica il controllo della magia era per lei naturale, nella teoria aveva tante carenze da riuscire a stento a decodificare, dai nomi, il contenuto delle lezioni che avrebbe dovuto seguire. Ogni tanto, nel tragitto, aveva domandato a Via chiarimenti a mezza voce, e lei si era premurata di appuntarle dei piccoli promemoria a margine.

L'Accademia non avrebbe mai smesso di apparirle austera e seria come le era apparsa la prima volta che l'aveva vista, ma quel mattino l'edificio le era sembrato più imponente che mai, con il porticato che si estendeva sulle due ali del palazzo, e le immense finestre ad arco e il torrione con il grande orologio astronomico.

E poi, quando furono abbastanza vicini, riuscì a scorgere Stolas in fondo al vialetto, di fronte all'ampio portone di mogano scuro. Aveva addosso la toga adornata di intarsi dorati, che scintillavano nella luce del sole invernale; l'aspettava, col portamento fiero e austero dell'accademico, e con il volto illuminato da un sorriso sereno e accogliente.

Così aveva percorso il vialetto al braccio di Andrealphus, con Via al suo fianco che camminava con un passo energico e spedito. Quando furono ai piedi dei gradini che la separavano dall'ingresso, suo fratello la salutò, e le sussurrò all'orecchio: "Allora, buona fortuna.". Poi fece a Stolas un cenno di gratitudine. Via, invece, le diede un bacio sulla guancia, e baciò sulla guancia anche suo padre, e poi si affrettò su per le scale:

"Io vado dentro, tu sei in buone mani con papà!"

"Buona giornata piccola mia!" rispose Stella. "Prometto che farò finta di non conoscerti nei corridoi." Aggiunse ridendo.

"Oh, non preoccuparti." Disse Via, con un tono squillante e allegro. "L'importante è che non mi chiami piccola!" e le fece un occhiolino che risultò goffo come quelli che tanto avevano caratterizzato Stolas da ragazzo. Poi corse dentro, e rimasero soli davvero.

E fu allora che Stella fu colta da un improvviso senso di vertigine, e l'irrequietezza, fino ad allora sottile, la travolse sotto forma di una incommensurabile paura. Tre gradini la separavano da Stolas, e pochi metri la separavano da un futuro in Accademia, ma lei aveva passato la vita a credere che quei pochi passi fossero distanze incolmabili. Così gli anni erano passati, e ora che da ragazza si era fatta donna, e la distanza, prima incolmabile, sembrava diventata così percorribile, l'assaliva il timore che, in fondo, fosse tutto vano. Che stesse davvero giocando, e che il tempo fosse stato tiranno sul serio. Che la sua seconda possibilità non fosse che un miraggio, un sogno che stava inseguendo e da cui, presto o tardi, avrebbe dovuto svegliarsi.

Allora rivolse a Stolas uno sguardo smarrito. Lui le sorrise e le porse la mano, lei la afferrò: la sentì calda e morbida al tocco, e l'accolse una stretta gentile e sicura. E così, col cuore in gola, e abbandonandosi in quella stretta così nota e così nuova al contempo, salì i tre gradini che li separavano.

"Sei pronta?" domandò lui.

"Io... non lo so."

"Qualcosa ti preoccupa?"

"Se fosse troppo tardi, Stols?"

"Non lo è." Le rispose lui, con un tono morbido e dolce, poi le strinse più forte la mano.
"Non è troppo tardi, per nulla, se lo vuoi."

 

Fine -

 

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«Ma come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? Tutto è sempre cominciato già da prima, la prima riga della prima pagina d'ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci o cento pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo.»

(Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore)

Avevo citato Calvino all'inizio dell'ultimo arco, e perciò lo citiamo, in un'altra forma, alla fine. Nella letteratura, come nella vita, siamo il risultato delle storie che ci precedono, e nuove storie ci attendono là dove credevamo ci fosse una fine.

Ma adesso lasciamo Stella e Stolas in questo tacito ritrovarsi, se lo sono meritato. 

Notes:

Così siamo giunti alla fine, e ancora stento a credere di aver portato a termine quella che per me è stata una “piccola impresa narrativa”.
Questo racconto è nato dopo un lungo periodo di blocco narrativo, ed essere riuscita a portarlo avanti e a concluderlo è per me molto molto importante.
Perciò ringrazieremo per prima Stellina, per avermi riportato sulla retta via dell’ispirazione letteraria. E al contempo ci scuseremo con lei, per aver preso in prestito il suo nome e le premesse, e per aver raccontato tutta un’altra storia, con gioie e sofferenze annesse. Scusami per tutte le disavventure Stellina, e sempre grazie!

E poi volevo ringraziare tutti coloro che sono arrivati a leggermi fin qui! Nonostante la storia sia in italiano e il sito principalmente anglofono, sono stata molto contenta che siate riusciti a seguirmi e di aver trovato riscontri positivi.

Grazie infinite dal profondo del cuore!